lunedì 16 novembre 2015

"Quale poesia oggi?" di Ennio Abate


Orbilius* vs Samizdat e viceversa. Narratorio



Orbilius –

Samizdat mi parlava continuamente di questi *moltinpoesia*. Sì, sì, gli dicevo, è vero che sono spuntati come funghi dopo che nel tuo Paese – in ritardo, eh! - c’erano state (quasi insieme) scolarizzazione di massa e acculturazione provocata da giornali, radio e televisione. E posso anche ammettere che questa gente comune non è più analfabeta o semianalfabeta come lo erano i loro nonni e spesso i loro genitori. Ma che novità è mai questa? Scribacchiano come possono, rovistano tra le vaghe memorie che gli restano del mondo contadino e artigiano. O si perdono nelle pieghe del loro *io* alle prese con la vita quotidiana e sentimentale. Che poi non è neppure più quella dei piccoli borghesi di una volta. Almeno quelli erano vicini alle élites politiche e culturali (Chiesa, Partiti) e capaci di un certo contegno e stile. Ma ora, che sbracamento! Tutti scrivono, tutti scrivono “poesia”, tutti vogliono pubblicare! Quanti ne avevo visti di questi “bassi cetomedisti” alle presentazioni di libri, ai reading di poesie, nelle redazioni di riviste e rivistine o, più tardi, nelle “foto-santini” sui social network (blog, siti, FB, ecc.). Che ridicoli, servili e spesso presuntuosi imitatori! Entravano in questi “bazar della Cultura” come prima andavano a messa o nelle sezioni dei partiti. Coltivando micragnosi e petulanti i loro minuscoli sogni di riscatto! E sempre pronti a farsi solleticare i cuoricini dall’ultima novità editoriale, dall’ultimo film vincitore a Venezia o a Cannes. O a sorbirsi seminari, convegni, conferenze, apparizioni fulminee di *maîtres à penser*, di cui annotavano – sempre ossequiosi! - anche le sputacchiate. Per citarle subito dopo su FB.
A me non parevano un granché. Anzi, a tirar fuori il rospo, proprio non li sopportavo. Non avevano idea di cosa fosse stata, e non solo in questo Paese, la Poesia! Ne avevano appena intravisto il Seno, appunto, sui banchi di scuola, mostratogli da insegnanti bacchettoni e pure loro sempre meno preparati. Eppure, dopo quella Visione, si ostinavano a masturbarsi e a produrre surrogati rimasticati. «Simil-poesia», «righe a capo», «parapoesia»: ah, quanto lungimiranti erano stati Raboni, Majorino e Kemeny! Che, sì, incontravano questa pletora di sgomitanti ogni tanto, ma con discrezione, concedendosi solo per qualche ora ai loro corteggiamenti. E perciò davo ragione a tutti quelli che con giusto sprezzo li definivano *sottobosco * o *ceto medio semicolto*. Per me era chiaro che il loro destino sarebbe stato quello di rimanere sulla soglia della Vera Cultura. A orecchiare, commentare, fare magari anche la domandina intelligente o provocatoria a quelli che davvero di Poesia se ne intendevano. Ed era del tutto giusto che, di fronte alla pressione di tale marmaglia, i Veri e Pochi Poeti adottassero la strategia del custode kafkiano di «Davanti alla legge»: tenerli a bada, tenerli nell’incertezza; e, allo stesso tempo, lanciargli di tanto in tanto anche qualche cifrato invito. (Si «potrà però entrare più tardi. – È possibile, dice il custode, - ma ora no -»).
