venerdì 29 luglio 2011

Tzvetan Todorov “Lo spirito dell’Illuminismo” Garzanti, 2007


Il tentativo di riattualizzare il lascito di un’intera epoca, come questo di Tzvetan Todorov  ne “Lo spirito dell’Illuminismo”, è meno condivisibile se, espunte le emergenze più problematiche, se ne filtri solo la parte più congeniale al proprio assunto, quello che si vuole porgere come un frutto polito e digeribile. Todorov presenta una troppo patinata confezione del pensiero settecentesco (privandolo di asperità, contraddizioni e incongruenze teoriche e politiche). Dopo avere sgombrato il campo dalle egoistiche e isolate posizioni sadiane che escludono l’altro e pongono l’individuo in un contesto in cui le relazioni sociali sono tranciate, e dopo avere precisato che l’illuminismo non cade nel terreno del relativismo perché cerca sempre solido terreno nell’accettazione del diverso punto di vista quando esso sia universalmente condivisibile,  assume come guida quelli che sono i capisaldi della dottrina illuminista e afferma che essi non solo sono ancora validi, ma sono gli unici che abbiamo a disposizione per operare nel nostro presente.  Una volta assunti come universalmente condivisibili i concetti di dignità non calpestabile della persona, di inviolabilità dei diritti umani e quelli relativi all’autonomia da ogni tipo di potere precostituito e della conoscenza rispetto a ogni sapere preconfezionato, essi fungono per Todorov, da metro con cui misurare le azioni e le decisioni dei governi nella nostra epoca.

Se il libro risulta affascinante per la limpidezza delle idee, non si può “assumerlo” senza il necessario antidoto.  Gli universali risultano vuoti se non li si contestualizza; restano astrusi, zavorrati come sono dalla loro origine trascendentale.  E il fatto che si tenti di fondare la loro accettabilità sulla condivisione generale non fa sorgere minori dubbi: in nome di quale Ragione, di quale Bene e di quale Senso della storia si possono imporre scelte?  Inoltre,  il concetto di critica formalizzato da Kant,  sull’onda dell’esperienza dell’Illuminismo, non assume in questo libro la sua funzione regolatrice: si resta in balia di concetti che per essere, appunto, universali, sono rigidi e considerati al di fuori dei modi e delle situazioni in cui dovrebbero operare per fornire un miglioramento delle condizioni di vita. Utilizzare concetti polimorfi, duttili, calati nei contesti, non disuniti da valenze contraddittorie e consideranti la molteplicità dei punti di vista, non trascendentali, e per questo più rispondenti alla complessità umana di cui debbono essere strumento di sostegno, e non certo coercitivo, costituirebbe la polarità dialettica che a questo libro manca.

Il disagio che si prova è quello di trovarsi di fronte a un maestro in buonafede che appiattisca proprio quel concetto di critica che dovrebbe essere lo strumento con cui non accettare niente incondizionatamente, niente che non sia passato attraverso il vaglio della critica della conoscenza, fornendoci invece, e contro il suo stesso assunto, una scenografia in cui politica, economia, saperi e potere sono disegnati in maniera manichea e dove è sempre facile individuare la verità.  Passando sotto silenzio che la verità ha una valenza storica, è presa nella rete della storia e  il riferimento alla natura umana non offre maggiori appigli. Definizioni di principio non hanno significato se non sono calate in un contesto storico in cui, di volta in volta esse devono essere valutate in maniera specifica. Valga come un esempio per tutti il principio di una società senza classi, considerata come desiderabile da tutti gli uomini, da raggiungere con la lotta condotta da una classe sull’altra (posizione assunta da Chomsky durante il confronto con Foucault in “Della natura umana”, Derive Approdi, il quale fa appello alla natura umana per fondare la giustezza delle sue posizioni, che si riveleranno nella risposta di Foucault solo un’opinione). Io credo che non possiamo non sperare di realizzare una società più giusta, ma è un visione inseparabile dall’esercizio della critica rivolta a qualsiasi forma in cui il principio si attualizza.   

                                                                                                             Rosa Pierno
                                                                   

venerdì 22 luglio 2011

Giandomenico Romanelli “Il mistero delle Due Dame” SKIRA, 2011

Un freschissimo, affascinante racconto quello  svolto da Domenico Romanelli nel suo “Il mistero delle Due Dame” SKIRA, 2011, com’è spesso il resoconto della scoperta dell’attribuzione di un autore a un quadro, quasi un racconto poliziesco, con indizi da decifrare e peripezie o viaggi da compiere da un paese all’altro per seguire le peripezie dell’opera, e che in questo caso è particolarmente  intrigante poiché riguarda anche componenti sociali, politiche, storiche e di costume come certi atteggiamenti del Bel Paese nella gestione dei propri Beni Culturali. Un libro che sicuramente consente di comprendere quanto sia complesso il processo di attribuzione e quanto si avvalga di tecniche e considerazioni diversissime tra loro, dal lavoro di scavo nei documenti notarili, di vendita, nei lasciti testamentari, persino nei furti, seguendo la ricomparsa del quadro  in aste o fiere o negozi d’antiquariato, soltanto per fare qualche esempio. Tutto può concorrere a rintracciare l’autore, anche gli elementi più esigui e impropri, che casualmente cadano nel setaccio.   

