martedì 31 maggio 2011

Rivista d’arte “Libretto” Numero 16 -2001


Nella rivista d’arte “libretto”, diretto da Matteo Bianchi, è da sempre all’opera oltre all’interesse per la promozione delle opere artistiche, una particolare attenzione per le relazioni tra arte e linguaggio, che si può individuare nelle polimorfiche forme  che i brevi saggi presenti all’interno della rivista mostrano nel proposito di descrivere l’arte. E naturalmente gli esisti sono proteiformi perché diverso è l’oggetto da affrontare: pittura, fotografia, cinema, scultura. L’illustrazione del libro e la grafica sono argomenti, inoltre, sempre presenti nella rivista. I testi non sono mai puramente informativi e sono redatti da critici, storici, filosofi, scrittori, poeti. Ciò, appunto, consente un ventaglio di forme espressive variegato e a volte sperimentale: l’opera d’arte viene assunta come oggetto da verificare tramite scrittura, se ne saggiano valenze e relazioni con altre forme espressive, e in cui l’oggetto artistico viene, per così dire, movimentato, prospettandone una lettura personale e originale.  Altre volte è il resoconto di un’esposizione in cui si narrano le impressioni della visita e si commenta il taglio curatoriale della mostra. In ogni caso la raffinatezza stilistica dei testi denuncia sempre il coinvolgimento  diretto, passionale di chi scrive, di colui cioè per cui l’opera d’arte è considerata evento fondante della relazione umana con il mondo.  Le proposte si situano, dunque, a cavallo tra il dominio delle arti plastiche e quello della letteratura. Da qualche anno inoltre la rivista, edita da più di un quarto di secolo, presenta nella rubrica “Paesaggi in città” alcuni innovativi esiti progettuali nell’ambito dell’arte dei giardini, che in Francia è seguita con particolare attenzione. Un laboratorio in cui, dunque, confluiscono apporti delineanti una mappa artistica composita e frastagliata.

domenica 29 maggio 2011

Gilles Clément “Il giardiniere planetario” 22publishing, 2008

Gilles Clément nel saggio “Il giardiniere planetario” 22publishing, 2008, approfondisce alcune questioni che aveva appena sfiorato nel suo “Manifesto del Terzo paesaggio”. Vi è innanzitutto la designazione di un insieme formato dagli appassionati di giardini, siano essi giardinieri, visitatori, lettori di libri sui giardini. E da questo insieme Clément rileva che sono quasi totalmente escluse le specie animali e vegetali mobili (gli uccelli, gli insetti, i semi, i funghi, ecc.) contro le quali anzi si scatena la guerra del giardiniere. A partire da questa considerazione, Clément ha voluto verificare con la propria esperienza se era invece possibile costruire un ambiente di scambio giardino-natura dove “riappacificarsi con una fauna così a lungo perseguitata”.  E il racconto che segue è appunto quello relativo all’esperienza di un campo abbandonato e di una casa da costruire in cui realizzare questa compresenza. Ma nel resoconto di questo esperimento riuscito constatiamo un primo attacco all’estetica: “Considero un successo, non tanto l’opera dell’architetto nella disposizione delle forme, l’equilibrio delle ombre e delle luci – per queste cose non ho giudizi da esprimere – ma il vedere tutta una vita salvaguardata”.

L’altro insieme riguarda i traghettatori, ossia gli insegnanti, i filosofi, gli scienziati capaci con il loro entusiasmo e la loro passione di insegnarci a vedere le cose e a considerarle in maniera diversa: “Divulgare non è snaturare il sapere per renderlo volgare, ma formulare in termini semplici l’avventura complicata del nostro pianeta e dei suoi abitanti” ove “tenere i cittadini lontani dalle verità è più pericoloso che avvicinarveli”. Clément sposa la tesi lamarckiana relativa all’uomo che rende sterile la terra che abita e  lavora alla propria distruzione, ma che diversamente dalla tesi darwiniana (i più forti vincono), lascia aperto il campo del possibile: “Nel corso della sua vita  l’essere - sia vegetale che animale - può modificarsi”. I vegetali, ad esempio, hanno la capacità di modificare il proprio genoma nel corso della loro esistenza: “gli OGM in sé e la loro meccanica fanno parte dell’evoluzione”, quindi “il problema non è la manipolazione ma l’orientamento antropocentrico impresso alla modificazione genetica e l’uso che se ne fa”.

La proposta di Clément riguarda la trasformazione del giardino in giardino planetario, il quale è privo delle concessioni fatte alle regole dell’arte dei giardini. Il Giardino Planetario “valorizza la diversità senza distruggerla”. Se in passato il recinto del giardino ha protetto  la flora nutriente e ha sviluppato l’arte della disposizione, esprimendo la propria eccellenza attraverso l’architettura e l’ornamento, oggi questi criteri non bastano più.  C’è bisogno di una nuova estetica i cui fondamenti si basino “su una griglia di lettura offerta dagli scienziati e non dagli artisti”.   Qui Clément rovescia il rapporto tra ecologia ed estetica, in un modo strumentale e riduttivo. Egli si scaglia contro tutte le regole che il progettista deve utilizzare (regole di sicurezza, di progettazione) e  contro tutti i comportamenti dettati dalla moda. Critica l’arte in generale, in quanto utilizza quella materia inerte uscita dall’industria, la quale prevale sulla massa vivente, poiché è con l’utilizzazione-sfruttamento che ha inizio la distruzione: “I veli oscuri dell’estetica e della morale si sono abbattuti sulla spazzatura e il compost è stato relegato in fondo al giardino, mentre dovrebbe trovarsi al centro” in quanto fonte di energia.