Samizdat, secondo me e malgrado i miei avvertimenti, si era mescolato troppo con loro e prendeva sul serio quei loro confusi bisogni. A volte mi pareva davvero uno di loro. Miope e sciocco come loro, insomma. E, pur considerandolo mio amico, sentivo che cedeva alle loro bassezze. Non aveva la postura giusta! S’immaginava cose ingenue, infantili, utopistiche, fuori dal mondo. Pensava che quella gente comune potesse *maturare*! E prima o poi produrre qualcosa di buono e di suo, *in proprio*. Magari pure con l’aiuto dei Veri e Pochi Poeti, che secondo lui non dovevano chiudersi nelle loro Case della Poesia. Ma potevano mai quei malcapitati esercitare le stesse funzioni – studiare, immaginare, ideare, oggettivare in opere, divulgare - dei Veri e Pochi Poeti, cioè di quella èlite necessariamente ristretta e iperselezionata che il nostro Sistema – l’unico esistente e reale - assorbe e riconosce e giustamente onora (e paga)? Impossibile. Samizdat proprio non capiva certe cose! Che, ad esempio, era un bene che quei suoi *moltinpoesia* rimanessero ai margini, in armonia con le loro condizioni economicamente precarie o fragilmente garantite; e che esaurissero il meglio delle loro energie per nutrirsi, pagare le loro abitazioni, amoreggiare e fare, sì, anche i “poeti”, ma al massimo la domenica. Né intendeva che era sempre un bene che fossero alla mercé dei Veri e Pochi Poeti (e dei Veri e Pochi editori), che li tirassero invano per la giacca e che invano li scegliessero come santi protettori, guide, guru, maestri. A forza di sgomitare e magari lavorare gratis prima o poi avrebbero imparato la lezione: che erano troppi a scribacchiare, che dovevano stare al loro posto e che solo ogni tanto si poteva pescare in mezzo a loro il beniamino degli Dei da cooptare. Per dimostrare che anche dalla marmaglia può sorgere miracolosamente il Meglio e che il Sistema era sano, realistico e persino generoso. Ma a patto che i restanti rimanessero buoni buoni, cioè pubblico (possibilmente pagante).
Come s’illudeva il povero Samizdat a pensare che da questa gente comune sarebbe uscita prima o poi quella che lui – un’altra sua fissa! - chiamava *poesia esodante*. Ma dove voleva esodare, andare, migrare? Non capiva che non c’era più nessun *fuori*? Che non era più neppure pensabile una “comunità altra” o più “civile” (neppure di soli poeti)? Ancora attaccato alle defunte idee comuniste dello Scriba, riteneva irrinunciabile la *funzione critica universale* della poesia! Che in passato sarebbe stata svolta - diceva - dagli antenati dei *moltinpoesia* (quali poi?); e che ora essi avrebbero dovuto ereditare come compito. Che “cattivo soggetto” s’era inventato! Questa gente comune, questi “bassi cetomedisti”, più o meno poetanti e scribacchianti, mai avrebbero preso il posto dei mitici Soggetti ritenuti in passato “forti” (quali la classe operaia o “i lavoratori” o “il Partito” e – loro complementare – gli “intellettuali”)! Io glielo ripetevo: ma non vedi che i tuoi stessi amici e conoscenti hanno tutti ripiegato su forme di collaborazione con le Istituzioni che volevano “abbattere” o “cambiare”? Io di questi *moltinpoesia* decisi ad esodare (o che avessero maturato il bisogno di farlo, staccandosi dalle Istituzioni) proprio non ne scorgevo. E poi: per andare dove? Qual era la Terra Promessa che Samizdat indicava? Dov’erano i Mosè e compagnia bella? Infine se - pensa un po’! – Samizdat stesso ammetteva che di Terra Promessa non se vedeva all’orizzonte e che la strada da imboccare bisognasse costruirsela da soli (sì, magari al buio, perché non se ne vedeva né la direzione né lo sbocco!) sai che incoraggiamento passava alla sua pigra marmaglia!
* Ho rubato il personaggio di Orbilius a Carlo Oliva (1943-2012), che avevo intervistato sulla sua «Lettera a una studentessa». (Cfr. Immigratorio.wordpress: Su Carlo Oliva. Lettera a una studentessa)
 Samizdat -
«Questa nostra dottrina sarà forse accolta con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la consistenza dei patrimoni».

