mercoledì 31 maggio 2017

Gilberto Isella "Materie se non luci" con disegni di Enrico Della Torre, Pagine d'Arte, 2017




Assolutamente imperdibile la collana a cui Matteo Bianchi e Carolina Leite hanno dato vita per ospitare tutte le varianti dell'incontro tra immagini e testo! L'ultimo nato è il libro di Gilberto Isella "Materie se non luci" con disegni di Enrico Della Torre, che offre una sorta di disarticolazione interna in cui le tangenze tra testo e immagini vengono offerte in alcuni punti folgoranti, per poi essere riassorbite nella continuità del flusso.

Il testo di Isella nasce interamente da una volontà descrittiva che si svolge ad occhi chiusi, osiamo supporre. Inseguendo un moto, linea o punto che sia, il poeta ticinese da lì si diparte per voli imponderabili: sotto il nostro sguardo interiore, attivato dalle parole poetiche, si dispiegano i soli e il fieno di Van Gogh o certi prati in pieno sole di Monet:

Pennello o stupefatta spatola
non placa il giallo impaziente
che mulina tra le spighe

o, ancora, lacerti di mantelli metallici di madonne rinascimentali e poi, magicamente,  evento rapidissimo, ecco l'innesco incendiario che illumina il punto di contatto con i disegni di Enrico della Torre, risalenti al 1988:

La forma offre grazie irsute alla materia
ma questa la respinge, già paga di opercoli
già invasa da mostri

Così per uno spleen senza confini
il magma trascina i suoi resti di feltro
in memoria delle spine

Scende stampiglio riderello
sul francobollo di un fluire incredulo

Le parole e le immagini allora rifulgono per quel particolare prezioso processo alchemico che vede due mondi, inaccostabili di fatto, fondersi, come fossero della medesima materia. I disegni di Enrico Della Torre, irriverenti, giocosi, ma totalmente dediti al gioco più serio del mondo: quella verifica del passaggio dal punto alla linea e  da molteplici linee alla superficie rivela non solo il suo debito kleeiano, le costruzioni rigorose che riposano alla base delle leggi formali, ma anche il divertito e divertente animismo che trasforma questi personaggi di feltro (per la particolare consistenza della grafite, morbida e spessa) in testimoni leggeri e scanzonati. E la poesia di Isella si metamorfizza al punto da rendersi anch'essa visibile, trasformatasi in segno a sua volta.

Ecco, dunque, che tra immagini e testo ci sono infinite vie per le quali una tangenza si rivela come snodo articolante verità, quasi che le due forme espressive fossero divenute indisgiungibili.

                                                                                                       Rosa Pierno



martedì 30 maggio 2017

50 x 50 x 50 Cinquanta artisti festeggiano i cinquant’anni della Temple University Rome






Inaugurazione lunedì 15 maggio, alle ore 19
e fino al 2 giugno, 2017

A cura di Shara Wasserman

Gallery of Art
Temple University Rome
Lungotevere Arnaldo da Brescia 15
Roma

Quest’anno 2016/17, la Temple University Rome festeggia i cinquant’anni di attività a Roma.  Fondata nell’autunno del 1966 da Charles Le Claire, professore di pittura alla Temple University di Philadelphia, e da dieci studenti amanti di Roma, e da allora collocata nella Villa Caproni sul Lungotevere Arnaldo da Brescia 15. 
In cinquant’anni la Temple Rome si è distinta per la sua visione didattica basata sullo studio delle belle arti e dell’architettura, della storia, lingua e letteratura italiana.  Dai primi dieci studenti, ora la Temple Rome ospita più di 500 studenti l’anno, e può considerarsi fiera di aver messo migliaia di giovani americani in contatto con la grande cultura italiana.

A tale scopo, siamo fieri della Gallery of Art, stabilita da me nel 1990, e che da allora ha lavorato con artisti italiani e stranieri, emergenti e affermati, in più di 25 anni di programmazione ininterrotta.  La missione della Galleria di posizionarsi nell’ambito della cultura romana contemporanea e di relazionarsi con artisti, istituzioni e persone che la determinano, offre agli studenti un’ulteriore opportunità di contatto con la città che li ospita, e apre le nostre porte alla città.

Sono molto riconoscente all’ambiente artistico romano, e in particolare modo agli artisti, che mi hanno appoggiata, sostenuta, e incoraggiata nello sviluppo della missione della Gallery of Art e della sua linea intellettuale artistica.