Ma vediamo come vi viene articolata la definizione di giardino planetario rispetto al giardino tradizionale: “L’estensione del concetto di giardino all’intero pianeta suggerisce che tutte le tecniche agricole rientrano nel campo di un giardinaggio planetario” e, inoltre, “Il “giardinaggio”, espressione di diversità culturale, minaccia o protegge la diversità naturale a seconda dei metodi impiegati”.    “La Natura, imbrigliata nel reticolato ideologico proprio di ogni cultura, paga un tributo tanto più pesante  quanto più il sistema culturale fa dell’uomo il padrone del Cosmo”.   Ed è la comparsa dell’ecologia che ha determinato la possibilità di questa svolta:  “la Terra presa come territorio riservato alla vita è uno spazio chiuso, limitato dalle frontiere dei sistemi di vita (la biosfera). Insomma, un giardino”.  Gilles Clément oppone il giardiniere al progettista poiché afferma di avere personalmente esperito l’immenso disaccordo tra l’attitudine naturale delle specie a svilupparsi e il nostro desiderio di “abbellire” e, dunque, è “Impossibile conciliare le due posizioni finché rimaniamo abbarbicati ai canoni estetici dell’”arte dei giardini”. Anche se Clément ha affermato che l’arte dei giardini è per lui il segno ideologico del potere, a noi pare inutilmente persecutorio scaricare tutte le colpe sull’arte dei giardini, se il vero problema è invece il modo in cui utilizziamo e sfruttiamo la natura. Non siamo pura esistenza e innescare una lotta con i criteri estetici per privilegiare esclusivamente quelli ecologici non è costruttivo: non si devono ridurre i nostri strumenti culturali, ma è necessario accrescerli. Spesso, anzi, è proprio l’eliminazione di ciò che ha valore estetico a costituire la porta d’ingresso alla distruzione e alla mancanza di cura, allo sfruttamento e alla mercificazione. 

Rosa Pierno

venerdì 27 maggio 2011

Jean Clair “Breve storia dell’arte moderna” SKIRA, 2011

La “Breve storia dell’arte moderna” di Jean Clair si potrebbe definire persino la più breve storia dell’arte moderna mai raccontata: 33 paginette a cui si possono anche togliere le due o tre relative alle domande che vengono rivolte a Clair da Thierry Naudin, pura tara, francamente neppure un pretesto per le risposte.
Clair vuole effettuare un resoconto storico e libera subito il campo dalle essenze e dalle definizioni: non si parlerà di ciò che permane in quanto invariabile nell’arte, ma di ciò che subisce un’evoluzione nel tempo. Una prima delimitazione del campo, per definire la “modernità” nell’arte,  avviene naturalmente ponendo dei paletti temporali:  1905, ossia nel “momento in cui si assiste al fenomeno simultaneo del colore “liberato” dal fauvisme, alle prime esperienze di disgregazione  della forma con il proto cubismo, al predominio della soggettività con l’espressionismo e, infine, alla presa di coscienza, con i primi tentativi dell’astrattismo” dei “fenomeni che rientrano nella sfera dell’invisibile e dell’immateriale”. Questa sequenza giunge fino al 1969 ove avviene il passaggio  a una nuova fase dell’opera d’arte che “non ha più granché in comune con ciò che si era abituati a considerare tale: un oggetto più o meno ben costruito, plasmato, dipinto, che obbedisce” “a un complesso di regole volte ad assicurargli una certa perennità nel tempo e a testimoniare un progetto spirituale”.     Mentre le azioni, lo happening, l’opera effimera non hanno come obiettivo la durata.
Clair puntualizza che la modernità affonda le proprie radici nel Romanticismo con la sua fascinazione per il fenomeno originario primitivo, per il genio creatore che sfugge alle regole e per lo scaturire pulsionale del gesto creativo, ma egli si sofferma sull’aspetto dell’esplosione delle forme che tradisce l’impossibilità di trovarne una che sia soddisfacente, in “un progetto riproposto e mai compiuto” caricandosi di valenze prelevate da contesti filosofici, politici, religiosi, scientifici non ritenendo, cioè, più soddisfacente il solo docere et delectare. La dismissione della tekhné, la disfatta delle regole e delle forme farà assumere all’arte una posizione di scarto nei confronti della scienza. Anche altre intromissioni verranno a scalfire l’arte: l’equivalenza tra arte e vita, la demagogia generalizzata di Beuys : “Ogni uomo e un artista; tutto ciò che fate è arte” oltre al rigetto della storia e della tradizione.  Ma forse un comune denominatore tra tutti questi elementi è possibile ravvisarlo ed è per Clair: “non più “vedere”, neppure “pensare”, ma “sentire”. Con l’olfatto, il gusto per l’abiezione, per l’orrore, la fascinazione per i fluidi corporei”, ma anche per l’automutilazione e le mostruosità. Ed è questo gusto “che ha dominato l’arte grosso modo dal 1750 al 1970”. Clair si dilungherà moltissimo su questo argomento nel suo libro “De immundo”, di cui presenteremo una recensione su queste pagine a breve.

mercoledì 25 maggio 2011

Fausto Razzi: Letteratura e musica: un’esperienza

(Testo tratto da una conferenza al convegno curato da Alberto Asor Rosa su Letteratura italiana del Novecento: bilancio di un secolo, Roma, 13/16 novembre 1996 [Einaudi 2000] )


Il testo inizia con una premessa  sul senso della ricerca:

“penso che la ricerca - qualsiasi ricerca, non solo quella musicale - abbia valore solo se unita ad una costante attenzione nei verso la società con cui deve confrontarsi: qualsiasi posizione contraria, come ebbi a scrivere qualche anno fa, renderebbe del tutto impensabile ogni dialettica e la ricerca tenderebbe a perdersi nella speculazione astratta affermando se stessa col negare la realtà che la circonda. Una posizione, dunque, per la quale si potrebbe addirittura parlare d’incapacità costruttiva.

La storia di Fausto Razzi compositore si situa per buona parte nell’alveo del rapporto con il testo letterario impegnato (fin dagli esordi egli affronta testi di François Villon, di Christian Morgenstern e di Detlev von Liliencron): riporto quindi per esteso la parte del testo in cui viene  affrontato il nodo testo letterario/musica:

“A questo riguardo, è forse utile chiarire che la posizione più diffusa è quella di considerare il rapporto parola-suono-significato una questione in certo qual modo “privata” del compositore: nel senso che questo testo, il quale certamente stimola e condiziona la fisionomia dell’atto compositivo (e naturalmente ne costituisce la ragione profonda), viene ad assumere poi per l’ascoltatore la funzione molto più sfumata di una sorta di “chiave di lettura” del lavoro musicale, nel quale la parola in sé non deve essere quindi necessariamente percepibile e comprensibile. Per quanto mi riguarda invece, già dalla fine degli anni ‘50 ritenevo - e tuttora ritengo - che la “comprensibilità” sia una caratteristica necessaria e assolutamente inscindibile dalle ragioni che inducono ad affrontare un testo poetico: in definitiva, una condizione primaria per la comprensione dell’intero lavoro. II che non esclude, ovviamente, la volontà di operare uno “scardinamento” delle modalità di lettura: di lavorare cioè, oltre che sul significato delle parole, sul suono degli elementi costitutivi del testo medesimo. Un’esigenza che nasce dal tipo di musica che scrivo e che sinteticamente potrei definire fondata sul rumore e sul silenzio / sull’indagine del suono strumentale o - nel caso specifico - delle vocali e delle consonanti/ su strutture ritmiche complesse, che nascono da sovrapposizioni altrettanto complesse di ritmi semplici. I risultati di questo modo d’intendere la presenza e la funzione di un testo poetico penso siano evidenti nei miei lavori su testi di Pasolini, García Lorca e Gatto; i testi di Sanguineti, sui quali ho lavorato in questi ultimi anni - in particolare il lavoro teatrale Protocolli - sono stati per me un ulteriore, importante stimolo.”.  