(Baruch Spinoza, «Trattato politico»)

Orbilius, cazzo! Dal tuo Olimpo di cartapesta proprio non vuoi uscire! E vabbè sputare sulle ebbrezze rivoluzionarie del ’68-’69. Che mente sobria e solida la tua! Costruitasi ben prima e lontano da quel casino. In cenacoli ristretti, fianco a fianco dei grandi Maestri. Coi quali analizzasti, ancor prima che venissero pubblicati, versi divenuti famosi. Che privilegio rispetto a noi! Come Faust hai letto tutti i libri, tu! E ora che in tanti (sempre «troppi» per te!) abbiamo preteso non solo di leggere e scrivere ma di affannarci nel sacro pomerio della Poesia, per te è davvero troppo. Ti capisco! Ci puoi accettare nella tua Casa della Poesia solo come pubblico, come dilettanti, come «scriventi versi». Cioè dopo aver messo bene in chiaro che dobbiamo restare là in basso - tre o quattro gradini - rispetto al piedistallo dove tu traffichi con gli Scrittori e i Poeti «veri».
«Nebulosa poetante? Ma di che cianci?» mi dicevi. Soltanto stelle e stelline meritano la tua attenzione. Eh, sì, la tua filosofia! La selezione della specie (non solo poetica) da secoli procede secondo natura ed esalta le qualità di pochi individui, i Migliori. Gli altri,– consapevoli o inconsapevoli, ingenui o furbastri – tramerebbero (ahi, Nietzsche!) per appiattire i Migliori sulla propria condizione di mediocri! Piaccia o meno, le cose stanno così anche in poesia, borbottavi sornione. Ci sono individui le cui opere hanno un alto valore poetico (e intellettuale e morale) e tanti che sono e saranno mediocri, conformisti, scribacchini, imitatori, epigoni, ripetitori, gregari in ogni caso. Sei rimasto fermo lì: le masse possono essere plasmate, mai plasmare il mondo.
Non sai nulla delle modifiche prodotte (anche in poesia) da quelli che chiami ‘masse’, soltanto perché a te lontani e in fondo ignoti. E figurati se potevi dare credito ai miei argomenti: che il Novecento è stato il secolo del risveglio delle masse; che nell’arte e in poesia le avanguardie hanno pur dato voce alla mentalità e alla sensibilità dei molti (io poi che ho in mente sempre la Bauhaus!); che la psicoanalisi ha svelato un inconscio (cioè la parte sommersa dell’iceberg, come dire: i molti, gli anonimi, gli ignoti) addirittura più importante del conscio (la punta, come dire: i pochi); e che in politica individui e collettività si sono scontrati proprio come adesso facciamo noi due - io, Samizdat, e tu, Orbilius – gli un contro l’altri armati. L’asservimento dei molti col fascismo-nazismo? Macché, fu rivoluzione! Il tentativo di liberazione dei molti nell’ipotesi del socialismo/comunismo? Rovine da dimenticare! Tanto si sa come sono finite queste cose. Coi totalitarismi, come si dice adesso. E il discorso sarebbe chiuso per sempre.
Eppure, malgrado contraccolpi e tragedie del secolo concluso, i molti non me li cancellerai per tornare a imporre il primato dei pochi. Ho cercato di farti ragionare. Ti ho chiesto: «Lo vogliamo affrontare anche in poesia questo conflitto tra pochi e molti?». Ti ho proposto persino un’alleanza. Sì, pensavo che potessimo ritentare assieme un incontro tra i filosofi – mettiamo quelli come te - e i tonti - mettiamo quelli come me. Come diceva pure il Vecchio Scriba. Anche in poesia? E perché no. Quando te lo proposi, mi rispondesti schernendo: «Ma se fu lo stesso Scriba a dire che «non esiste il Petrarca per tutti!». «L’avete mantenuta voi aristocratica! Ma non è detto che spadroneggerete sempre», ti ribattei. E chiudemmo lì. Insomma, da un certo orecchio non ci senti. E allora, stufo delle tue crestomazie, dei tuoi canoni, dei sottili distinguo fra maggiori e minori di cui ti diletti, stufo di sentirti proclamare in astratto il valore universale della Grande Poesia, della Bellezza, della Parola e subito dopo vederti intrigare nei giochi sporchi delle cooptazioni, dei favoritismi, dei nepotismi, della mafiosità a favore di alcune cordate e ai danni di altre (altro che Geni e Grandi! L’orticello della Poesia, lo gestite tribalmente!), ti ho salutato, te e i tuoi Grandi.
Sì, me ne resterò nella nebulosa che tu neppure vedi. Dove tutto è difficile da chiarire, certo. Cosa significa *stare coi moltinpoesia* (la mia scommessa!). E *essere moltinpoesia*? E quanti modi di esserlo ci sono? Ah, sì, sì, quante ambivalenze anche nei *moltinpoesia*! Altro che *Quarto Stato scrivente e poetante che avanza come nel quadro di Pellizza da Volpedo verso il Sol dell’avvenire della Poesia Futura!* Appena ho invitato *alcuni dei refusés* (quelli che incontravo e che a me parevano così classificabili, eh!) a staccarsi dalle tue conventicole o dalle Case della Poesia, eccoli traccheggiare o sparire per non compromettersi con le cattive compagnie. E dopo qualche anno ecco i nomi di uno o due di loro nella tua “prestigiosa” collana di Poesia o tra gli ospiti d’onore di non so quale Festival della Poesia. La tua nefasta influenza, Orbilius, continua e non è facile scalzarla! Eh, sì, di individualismo, di boria, di micromafiosità ce n’è sia tra i *moltinpoesia* che tra i tuoi *pochinpoesia*!