Per festeggiare i 50 anni della Temple Rome, proponiamo la mostra intitolata  “50 x 50 x 50: Cinquanta artisti festeggiano i cinquant’anni della Temple University Rome”. 

Gli artisti invitati rappresentano la varietà e la “democraticità” della nostra visione, che non è mai stata legata ad un gusto o stile o tecnica predefinita, ma anzi, ha sempre dato spazio all’originalità del progetto:  LUTTI, la prima mostra della galleria, allestita nell’autunno 1990 con i lavori di Felice Levini, Mariano Rossano, Giuseppe Salvatori, e Bruno Ceccobelli; la prima performance di Francesco Impellizzeri nel 1990; la presentazione dei lavori di Roberto Pietrosanti che hanno necessitato la rimozione della ringhiera per entrare nello spazio; la lunga serie di mostre dedicate a I Martedì Critici e che hanno proposto la storia dell’arte contemporanea romana; la ricerca sull’arte al femminile con la “Romance” serie, curata da Tiziana Musi; alla Tiny Biennale, mostra di opera in miniature che dai cento artisti della prima edizione ha raggiunto i cinquecento.

In “50 x 50 x 50” ho voluto ripercorrere la nostra storia e la storia di Roma.  Partendo dal lavoro di Carla Accardi e Luigi Ontani, attraversando  tutti i linguaggi, dalla pittura figurativa, a quella astratta  e concettuale, dalla scultura alla installazione,  ed anche la musica, la poesia, la fotografia, l’architettura, l’incisione, la performance. Insieme agli artisti invitati, presentiamo i colleghi della Temple University Rome, docenti di arte e architettura, e artisti affermati e internazionali.

Gli artisti presenti: Carla Accardi, Claudia Peill, Maria Pia Picozza, Mark Kostabi, Alfredo Pirri, Giuseppe Salvatori, Gianni Dessì, Giovanni Albanese, John David O’Brien, Barbara Salvucci, Mia Westerlund Roosen, Angela Dufresne, Luigi Ontani, Gregorio Botta, Alice Pasquini, Leonardo Petrucci, Elvio Chiricozzi, Daniela Monaci, Paola Gandolfi, Stefania Fabrizi, Felice Levini, Gabriel Feld, Georgina Spengler, Rosa Pierno, I Martedì Critici, Francesco Impellizzeri, Stefano di Stasio, Vincenzo Scolamiero, Adele Lotito, Roberto Pietrosanti, Anna Romanello, Pietro Ruffo, Maurizio Savini, Luca Galofaro, Silvia Codignola, Regina Huebner, Marco Colazzo, Piero Mottola, Pietro Fortuna, Mauro Di Silvestre, Devin Kovach, Anita Guerra, Roberto Mannino, Lucy Clink, Susan Moore, Katherine Krizek, Roberto Caracciolo, Cinzia Abbate, Carolina Vaccaro, Andrew Kranis, Liana Miuccio.

                                                                                     Shara Wasserman


mercoledì 24 maggio 2017

Erik Battiston, Premio di poesia Terra di Virgilio, Mantova, 2017




Deposta ogni ornamentazione aggettivale - nessun cedimento estetico per tenersi più strettamente aderente al dato percettivo, nel quale agisce il nucleo riflessivo - Erik Battiston pone l'oggetto della sua analisi sotto una luce concentrata, sottoponendolo a una disamina ferrea e non lasciandolo finché non ne abbia estratto un'essenza che includa anche il suo opposto. In questo senso, i versi di Battiston non implicano una costruzione filosofica, ma impiegano il pensiero nelle sue forme più ampie e meno rigide.
Nelle tre poesie, viene dato spazio alla struttura sintattica che, se pur prosciugata, fa emergere una lucidità che attraverso l'economicità dei mezzi espressivi ricerca una precisione funzionale alla sottilissima metamorfosi a cui le tre poesie tendono. La macchina elegante, intelaiata da frequentissime inarcature, al di fuori di ogni affettazione, quasi severa (mancanza di rime e di assonanze interne) è fitta di ripetizioni per meglio utilizzare quel gioco che fa perno sullo stesso vocabolo per cambiare prospettiva concettuale (con i passaggi dal corpo alla persona, dal figurale all'informe, dal suolo alla terra) descrivendo il suo oggetto anche ossessivamente, com'è proprio di un'acuta sensibilità. La struttura delle sue poesie, presentando con schizzo rapidissimo e asciutto l'elemento di cui vuole mostrare l'aspetto contrastivo, da dissotterrare, da ritrovare, vede dunque gli aspetti conflittuali della medesima cosa, impegnati in una tenzone di grande resistenza. Non lineare, complesso e sorprendente nel suo dispiegarsi piano per affacciarsi, alfine, su una radura in cui la denotazione si discioglie in una fantasticheria che divelle le regole abitudinarie della visione, Erik Battiston, ci consegna, in tal modo, una poesia originale e ponderatissima.