Ma il lavoro di ricerca si scontra subito con notevoli difficoltà sia per l’individuazione di un interprete che deve essere distante da una lettura convenzionale sia per quelle ancora più grandi che incontra per l’accoglienza e la circolazione nella società.  Inoltre, solo una minoranza assai ristretta di intellettuali ritiene tuttora che la musica sia parte importante della cultura. Razzi ritiene che la critica abbia tradito il suo compito, poiché è condizionata dall’editoria ed è allineata su criteri valutativi che non sono adeguati a veicolare i valori di una musica di ricerca. Essi, cioè, non consentono di percepire la

“differenza tra lavori complessi, ricchi d’informazione e di motivazioni e soprattutto non basati su cascami retorici o linguistici, e lavori privi d’interesse perché banalmente ripetitivi o chiaramente e riduttivamente semplificatori”.

Quindi


“Il primo passo per una chiarificazione dei rapporti, delle rispettive autonomie e delle possibili interdipendenze tra musica e letteratura è dunque quello di ristabilire un dialogo in grado di colmare la distanza che separa la maggior parte degli intellettuali da una reale consapevolezza dello spessore del pensiero musicale”

La musica infatti

“non è limitata alla sola sfera dell’irrazionale, “non è esclusivamente espressione di momenti emozionali”.

La mancata ricezione della musica di ricerca ha una conseguenza diretta sulla possibilità di dialogo tra musicisti e poeti:

“Proprio dall’attuale situazione questo rapporto sembra essere messo pericolosamente in crisi: molti scrittori, che pure con la loro ricerca e la loro produzione dimostrano di muoversi su posizioni assai avanzate, non sono infatti in grado di cogliere le analogie di percorso nei paralleli lavori di musica “complessa”, né mostrano d’altronde di rendersi conto della distanza che separa la propria ricerca dai compositori con i quali spesso incautamente capita loro di collaborare: e si tratta di musiche concepite secondo modalità tuttora saldamente, ideologicamente ancorate a stilemi tradizionali oppure scritte secondo un’ottica che le subordina completamente al testo, riducendole drasticamente a banale ‘commento’ ”. 

E Razzi sottolinea anche che il grado di


“minore o maggiore o minore modernità non dipende dalla grammatica del linguaggio musicale adottato, ossia, per intenderci, dal fatto che venga impiegata la “tonalità” piuttosto che la “non tonalità” (o, come si usa dire, la “dodecafonia”: con un impiego errato del termine, la dodecafonia essendo una grammatica da tempo storicizzata e ormai utilizzata solamente da innocui epigoni). La modernità nasce invece dal rifiuto di un atteggiamento, di una mentalità: quella mentalità che ritiene di dover ricorrere ancora ai vecchi procedimenti retorici della tradizione melodrammatica: una consuetudine ormai da tempo sufficientemente logorata, che per molti sembra costituire però non un condizionamento difficile da scardinare, quanto addirittura un modello da riproporre acriticamente”.

E, naturalmente ciò si riflette anche nell’uso dello spazio scenico e negli apporti della regia. Ma il discorso di desolante stato in cui la musica versa per le condizioni in cui è costretta ad operare, non si traduce, in Razzi, che in una denuncia veemente e in un rinnovato slancio costruttivo che fa della libertà esperita in solitudine lo strumento di liberazione dalle gabbie in cui i risultati dell’audience vorrebbero relegare ciò che è complesso, cioè non vendibile.

domenica 22 maggio 2011

Gerd Rohling presso la galleria berlinese Florent Tosin


Durante la sesta edizione del “Wochenende der Kunst” del 29 aprile 2011,  la galleria berlinese Florent Tosin ha presentato le opere di Gerd Rohling, maestro nella trasformazione della materia, quasi un mago della trasmutazione: è certo che Rohling ha trovato la formula che converte scarti industriali  e rifiuti plastici in opalescenti alabastri e cangianti vetri che egli posiziona in teche e vetrine come fossero oggetti da museo: quali, infatti, sono divenuti dopo il suo intervento. La collezione di bicchieri con stelo e calice, i quali riproducono modelli della tradizione araba, romana, veneziana; la collezione di vasi, replicanti forme greche, romane, rinascimentali, dai crateri alle anfore, conservando come aperta corolla la polisemia dei  riferimenti  storici indicano nell’ambiguità il senso portante  dell’operazione artistica di Gerd Rohling. La ricerca dei riferimenti storici, quasi copie che dell’originale riproducano lo schema atemporale e la meraviglia, la quale nasce dall’intento di nobilitare un materiale banale ed economico,  rendendolo una sostanza non più riconoscibile,  altra, che richiede da noi uno sforzo immaginativo come se stessimo di fronte a una nuova materia; la valorizzazione di un oggetto banale che somiglia straordinariamente a prodotti artistici senza prezzo, tutto questo rende l’azione artistica di Rohling anche una riflessione sul nostro rapporto con l’arte, poiché coinvolge il giudizio estetico, le definizioni che diamo dell’arte (le quali sono sempre storiche  come c’insegna Karl Dalhaus) e la presenza imprescindibile della tecnica nell’arte come rileva Nancy nel suo “Le Muse”. Non è di minore importanza che Gerd Rohling sia stato un pioniere nel recupero dei rifiuti: egli ha compiuto operazioni che non si limitavano a presentare il medesimo oggetto in un contesto diverso (il contenitore museale), ma operavano una radicale trasformazione e recupero di un materiale che la società aveva già destinato allo scarto. Discorso oggi quanto mai importante per lo sforzo di recupero e di salvaguardia nei confronti nel nostro ambiente. Ma qui vogliamo sottolineare che questo recupero si attua nel campo artistico e si carica quindi di ulteriori valenze. Se una traversa di binario viene presentata in una sala da museo resta traversa di binario a cui soltanto l’intenzione dell’artista  dona una diversa valenza semantica, provocando, di conseguenza, nei fruitori una diversa percezione, ma in Rohling l’oggetto ha perso completamente l’aspetto dello scarto, è di fatto un oggetto diverso. L’epifania di cui siamo testimoni, la nuova nascita che modifica anche la nostra idea del reperto archeologico, è indubbiamente una catartica messa in scena, complice le non neutrali vetrinette in cui tali oggetti vengono presentati, della funzione dell’arte nella nostra vita. In questo senso,  dinanzi a tali manufatti siamo costretti a rivedere e ripercorrere i poliedrici meandri che rendono l’arte capace di rinnovare gesti, oggetti, scopi e  ambiente.  E di restare magicamente sospesi anche nella formulazione delle definizioni che a tali elementi possiamo dare, poiché ideazione, gioco, progetto non siano mai troppo lontani dalla nostra esistenza, ma restino nelle nostre possibilità, siano una nostra concreta risorsa. 