Ma allora - mi dirai - se la stoffa umana è questa, che senso ha scegliere a favore dei *moltinpoesia*? Sta’ con noi. Lascia correre storto il mondo, che è così e sempre sarà così! Pentiti! (Qui musica dal «Don Giovanni» di Mozart…). No, caro il mio commendatore, non mi arrendo e non te la do per vita! Rimuginerò da solo o con pochi. Scandaglierò i segnali contraddittori che manderanno i miei *moltinpoesia* e i tuoi *pochinpoesia*. Vi seguirò uno per uno e come insiemi. Interrogherò pure i *moltinpoesia* e i *pochinpoesia* che si dibattono dentro di me. Ci vorrà tempo. Prima o poi si riuscirà a capire meglio le ragioni profonde che ci fanno azzuffare. Non sputerò mai però, come fai tu, sulla vitalità sgangherata, grottesca, persino oscena dei molti. (Quella che Pasolini mostrava ne «La ricotta»; quella degli affamati che arraffano il cibo da cui sono stati a lungo esclusi e rischiano un’indigestione o perfino di crepare). Insistendo nell’esercizio del fare poesia, fosse pure condotto in modi infantili o a casaccio, diventeremo più saggi ed accorti, meno sregolati e caotici. Scaveremo più direttamente e da vicino nei bisogni, desideri e problemi, che tu hai ridefinito esclusivamente dal tuo punto di vista elitario. Continuereremo - pedagogici e militanti come Gianmario Lucini - a far salire i *moltinpoesia* sulle zattere di fortuna (blog, siti, riviste, piccole case editrici) che riusciremo ad approntare.
Ci vorrà tempo. Ma perché tutte queste trasformazioni del mondo attorno a noi e delle forme del lavoro umano (impresa a rete, telelavoro, ecc.) dovremmo lasciarle nelle mani tue e dei tuoi simili? Se il linguaggio stesso sta diventando elemento produttivo, come dicono, non potrebbe venirne qualcosa di buono - un arricchimento comunicativo e conoscitivo - anche per i *moltinpoesia*? Al tuo «Sveglia! Comandiamo (come sempre) noi pochi!» rispondo ancora con un «Bisogna sognare e svegliarsi», perché abbiamo bisogno di entrambe le cose. E perciò il mio sogno da sveglio in poesia sia questo: che fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi, ci possano essere continui rimandi (da sviluppare, non da isolare, staccando di netto l’eccellente dal mediocre, come tu fai); che si costruiscano altre gerarchie, diverse però dalle tue sempre e solo elitarie; che ci sia un ordine del discorso costruito sui molti e non sui pochi; che ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ possano avere un senso includente e non escludente; che si arrivi a un linguaggio comune (ma non semplificato e inerte, come quello dei mass media); che la storia della letteratura e poesia italiana faccia i conti con quelle di altri popoli e, tanto per cominciare, con le figure – reali e mentali - dei migranti, che c’interrogano (e interrogano il nostro passato) tenendo a mente le ferite che portano sulla pelle e nella memoria; che si avvii, malgrado le enormi resistenze da parte loro e da parte nostra, un grande esercizio di traduzione reciproca.
So una cosa, Orbilius: persino nei poeti classici e non, morti o viventi, noti e meno noti, è possibile rintracciare questa necessità di *essere molti in poesia* che tu neghi. Persino nella «Commedia» Dante! Che pur con una tensione tutta medioevale, voleva condividere con quante più persone possibili il suo «pane degli angeli». Il suo io era già, nei modi possibili ai suoi tempi, un io-noi. Toh, non sarà stato per caso un antenato del *moltinpoesia*? Concludo. Resto acrobata su un filo. Tra i realisti-realisti come te, che vanno sempre “al sodo” e mi vorrebbero tirar giù con domande del tipo: «Ma adesso dovremmo lasciar perdere Dante o Zanzotto e metterci a leggere le pseudopoesie scritte da gente ignota e comune?» e i *moltinpoesia* limacciosi che salivano appena tu parli, Orbilius, perché tu sei amico e mentore dei «veri Poeti» presenti sul Mercato. Io intanto riprendo in mano «L’Italia sotto la neve» di Roberto Roversi, che tutta la vita diffuse i suoi versi (allora ciclostilati) rigorosamente «fuori commercio». E me la rido di te, Orbilius, e dei tanti che si sono “buttati in poesia” solo per cancellare le tracce del loro passato di “innovatori” o di “rivoluzionari” in un indecente *autodafé* per ottenere un loculo nella tua postmoderna corporazione-fortezza.
                                                                                           Ennio Abate


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