La prostituta

La provinciale trenta la percorro
due volte a settimana.
Sola, seminascosta
tra un intrico di verde, la prostituta.
E proprio ieri, io in bici, lei mi chiama
coll’aspro del ruscello nella voce.
Mentre pensavo se fermarmi o no,
la bici in corsa aveva già deciso.
Ora che sono trascorsi tre mesi,
potrei dire che il gioco a due
sarebbe stato troppo facile,
che avevo un altro impegno: tutto vero.
E se la prossima volta,
magari la prossima estate,
rivedessi ancora voce e cosce
ben salde al cellulare?
E se più non mi tormentassero
quella voce e quelle cosce,
quella voce di cosce, così piena,
allora il gioco non sarebbe facile.
Nel breve dell’istante
non una prostituta di strada
ma una donna incontrerei,
nella parola.



Un ritratto che non somiglia più

Il treno è un regionale, affollato
è dir poco. Il tizio al mio fianco, forse
a dir molto, scatta e riscatta foto:
la calca, massa da mettere in rete.
Io mi trovo seduto, chissà come,
accanto al finestrino che fa specchio
alla ragazza seduta di fronte.
Le guardo il naso greco e lo confronto
col riflesso, più volte, fino a perdere
ogni ipotesi della sua bellezza.
Chiudo gli occhi, poi li riapro lenti
e in quell’istante, sul nero del vetro,
si stagliano catene di polimeri,
quasi costellazioni di magnolie:
un ritratto che non somiglia più.


La terra della città

Io vorrei provare a raccoglierla
la terra che qui in città
vogliono sempre seppellire
sotto l’asfalto il cemento il granito
chissà, forse perché ricorda il passato
e non puoi camminarci con le scarpe
se piove. No, te lo dico io
perché la terra fa così paura.
Perché ci cresce l’erba il fiore a gratis
e insetti senza nome vanno a abitarci
abusivi. Senza pagare l’affitto.

mercoledì 10 maggio 2017

Bernard Vargaftig, Io scrivo ciò che è vivere, traduzione e cura di Gilberto Isella (Lugano, ADV Edizione, 2017)