Rosa Pierno
http://www.florenttosin.com/

giovedì 19 maggio 2011

Gilberto Isella “Mappe in controluce” Book Editore, 2011


Leggendo i versi dell’ultimo libro di Gilberto Isella “Mappe in controluce” Book Editore, 2011, sfilano dinanzi ai nostri occhi cortei epici, parate delle mille e una notte, processioni di santi. In ogni caso vediamo scorrere lo scibile umano, non solo tramandato attraverso i libri, ma le opere tutte dell’umano ingegno. Che cosa dovrebbe implicare avere sotto gli occhi, la più grande quantità di conoscenze? L’artista sembrerebbe voler verificare che cosa è possibile fare/conoscere con la più grande quantità di libri possibile: sorta di sogno leibniziano, contrapposto a quello cartesiano, nel quale si sceglie attraverso un metodo: qui, invece tutto viene riunito sulla pagina senza distinzione: si scriverà il libro universale e poi si ricomincerà daccapo. Naturalmente qui la posta in gioco  non è solo quantitativa. Si cerca nel pagliaio l’indizio risolutivo, sapendo che si conosce già tutto fin dall’inizio: la chiameremo, allora, prova del nove.  Quel che si insegue è un risultato ottenuto per vie traverse, intestine, clandestine, inusuali, paradossali, errate. Se l’assunto è vero, e cioè che non esiste altro fondamento che la scrittura, allora si deve giungere anche per altre vie al medesimo risultato. E l’esperimento consisterà nello scrivere il libro dei libri, il libro sintesi: la mappa per gangli, nodi focali, sintetica, che funziona come un indice di tutte le mappe esistenti. Nuovo libro: sia chiaro! Di autonomo valore, di altissima cifra stilistica, in cui la sintassi è fratturata come un vetro realizzato con la tecnica del raffreddamento ad acqua che sia stato colpito e ricomposta in un impossibile collage che voglia addivenire a integra forma.

Gilberto Isella individua nel tempo una componente essenziale dell’esperimento/esperienza: risuona qui integra la visione benjaminiana del passato come proiezione proveniente dal futuro: indubbiamente la domanda è lecita: con tutte le testimonianze che l’uomo ha lasciato a se stesso, nulla l’uomo impara? Nulla gli insegna a evitare la guerra, la sopraffazione, il dolore? E’ dunque con una non retorica volontà di riproporre il problema, quasi fosse l’estratto finale che si può trarre da tutti i libri prodotti dall’umanità, che Isella, ridicolizza il monumento culturale eretto dall’uomo: “salva sguardo criptato la guerra / e l’abbaglio in un occhio disfatto /  l’armonia la ritrova per l’embolo / che balbetta nel sangue eclissato”. Qualcosa incrina dunque il totalizzante  progetto e pare essere il linguaggio stesso con il suo scarto tra significato e significante:

il minimo colpo di tosse che ha il gotico vento
muove l’asse dei segni in questa chiusa cattedrale

occulte nervature trovano nuovo alimento
palinsesti si accendono nel vuoto sepolcrale

dai costoloni rifulgono creature d’oblio
nei monogrammi si staglia la parvenza del dio

ove si comprende che il linguaggio, ciò che crea, ciò che tesse trame, oggetti e presenze  è al tempo stesso infido e instabile: vi si annidano trappole e imprevisti. La costruzione dei mondi è certa almeno quanto è temporanea. E dalle costruzioni umane la scienza non è esclusa, essendo anch’essa un prodotto storico. Né, dalla perlustrazione, è esclusa l’arte, con i suoi valori eterni, poiché ampliando i territori di ricerca, si scopre sempre la medesima falla: “la legge del sospetto metta in guardia dal traforo / che ogni vano domestico condanna a lente usure / utopie di tele nuove diano belle imposture / se bianca crema al muro appesa è tavola d’orrore”. Non v’è nemmeno modo di rafforzare le barricate difensive atte a salvaguardare un’area di tregua creando relazioni, stringendo alleanze tra diversi ambiti del sapere, ad esempio tra trascendentale e immanenza: “ a morsicare anime nell’aldilà / sono sempre i denti falsi a farla franca”. Dopo tanti secoli di cultura occidentale risultiamo esangui, “aventi un fosco interno” abbiamo perlustrato in ogni dove, “con discrezione abbiamo leccato tutto il pasto”. E ora, nel presente, “non è chiaro chi guadagna o perde in quest’impresa / mimesi di magnifica sorte o atto mancato”. Ma c’è ancora tempo per una magnifica rappresentazione teatrale, sorta di convocazione finale di oggetti e persone che abbiamo tanto amato, di cui non potremmo in alcun caso fare a meno, anche quando se ne sia saggiata l’illusoria presenza o consistenza:

arcimboldesca faccia a virtù elevata
rampa virente in varia carne finita
brillante labbro per frasca derelitta
o gambo giovane per ruga imbolsita