Fotografia di Valérie Minetto



La scrittura, tremore d’infanzia


  Un’affermazione perentoria, perfino disarmante come “Io scrivo ciò che è vivere”, espressa dal poeta francese Bernard Vargaftig (Nancy 1934 - Avignone, 2012) non funge da mero involucro mitografico. Va ritenuta piuttosto l’implicito propulsore di senso all’interno di un ininterrotto processo creativo. In sostanza, essa racchiude un’intera poetica. Poiché nulla realmente in Vargaftig è concesso alla spontaneità del vissuto, tutto converge al contrario verso i nodi di incandescente problematicità – sotto la regia dell’Improbabile, come direbbe Bonnefoy – che legano vita a scrittura. Ed è il bruciore pervasivo della nominazione poetica a dettare lo statuto di quei nodi: “Mi brucia il tuo nome/ Le rive le loro frange/(…) Oh parola come/ i tuoi seni la tua lingua”. I nomi – carne animata nonché legame con il suolo e gli elementi primi – finiranno presto  per ruotare intorno alla questione dell’origine, all’enigma del venire al mondo. Ma non senza aver prima attraversato le vicende della disseminazione (anche cruenta), della  continua perdita e riappropriazione del senso, per strappi, latenze e subitanee epifanie, scalfendo dunque l’atemporale rapporto ‘metafisico’ che la lingua d’uso è solita istituire tra i concetti monolitici di vita e parola. Vale a dire:  per Vargaftig la parola, imbevuta di temporalità fino alle radici, vive anche e soprattutto nell’avvertire i propri ineludibili vuoti semantici e nel retrocedere alla dimensione del grido, o all’afasia oscura di sotterranee catabasi: “Ci si allontana così dalle parole/ Se esse non sono che l’ombra/ Di un grido”.
   Aveva intuito queste premesse sostanziali Aragon, tenendo a battesimo le prove giovanili di Vargaftig verso la metà degli anni Sessanta: “Amo questo linguaggio sminuzzato come il dolore, una ricchezza di vocabolario che non si fonda sulla parola rara, ma sul rinnovamento di vocaboli simili a quei fiori i cui semi per lungo tempo non hanno germogliato perché le ombre glielo impedivano, e che risorgono dalla terra dopo l’incendio della foresta”. Analogamente al procedere di molti poeti coevi, miranti alla scarnificazione/depurazione del linguaggio (da Du Bouchet a Dupin, Regnaut e Noël), Vargaftig inscrive le pulsioni vitali e autobiografiche non in coordinate chiare e diegeticamente orientate, bensì entro serrati circuiti di valore indiziale: tracce foniche e ritmiche gravitanti intorno a se stesse, in definitiva autoteliche, e tuttavia provviste di vie di fuga capaci di veicolare effetti di reale: vissuti frammentari e allusivi, offerti tramite soli indizi. Rimangono ovviamente insostituibili le vicende del soggetto riemergenti per corsi e ricorsi, come l’infanzia funestata dalla guerra, o l’amore per Bruna. La raccolta Orbe (1980) contiene il paradigma di una siffatta prassi poetica, così come il vettore ‘iniziatico’ che giustifica quella motilità  diffusa, circolare o meno – dal grido alla phoné senza soluzioni di continuità - che può farsi di volta in volta tremore, panico, respiro sincopato o altro. Paradigma attivo ovunque nell’opera: “Niente manca al linguaggio/ La violenza che vacillava/ Quel grido nel presentire il tuo nome/ Nessuna rassegnazione”. Anche in occorrenze scarne e formulari, dove il topos dell’impossibile coniunctio alligna :

 Tremare  tenerezza impercettibile

 Le cose

 Non si congiungono mai

Né i morti faccia a faccia

  “Né i morti faccia a faccia”, dal momento che non siamo mai veramente “al mondo” (come sosteneva Rimbaud), in modo particolare quando sperimentiamo attraverso la memoria il limen dell’infanzia  in quanto  foriero di allegorica cecità (“Senza che l’infanzia mi dimentichi/ Quando per riprendersi tutto e le rondini/ E l’accecamento fino alle scogliere/ Sottraggono aria all’immobilità”) e allora ogni appello al congiungersi o allo stare con – il Mitsein bisognoso di luce - non è che un miraggio su fondo oscuro percepito negli intervalli dell’iterato disgiungersi o isolarsi. Scena analoga, forse, a quella che si presenta quando osserviamo con ansia non temperata il moto apparente degli astri, per poi sforzarci invano di trascriverne traiettorie lineari sul planetario. Ed è qui che l’orbitare (e il correlativo auto-orbarsi dello sguardo) hanno valore poetico-euristico esteso. “Orbe”, annota il poeta, “designa lo spazio circoscritto dall’orbita di un pianeta o corpo celeste. Ed è anche un aggettivo: un muro orbo è un muro che non presenta nessuna apertura. […] Ed è infine ogni traiettoria e ogni movimento circolare”.
   Tremore e oscillazione (ovvero la sismica dell’anima), riconoscibili di primo acchito nell’allentarsi dei legami sintattici, sono generati dall’esperienza infantile con l’intensità degli stati traumatici, e andranno a  delineare un territorio “definitivo, permanente, quello del pericolo, ma anche della salvezza”. Che è per forza di cose anche il luogo originario della poesia, luogo dove il soggetto s’arrischia compiendo simultaneamente l’esperienza della scrittura e dell’innamoramento, l’amore-per-la-scrittura e l’amore-per-la-donna: “L’ossessione della paura il pericolo/ Cosa abbiamo di più immenso//Se non amare nominare e sentire”. Un atto di esorcismo, come valore aggiunto, nei confronti della guerra, abissale generatrice di un’idea di ‘movimento’ che per gli ebrei sotto l’occupazione nazista  ha significato soltanto fuga e deportazione, in un sottofondo psichico di terrore. Il ragazzino Bernard, appartenente alla comunità ebraica, non riesce a occultare i suoi persistenti traumi sulla pagina. Tutt’al più li rimodella depistandoli su altri oggetti (la natura, i paesaggi) o li addolcisce grazie all’incontro con la donna amata, cogliendo un’occasione insperata di coniunctio. Ma anche in questa circostanza l’eros  può declinarsi solo nell’ordine immaginario di un caotico orbitare, tra capovolte spericolate e perdita d’orientamento, come dentro un allucinante labirinto. Sono le prose di maturità, frammentarie e pervase di ‘ebbra’ angoscia mnestica, raccolte in Nessun segno particolare (2007): “Tuffarmi verso di te, è come se mi elevassi. Che silenzio in me, perfino quando scappa, piomba su di te, c’è solo aria. Quale paura non sfugge alla paura? Ti chiamo con la curva, ti chiamo, questo rovesciamento prende quota. Chiudiamo gli occhi. La curva vola”.

                                                                                                                      Gilberto Isella
                                                                                 ▪   ▪   ▪



Or je fuyais mon visage
On se détourne ainsi des mots
S’ils ne sont que l’ombre
D’un cri

Nous habitions ce paysage
Furtif comme passe un oiseau
Où chaque geste comble
La vie

Comme si ma propre mort
Sur les miens avait calqué
Sa hâte ses mouvements
Ses plis

Je regardais du dehors
Mon pas troué et
Tu le sais je mens
L’oubli
                                      (La Véraison, 1967)

Talora fuggivo il mio volto
Ci si allontana così dalle parole
Se esse non sono che l’ombra
Di un grido

Abitavamo questo paesaggio
Furtivo come l’uccello che passa
Dove ogni gesto colma
La vita

Come se la mia propria morte
Sui miei avesse ricalcato
La sua fretta i suoi movimenti
Le sue pieghe

Guardavo da fuori
Il mio passo bucato e
Tu lo sai io mento
L’oblio


 Avec la buse d’autrefois
                                          l’air l’air la
Déchirure
                                                            effrayante pleine d’enfance
Table et chaises qui me chevauchent
Les fougères
Changées en rats
                                          (Orbe, 1980)


Con la poiana d’allora
                                      l’aria l’aria la
Lacerazione
                                                           spaventosa colma d’infanzia
Tavola e sedie che mi cavalcano
Le felci
Cambiate in topi



Aussi fugace qu’il puisse être
                                                    le vide
Sous la chaise                                  
                                                                et la patte de l’horloge
Les morts leur mouchoir retourné
Sans personne
Comme un langage


Per quanto fugace possa sembrare
                                                             il vuoto
Sotto la sedia
                                                                          e la zampa dell’orologio
I morti il loro fazzoletto rovesciato
Senza nessuno
Come un linguaggio





Rien ne manque au langage
La violence qui vacillait
Ce cri dans le pressentiment de ton nom
Aucune résignation

Un silence oublié
Un goût un souffle pour atteindre
La pitié que l’immédiateté contemple
Si inlassablement  nue

Sans ombre comme restent
Balancement et gravité
Dont à l’intérieur de la désolation
Les montagnes sont éprises
                                         
                                                        (Dans les soulèvements, 1996)

Niente manca al linguaggio
La violenza che vacillava
Quel grido nel presentire il tuo nome
Nessuna rassegnazione

Un silenzio dimenticato
Un gusto un respiro per raggiungere
La pietà che l’immediatezza contempla
Così instancabilmente nuda

Priva di ombra se permangono
Ondeggiamento e gravità
Di cui le montagne s’innamorano
Al centro della desolazione





Rien n’est  nié
Comme la peur qu’il y a est brève
La soudaineté d’un pli
Quand le même mur va s’écrouler encore

Où de plus en plus d’enfance
Emmène-t-il
À peine inclinés sans être insaisissables
La promptitude près du remblai

Une obstination l’ailleurs un bruissement
Dont la blancheur
Ne répète jamais la détresse
De n’avoir pas regardé

                                          (Trembler comme le souffle tremble, 2005)

Nulla è negato
Se intorno breve è la paura
Il  formarsi improvviso di una piega
Quando il muro sta di nuovo per crollare

Dove sempre più infanzia
Porta con sé
Appena inclinati senza essere imprendibili
La prontezza davanti a un dislivello

Un’ostinazione l’altrove un bisbiglio
Il cui candore
Non rinnova mai lo sconforto
Per non aver guardato

                                                       



venerdì 5 maggio 2017

“Nel silenzio” mostra di Giulia Napoleone presso lo spazio Arte e Valori di Giubiasco dal 29 aprile al 21maggio 2017




Emisferi tralucono, affiorando su pelle color albume. Il mondo astrale portato su terrestri lidi ed estranei, colti fra due versanti temporali, il crepuscolo e l'alba, ritagliano sponde precise dalla cui aureola si rimane sempre lontani.