a testimonianza anche dello stile varissimo dei versi che si susseguono nella raccolta di Gilberto Isella, i quali formano un collage visivo delle forme metriche della tradizione e che appare infinita rispetto a quell’altro infinito che la sovrasta: il futuro e in cui il finito, l’uomo, appare un niente secondo la lezione pascaliana. Né nulla può fissare il finito, racchiuso tra questi due infiniti: “queste lezioni sullo schermo passano / per inventario o poster naturale / si celebra così anche postremo  un cosmo / nei gesti in cui involvendosi risale”. E’ amara quanto disillusa la perlustrazione compiuta da Isella, e non esente da un cinismo paradossalmente sofferente, poiché al cinismo il poeta si sente costretto dalla situazione di crisi  dell’epoca in cui vive: “ci propose la più alta algebra dello sguardo, e noi faremmo di tutto per postillarla, piccole rane cieche nello stagno, postume dentro la divina palude”.  Ed è certo un cinismo strettamente legato alla malinconia, quasi una sua estrema variante, aura tormentosa che emana dalla figura di Saturno e che connota sinistramente il ruolo del poeta, il quale è, inoltre, consapevole del suo “povero dire”, rivestendo un ruolo che la storia ha fatto fuori: “al dio triste il partire e senza alloro / verso derive dell’età dell’oro”. Il cinismo può però ancora essere  tramutato in ironia, una forma comunque costruttiva poiché critica: vengono messi in contatto in un avvampante corto-circuito i materiali culturali con i moderni mezzi mediatici, ottenendo una critica alla società contemporanea la quale svilisce, anziché riattivare, la nostra capacità di costruire una diversa visione del mondo. La conclusione della silloge prefigura uno scenario agghiacciante: paesaggio disegnato da radiazioni. Ma resta nitido un messaggio: la cultura, comunque, è la nostra unica possibilità per deviare il tracciato segnato da un incombente destino.

Rosa Pierno

martedì 17 maggio 2011

Il libro fotografico di Jeannette Montgomery Barron “My Mother's Clothes” Welcome Books, 2010


Costruire con gli oggetti una presenza, l’esistenza, l’individualità di un essere umano e fotografare tale corredo residuale inanellando una narrazione non è una descrizione sufficiente a esaurire il nucleo centrale  dell’ultimo lavoro della fotografa americana Jeannette Montgomery Barron  My Mother's Clothes”, raccolto nel libro edito da  Welcome Books, 2010, di cui si sono già svolte diverse mostre in America e in Italia. Anzi, non è che l’inizio di un’azione ricostruttiva costantemente interrotta e deviata dal rapimento che gli abiti o gli oggetti appartenuti alla madre dell’artista  Eleanor Montgomery Atuk   producono in noi. Un paio di occhiali posizionati su un piano scuro in posizione non centrale, di cui si ammira il miracoloso equilibrio compositivo che l’oggetto stabilisce col piano, la catenina col porta profumi, al centro della fotografia, ma  contornata da una grandissima porzione di spazio, in cui a onta di tutto,  il piccolo oggetto non si disperde, ma regge lo sperequato rapporto di forza col fondo. I fondi, tutti straordinari, la vera scommessa di queste foto. Ogni abito contestualizzato con elementi che si pongono come  opposti o complementari: l’abito di cotone color crema con volant e gonna lunga e arricciata sulla bandiera americana a rafforzare la tipologia popolare e tradizionale dell’abito,    la giacca di seta con disegni giapponesi distesa in aperto dissidio su una stoffa a motivi jacquard, un gilet di montone che colloquia con uno sfondo di disegni blu francesi di gusto settecentesco in cui sono messi in rapporto natura e architettura, una pelliccia adagiata su un verdissimo prato, il vestito di seta ecrù con ricami in oro che echeggia su una tela di cotone della medesima tinta, la quale ne replica le pieghe, le righe zebrate che rinforzano il carattere del già spiritoso e ruggente soprabito rosso corto e senza maniche o la giacca zebrata che non stride con il tappeto persiano.


Ogni scatto denuncia una preparazione, una riflessione che valuta pondi di elementi estetici, che equilibra forma con colore, in un  bilanciamento di forze che somiglia a quello che si deve cercare in architettura tra le forze statiche.     Non si possono sfogliare rapidamente queste pagine: ognuna presuppone una valutazione delle scelte formali, con il loro carico semantico. Le fotografie di Jeannette Montgomery Barron non sono mai concettuali, non presuppongono la decrittazione di un pensiero a cui far riferimento come a una griglia esterna  sopraggiunta, addizionata, ma risiedono in maniera traslata (dal punto di vista del mezzo utilizzato) totalmente e pienamente nell’area della pittura. In qualsiasi scatto dell’artista si possono individuare elementi ascrivibili alla tradizione pittorica: luce/ombra, profondità/superficie, figura/fondo, colore/disegno. Il carico semantico, a cui facevamo riferimento, è reperibile in ogni cosa. Ad esempio nelle relazioni che Jeannette Montgomery Barron istituisce tra oggetto e sfondo vengono traghettate informazioni sulla madre: un’estrema raffinatezza coniugata con una spontanea semplicità e immediatezza, un impegno intellettuale intrecciato con una presenza affettiva concreta e risolta, un’elegante fermezza modulata con una grande flessibilità. Certo, è leggibile anche il dolore per la sua perdita: quel vestito blu reclinato sulla poltrona a cui manca il corpo o la cuffia da bagno che più di ogni altra cosa fa venire in mente che non sarà più utilizzata.   Non possiamo sapere nient’altro della madre di Jeannette, tramite le sole foto, nessun’altra informazione che questa, dei suoi meravigliosi abiti, del suo gusto infallibile nello sceglierli, ma non ci pare affatto poco. L’eccellenza nel buon gusto è garanzia per noi di una ricchezza che c’investe, di cui ci nutriamo. Le foto, così sontuose e splendide, ricche e nitide, dai folgoranti colori e dalla stagliata precisione dei profili, sono una meravigliosa invenzione artistica, a prescindere dal pretesto che le ha comunque originate.

                                                                                                        Rosa Pierno
http://www.jeannettemontgomerybarron.com/
http://www.welcomebooks.com/mymothersclothes/

venerdì 13 maggio 2011

Marco Furia su “Essere e abitare” di Tiziano Salari, Moretti & Vitali, 2011

Con “Essere e abitare”, Tiziano Salari svolge un complesso percorso in cui diversi campi dell’espressione umana, principalmente poesia e filosofia, vengono, per così dire, proposti in maniera nello stesso tempo congiunta e disgiunta.
L’itinerario assai articolato, ricco di lucidi spunti, presenta tratti conformi e difformi rispetto a un’idea ontologica messa, essa medesima, in discussione.
Si parla di “essere” e di “verità” in quella certa maniera assidua e problematica che induce a pensare al significato, ossia a come tutti i concetti convivano in ogni modo nell’àmbito dell’umano linguaggio.
E se i suddetti due elementi non esistessero? Se non facessero parte del nostro idioma?
Questo interrogativo pare emergere, nemmeno troppo per assurdo, da una scrittura intrigante ma precisa, in cui si avverte la presenza del dubbio o, più correttamente, dell’enigma.
Qual è il senso di queste fitte trame?
La risposta, a mio avviso, bene si mostra nello stesso intento dell’autore, consistente nell’accumulare materiali, selezionarli, sottoporli ad acute analisi e, soprattutto, offrirli ad altri, renderli disponibili a infinite aggiunte.
Le vicende, così, come dicevo all’inizio, unite e distinte, diverse e simili, vengono a costituire proposte di significato.
Fattezze davvero democratiche si riscontrano in questa prosa (non a caso, in forma di dialogo) tutta rivolta a sollecitare molteplici risposte.
Il significato non si esaurisce, perché la parola non batte mai su se stessa, bensì provoca ulteriori sviluppi, discorsi, narrazioni, senza tuttavia spiegare l’enigma in cui vive.
Una scrittura, in sostanza, che dice e contemporaneamente chiama in causa, non escludendo a priori nessuno.
Da siffatto punto di vista, i grandi della letteratura e della filosofia possono essere quasi considerati benefici promotori, cioè individui capaci d’indurre a fertili riflessioni chiunque voglia ascoltarli, indicando atteggiamenti utili a far maturare proficue consapevolezze.
La vita non si può spiegare, nondimeno si può senz’altro dire, ossia mostrare tramite lingua d’uomo.
Il soffermarci con consistente impegno su queste pagine, perciò, ci metterà in grado d’illuminare nei lineamenti di poeti e pensatori del passato aspetti dell’oggi e a ravvisare nella responsabilità quotidiana della comunicazione il tratto decisivo del nostro stare al mondo.
Il tempo, allora, non più cronometrico tiranno, verrà vissuto quale elemento in cui l’essere tende a identificarsi con l’abitare (lo indica bene Tiziano, già nel titolo, con quella congiunzione “e” volta a suggerire analogie, parentele, corrispondenze).
Occorre comprendere come talvolta le contrapposizioni possano nuocere, impedendo di vivere assieme differenti dimensioni e inibendo il riconoscimento di fisionomie affini, non separate da perimetri invalicabili: “Filosofia e poesia s’intrecciano e si sovrappongono nel mio pensiero, anzi direi che tendono a coincidere. Ma so anche che nella nostra tradizione, a partire da Platone, esse sono state contrapposte con nettezza”.
Una propensione all’oscurità?
Al contrario, una vivida attitudine alla chiarezza quale esito di un esame attento, rigoroso, ma anche partecipe, appassionato, tale da far convivere, in maniera feconda, dimensione speculativa e affetto.
Un tipo d’esame, insomma, da favorire senza riserve.

                                                                                                          Marco Furia

mercoledì 11 maggio 2011

Angela Glajcan presentata dalla galleria Grossetti di Milano a The Road to Contemporary Art Fair, Roma, 2011


L’assunto iniziale che la carta possa inglobare volume sembra paradossale solo finché non viene trovata la soluzione, come accadde a Enea che si sentì dire da Didone che avrebbe avuto in regalo, per fondare la sua città, tanta terra quanta ne avrebbe potuta contenere una pelle di bue. Tagliata in strisce fornì ad Enea 22 stadi di terra. I fogli di carta distanziati e legati da perni, attraverso cui Angela Glajcan, artista tedesca, ricava intercapedini di vuoto e con cui costruisce figure geometriche irregolari, e che inoltre fora al centro con strappi, ottenendone imbuti, scivoli che conducono in profondità intestine, non solo producono volume, ma l’artista, con gli strappi con cui depriva la superficie del foglio della parte interna, consegue anche un ulteriore grado di profondità,  mostrando gli strati di  cui è composto ciascun foglio attraverso i bordi scabrosi dei fori. La splendida consistenza materica di tale carta, pesante e flessibile, la quale cade meglio di come cadrebbe qualsiasi tenda dai soffitti ai quali queste strutture sono sospese, fa sì che le opere appaiano sempre sul punto di cadere definitivamente, di aprirsi in direzioni insospettate, avendo un’ambigua rigidità. Carta che non reca segni e che è, essa stessa, segno. Materia che diviene autonoma, liberata dal ruolo di supporto, e che viene trasformata dalla capacità di Angela Glajcan come avviene nei “Prigioni”, quei marmi di Michelangelo in cui il “non finito” fa emergere la pura materia eppure integrata nella figura, figura essa stessa: presente in quanto marmo. Una considerazione particolare merita anche il vuoto generato dalla sovrapposizione dei fogli, ascrivibile alle caratteristiche particolari del materiale da cui è generato. La sua luminosità e motilità crea un cratere a rovescio che s’insinua nel moto di questi dragoni sospesi. E che non ne fa mai scorgere il fondo se non immaginando una rotazione attraverso cui l’asse dei fori ni fogli verrebbe a coincidere. Mentre nelle installazioni formate da nastri è la percorrenza a essere l’elemento che trascina il fruitore in un  falso nastro di Möbius. In ogni caso, egli, modificando la propria posizione,  vede i volumi trasformarsi in grate, in pettini attraverso cui scorge le pareti museali, ma ritagliate in strisce che appaiano compresse o allargate in relazione alle ondulazioni della carta. La carta, dunque, non solo in quanto schermo, ma anche in quanto partizione, in quanto agente sulla visione e sullo spazio. Anche il tempo viene coinvolto, presentificato, nei volumi di carta erosi, consumati da abrasione che si direbbe connaturata alla durata della carta. Non crediamo che vi sia un limite, se non paradossale, appunto, alle forme e ai volumi che Angela Glajcan potrà ancora ottenere da questo materiale. 

Rosa Pierno
http://www.grossettiart.com/

lunedì 9 maggio 2011

Due poesie inedite di Stefano Guglielmin

La prepotenza della natura sgorga come un fiotto ogni volta imprevedibile e ci sorprende con la sua virulenza: qualsiasi nostra costruzione, letteralmente ordinatrice, sistemica, che tenda a dare una parvenza di prevedibilità si schianta contro tale forza, eppure a noi non estranea: quella crudeltà  dell’animale  che divora la prole, la bocca che partorisce l’individuo, senza distinzione morale. Noi siamo natura, e il nostro pensiero, apparentemente così etereo e astratto, immateriale e incorporeo reca in sé l’orma, il marchio di ciò a cui si riferisce: quel peso sfruttato dall’ala, il soffio/respiro che accomuna “notte e cagna o giorno e angelo”. In ogni caso in questa espertissima tessitura che presenta diverse grammature e densità, apparenze sono scambiate al mercato nero con certezze. Lì dove natura  segna le fasi e i giorni, le fasi stagionali coi frutti, e colloquia con la geometria (“cerchio”, “quattro angoli”) inscenando nei luoghi (“pietra”, “platea”, “tende”)  atti che somigliano a riti, è la lingua che s’incarica di  tessere elementi eterogenei, di tenerli insieme. Non si sostituisce alla realtà, vi si adegua con fatica e aspettative, e certamente contribuisce ad accelerarne il processo di trasformazione. La poesia, in Stefano Guglielmin,  assume un alchemico potere.