Forato da un ritmo del pensiero, che abbia passo figurato, e innalzato a più astruse vette: consunto planisfero da ruvida vista sfiorato.

Lacune non impressionano il foglio, lo rendono inabile, però, ad accogliere il pigmento. Neanche un passaggio virulento, attacco sferrato da un fucsia fiammante, vi può attecchire.

Due minuscoli fori replicano in lontananza i due globi acquorei, i quali si estroflettono, proiettando sul rettangolo la strabordante calotta di un mondo immaginario.

Consumare la carta fino a renderla trasparente con stilettate di pastello, per ottenere che  materia e  forme invertano le caratteristiche e, algide, se ne stiano a confondere vista, ragione e cuore.

Efferate scalfitture con acuminate mine ricoprono la diaccia superficie. Gli assalti appassionati non hanno potuto oltrepassare la linea dei bianchi ciottoli dell'argine astrale. Il cielo, tuttavia, non vi resta confinato. Tutto intorno evapora e s'allontana.

Le punte acuminate delle matite irrigidiscono la carta, invetriandola: finestra che mena direttamente sull'orbita a venire.

Al pari di un materiale ferroso, il pigmento si polarizza intorno ai fori da cui per contrasto s'eleva un azzurro pieno e denso. D'intorno è un pullulare di fermenti e moti, di arrese veglie e mai raggiunte mete.

Uno spolverio iridato di goccioline, di madide sfere che cadono a piombo. Un'apparente facilità contraddistinta da un mendace atto: per questa cosmica visione, la mano depose ciascun istante della vita sul palmo di carta.

Lungo le irrorate scie che lo sguardo persegue nella stellata volta, il mitigato chiarore ospita un più denso ponderare. Le vie non sono infinite, ma obbediscono a una sola obbligata linea, quella destinale.

Se cielo fosse immagine di specchiata terra, avrebbe solchi, arsi crepacci, valli e dossi. Solo con la polvere azzurra e blu, terra avrebbe l'ardire di imitare la celeste volta.

Una disposizione di fori bianchi, delineante un triangolo privo di base, rende tale geometria incompossibile a ciò che si può osservare sulla terra.

Sulla cartografia si dispiegano segni, fessure, addensamenti, sovrapposizioni, mentre luna, incurante del taglio inferto dal bordo della carta al satellite, prosegue lentissima ed esangue nella sua orbita.

Giochi speculari, con tagli e riposizionamenti, con scomparse e riapparse sagome, non sono ciò che l'occhio nudo consente di vedere.

Un pullulare di punti, lune nelle lune, cosmo nel cosmo, in un meccanismo di rullanti incastri, brulichio di minuscoli astri, proliferazione insonne, inesausta ricreazione: tutto per riempire l'altrimenti candido foglio.

Il profilo del cerchio, la totalità proiettata sul foglio, non si può assimilare alla linea dell'orizzonte, poiché da essa origina sostanza e colore. È la piega tra la materia e il nulla a formare bolle e punti, in un celestiale sfarinio di mina.

Un'impercettibile tendenza al violaceo inclina per l'esistenza di un tempo attuale, non ancora rimarginato. Intorno, vi sarebbe ancora una sorta di tracciato pulsante: segno dell'esistere.

Fra le elencabili caratteristiche della simmetria non era ancora nota quella della negazione. Un pianeta sarebbe, specchiandosi, un'assenza, imporrebbe il suo calco all'universo intero.

Si espanderebbero gli astri, mentre si corrugherebbe e rapprenderebbe lo spazio percorso da stelle di cui non si individua il piano.

Un lavoro irreprensibile svolto sui confini di una sostanza colloidale, semi liquida. Appena un'orma lascia il pianeta, che persegue la sua traiettoria sul foglio.

Potrebbero l'erba e le stelle specchiarsi in lacerti di cielo e zolle scolorire fra canali d'acqua e gallerie sotterranee, ove persino le profondità del cielo digraderebbe in miriadi di familiari gocce.

Le fitte tramature percorrono in ogni direzione uno spazio franto. Testimoni di ere chiuse a qualsiasi valutazione. Inferte tracce da un demiurgo riassorbito nell'opera.

                                                                                              Rosa Pierno