Perfetta figura


Dici quercia e bacio, aspetti
un cielo digiuno che spiova.

Sdraiata la lingua sulla pietra
scivoli aperta nell'animale
che dorme: pare il cerchio
una figura d'amore, perfetta
se non divora la prole.




Nel frattempo, al bivio




Come l'ala sfrutta il peso, chiedi un gesto
che porti in tavola o a dormire. Viene il mese giusto
intanto, con la sua muta affacciata ai frutti
in strada, che fanno aprile, nozze e ogni altro
a capo, per un soffio vivo e languido insieme
come se notte e cagna o giorno e angelo
sgorgassero qui, al bivio
con la platea da fare e la scrofa
che tiene il mondo in moto, che dispera
ai quattro angoli della lingua. E non c'è altro
infatti: autobomba, ladro, lavoro, amante
scarico dell'iva, tutto, dalla bocca
scuote le tende e nasce.



Stefano Guglielmin è nato a Schio (VI) nel 1961. Laureato nel 1986 in Filosofia, insegna lettere nel locale liceo artistico. Coordina un laboratorio per l´educazione permanente alla poesia, mentre a Schio fa parte del gruppo "Poesia/Poesie" che organizza, in città, incontri con autori contemporanei. Collabora con le riviste di letteratura e filosofia "La Mosca " di Milano e "La Clessidra", e con l´associazione "Convergenze", che promuove ricerca ed eventi formativi in psicologia, ed è nel consiglio editoriale di "Opera Prima", collana di poesia curata da F. Ermini. Fa parte, inoltre, della redazione di LiberInVersi (http://liberinversi.splinder.com/) e ha curato per un anno, dal settembre 2006, la rubrica di "Poesia & Blog"; sulla rivista in rete Tellusfolio( http://www.tellusfolio.it). Gestisce il blog di divulgazione poetica:
"Blanc de ta nuque" (http://golfedombre.blogspot.com/) e
"La distanza immedicata" (http://ladistanza.blogspot.com/) .

giovedì 5 maggio 2011

Jean-Baptiste Siméon Chardin visto da Pierre Rosenberg e Gil Jouanard


Utilizzano due metodi opposti Pierre Rosenberg e Gil Jouanard nell’affrontare uno dei pittori più straordinari nella storia dell’arte, soprattutto in relazione agli sviluppi a cui daranno luogo le sue opere: Jean-Baptiste Siméon Chardin. Se Rosenberg nel suo “Chardin”, Abscondita 2010, avvicina l’oggetto da storico e riporta fedelmente notizie riguardanti sia la sua esistenza sia i giudizi critici formulati dai contemporanei del pittore, sia le quotazioni sia l’andamento delle sue vendite e risulta, inoltre, estremamente parco nella descrizione delle opere, nel restituirne in forma letteraria una descrizione valutativa,  Jouanard, invece, nel suo “Bonjour, monsieur Chardin!”, Pagine d’arte 2001, taglia la testa al toro: elimina tutto ciò che inerisce all’esistenza del pittore e affronta esclusivamente l’opera, cioè “quella fragilità eterna, quell’istante perpetuo, di cui saremo stati gli intercessori”.

Poiché, per Gil Jouanard, la realtà umana di Chardin svanisce dietro quell’altra realtà creata dalle sue opere, le quali rappresentano oggetti che significano esclusivamente quello che sono: oggetti utilitari sbreccati, consumati dall’uso quotidiano. Eppure, lo sguardo non si arresta sulla loro consistenza materica e Jouanard in un attimo grazie ad essa salta di scala, passa alla natura, alla “foresta dalla quale proviene il legno con cui è stato fatto il mortaio”, anzi ora è la foresta a occupare la scena e al medesimo modo dagli ortaggi disposti sulla tavola di legno egli passa all’immagine dell’orto. E’ lo stesso Jouanard a effettuare un richiamo a se stesso per restare aderente  a quello che si vede, prendendo alla lettera la presunta modestia di Chardin, tutta giocata su “quelle superfici lisce, così propizie alla rifrazione e al riverbero del più piccolo raggio di luce che le colpisce”. Eppure, se ci si deve attenere alla volontà di Chardin di “riprodurre il più esattamente possibile la fattura, la struttura, la  realtà  degli oggetti” altrettanto si devono notare le “ondate di sensazioni scaturite dal più profondo dell’umano piacere”.  Per Jouanard, infatti, è questo l’accesso spalancato sull’”abisso ignoto, quell’insondabile fugacità”, attraverso cui egli può cogliere l’occasione di avversare certa arte contemporanea che dà la stura a proclami di doppio e triplice senso riguardo a ogni suo più piccolo gesto, mentre, nelle opere di Chardin sembra avvenire esattamente l’inverso: è proprio il suo tentativo di catturare le apparenze più fugaci delle realtà che consente ai fruitori di aprirsi alla conoscenza, di formulare un nugolo di interrogativi, di essere risucchiato nel vortice dove tutto si perde, si frantuma” e si fa sensazione,  scagliandoli “nel mondo per la prima volta”, restituendo loro i sensi, fino a dove “risplende l’assoluta non-intenzionalità di Chardin”. E’ l’estasi contemplativa che attraverso lo svuotamento prodotto in noi dalle opere ci rende all’improvviso particella dell’universo. Chardin è andato “a braccare la verità nel vero piuttosto che nel miraggio metafisico e nei discorsi di principio”. Se essere contemporaneo significa essere sempre presenti, Chardin è nostro contemporaneo: nei suoi utensili così familiari, noi riscopriamo “significati che si susseguono all’infinito, scaturiti l’uno dall’altro come strati sovrapposti nella memoria collettiva dell’umanità”.

Pierre Rosenberg, con il suo lavoro teso a restituirci pittore e opera insieme, accerchia entrambi attraverso le testimonianze, non indulgendo a interpretazioni personali, se non quelle inerenti alla cernita e alla valutazione delle stesse. Il critico si concentra moltissimo sulla pennellata, grassa e granulosa, sulle specificità formali dei quadri, sul confronto tra essi e quelli coevi, lavorando come uno scultore intorno ai materiali per fare emergere sia la complessità delle opere sia le loro relazioni con la società e il momento storico in cui esse si collocano.  Rosenberg insegue l’artista attraverso la “conoscenza dei grandi maestri olandesi, non diretta, ma profonda”. Da Largillierre a Veemer, da Rembrandt a Piazzetta, Rosenberg traccia archi di cerchio che delineano l’insieme dei prestiti, delle derivazioni, delle comuni passioni e modalità espressive, tracciando al contempo ciò che differenzia Chardin dagli altri artisti a lui contemporanei. Nessun disegno preparatorio, Chardin lavora dal vero, dai modelli che ha in casa,  proprio la modalità che nel Settecento è considerata di minor valore, visto che si predilige l’immaginazione, il tema storico. Non è casuale che Chardin venga riscoperto dagli impressionisti: la composizione lo rivela “precursore di Cezanne, la sua pennellata esalta Van Gogh”. Rosenberg cita il silenzio che emana dalle tele che riproducono quasi sempre il medesimo gesto e indica in Chardin un”amore sconfinato per l’infanzia e i suoi giochi” e per la caccia. In ogni caso la messe di citazioni tratta dai testi critici che si occupano di Chardin, spesso non riesce a restituire l’emozione che si prova dinanzi ai suoi quadri. Diderot, stesso faticherà e sarà guidato da Chardin stesso, maestro nel parlare della propria opera. Ma incomparabilmente meglio mostreranno quale sia stato il lascito di tale fecondissima lezione proprio le opere degli artisti che trarranno da lui ispirazione: Corot, Picasso, Gris, Braque, Morandi, in un’altrettanto ricchissima carrellata che quella relativa alle fonti. Vogliamo concludere con una frase di Rosenberg, con cui ci è sembrato fosse consonante anche Jouanard: “catturata da quei frutti, da quegli oggetti, l’attenzione si attarda  e scopre, al di là delle apparenze, l’aspetto sconosciuto del mondo che ci circonda”. Due libri imprescindibili per illuminare la nostra comprensione di Chardin.

                                                                                         Rosa Pierno

martedì 3 maggio 2011

Gilberto Isella su "Quell'andarsene nel buio dei cortili" di Milo De Angelis

Un gruppo di versi, nella raccolta Quell'andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010) ci trasmette in modo ellittico ma tutt'altro che  ambiguo la visione del mondo di Milo De Angelis: "Restammo vicino al passaggio a livello./ Tu perdevi i tuoi cieli. Come rispondere/ all'immenso? Eravamo una frazione della voce,/ sillabe disperse". Dove a colpirci, entro l'opposizione di fondo  piccolo/ grande, alto /basso, è  il dato di partenza (il trovarsi in un luogo fisico, l'essere individui parlanti nella precarietà), che muove da un'ipotesi realistica ma è presto messo  in relazione con l'imponderabile.  Come leggiamo in altri versi, la nostra vita sembra infatti consistere in un rapporto conflittuale tra la contingenza che ci vincola (siamo creature frammentarie, in perdita d'assoluto, "dispersi ai bordi della terra") e l'agire misterioso, aleatorio, di un'entità illimitata che investe ogni segmento del quotidiano. Non dal divino e dalle sue epifanie è segnata tale immensità, bensì dal vuoto e dall'assenza (ontologica e storica) di un  evento fondante o di un senso riconosciuto. Essa dà forma a uno scenario enigmatico - posto in noi e fuori di noi nello stesso tempo, quasi "una linea verticale" vicina all'anima - dal quale partono segnali perturbanti suscettibili di trasformarsi in allucinazioni (qualcosa che assomiglia all'unheimlich freudiano). Il destinatario li registra nel cerchio ristretto e ombroso del suo metaforico "cortile" e del suo isolamento domestico, ma direi soprattutto nei territori dell'accidia epocale, sordidamente fautrice di violenza anche se espressa quasi unicamente per cenni e allusioni, che lo circonda. Sono le frecce o le furie di un tempo non risanabile: "una furia/ che scende verso l'oscuro e dilaga/ tra i muri passeggeri e sgretolati/ dove ognuno è solo il suo andarsene". L'oscurità ci tiene in ostaggio, il nostro difenderci assomiglia a quello delle talpe, affidato all'inconscio della tana con tutti i suoi reagenti fantastici, eppure non mancano momenti di sollievo e di tregua nel libro, allorché, ricuperando per un attimo la condizione infantile o certi ambienti familiari, e ridando fiducia alle risorse del canto e dell'epopea, possiamo ascoltare "il cielo che nasce in ognuno di noi".
    De Angelis sa che, come la poesia contemporanea ha attestato innumerevoli volte, esistono zone dell'esperienza negate alla rappresentazione piena ("Non esiste un cerchio in cui fermarsi, un nome/ pieno da ribadire sulle labbra"), rischiarate perciò solo da brevi ed effimeri bagliori e descrivibili attraverso percorsi enunciativi crivellati, cosparsi di parole in frantumi. "Sillabe disperse", la  "sillaba che ci chiama dai sotterranei", "un impasto di frasi sull'asfalto", dove il paradigma rimane quello, vero e proprio sigillo di un'età culturale non ancora compiuta, della "storta sillaba" montaliana.
   L'investimento obliquo della parola, invitata da De Angelis a condividere "le oscure cantine" della condizione esistenziale, corrisponde a un esercizio verbale che si affida alle seduzioni dell'ellissi e alle ripetute modifiche di prospettiva, fino a ottenere accostamenti insoliti di immagini e incrinature dell'ordine spazio-temporale. Di questo stile rappresentativo spaesante, talvolta visionario ma che sa anche fare appello alla concretezza (una concretezza di secondo grado, per intenderci) , De Angelis è stato un maestro soprattutto nelle opere precedenti, come Millimetri (1983) e Distante un padre (1989). Nella presente raccolta i toni appaiono addolciti dal ricorso a una dizione meno aspra, incline a una certa armoniosità, come si può rilevare dalle Canzoncine che costituiscono l'ultima sezione. Ma questo va messo sul conto di un'evoluzione naturale. Raggiunto il massimo punto di tensione, il linguaggio poetico non può che distendersi, ripristinare configurazioni più compatibili con l'espressione quotidiana.

                                                                                     Gilberto Isella