Ma qui l’autore del quadro intitolato a posteriori “Le Due Dame” è noto fin dall’inizio: Vittore Carpaccio.  Quello che non è noto è che cosa il quadro rappresenti e perché è così anomalo il taglio della rappresentazione: due donne che insistono sul lato destro dell’immagine, una che guarda verso un cane di cui si vede solo la testa, mentre l’altra mira a un punto esterno al quadro, ed è appoggiata a una balaustra su cui un vaso contiene un fiore reciso dal bordo del quadro stesso. “Su questi caratteri, su questa sorta di gelo impassibile e chiuso che mostra di aprirsi unicamente verso un punto a noi invisibile e sconosciuto, su questa atmosfera sospesa e non-misurabile si sono costruite ipotesi e leggende, denigrazioni rabbiose non meno che celebrazioni smodate”. Il che la dice lunga sull’arbitrarietà e sulla difficoltà di mantenere sempre la barra al centro tra interpretazioni e ipotesi di ogni tipo, anche da parte di grandi storici dell’arte.  

Romanelli spiega le difficoltà inerenti al riconoscimento del significato del soggetto, alle numerose ipotesi e alla loro verifica. Ad esempio, per quel che riguarda il supporto, la tavola poteva essere stata tagliata: essa, infatti, sul retro presenta un’altra immagine e alcune tacche che fanno pensare a dei punti di aggancio, a cerniere, e quest’ultime fanno presumere che la tavola potesse appartenere a un’anta, a una portella, a un pannello applicato su qualcosa. Romanelli ricostruisce la complessa vicenda dell’opera e delle sue parti mancanti con linguaggio fluido e preciso e con rigore metodologico. Il racconto si sdoppia per seguire le vicende del ritrovamento del tutto fortuito della parte superiore che combacia perfettamente con quella inferiore (al gambo sarà restituito il giglio) e che consente di comprendere qual è il soggetto. “Stesso legno, medesimo andamento della vena e delle nervature, addirittura perfetta coincidenza e continuità delle gallerie scavate anticamente dai tarli” e inoltre “stessi strati di preparazione sotto il pigmento, stessi materiali impiegati; stesse tracce dei chiodi disposte su una medesima linea”.   Parte superiore a cui, nonostante la riconosciuta importanza del pezzo, sarà ugualmente  dato il parere positivo per l’esportazione.

La ricomposizione dei due frammenti (la prima collocata presso il Museo Correr a Venezia, la seconda al J. Paul Getty Museum a Los Angeles) darà la possibilità di ricostruire la vicenda della tavola, la provenienza e il significato. Ma la sorpresa non termina qui: l’indagine della “fitta ragnatela simbolica della scena”   si va a “collocare dentro a una tradizione letteraria, narrativa,   allegorica la cui trama non apparirà più quell’inspiegabile e bizzarro disporre figure e oggetti nell’umida pesante atmosfera di mollezza senza senso apparente, provocatorie e lascive, di cui s’è spesso favoleggiato”: la sua matrice letteraria immediata  sarà infatti individuata nel proemio del Decameron, nulla, fra l’altro perdendo “della sua smagliante ed enigmatica imperturbabilità”.

Rosa Pierno

giovedì 14 luglio 2011

Otto Pächt “La scoperta della natura. I primi studi italiani” Einaudi, 2011

Lo straordinario libro “La scoperta della natura. I primi studi italiani” di Otto Pächt,  in cui viene proposta una tesi rivoluzionaria e cioè che la nascita del paesaggio moderno, generalmente attribuita agli artisti dell’Europa del Nord, abbia invece le sue radici in Italia, è anche un  libro in cui si vede all’opera un maestro che si accosta alle opere d’arte, e alle immagini in generale, tramite una frequentazione quanto più estesa possibile e dalla specificità delle immagini trae considerazioni e riflessioni che ineriscono profondamente alla loro natura. Pächt preferisce restare aderente alla forma e ai significati strettamente connessi ad essa, dove quelli simbolici, storici, ecc., sono un corollario che aiuta a comprendere la forma, ma non si sostituisce a essa. Il libro è straordinario, non perché appartenga all’area degli studi puro-visibilistici (di cui Riegl è stato  l’iniziatore) ma perché consente di vedere all’opera un pensiero che rispetta fermamente il dato di partenza, il documento “immagine”, attraverso un metodo che è fondato sull’analisi empirica dell’opera d’arte in cui vengono considerati come inseparabili lo stile e il significato e dove, appunto, il fondamento storico è sempre implicito. Pacht considera l’iconografia come uno sterile studio fine a se stesso se scissa dalle questioni stilistiche. Dallo stile, infatti, egli cava, come da una miniera, l’individuazione dei modelli da cui l’immagine deriva, la nuova mentalità che ha dato luogo a un nuovo modo di rappresentare la natura, ad esempio, che è l’oggetto di questo libro (dal vero e con spirito curioso e libero che fa la sua riapparizione nel tardo medioevo) le differenze a cui si possono imputare motivi generatori diversi. Ciò ha, a mio avviso, valore anche nel dibattito odierno sull’arte contemporanea in cui la filosofia spesso, nei suoi peggiori esiti, si sovrappone alla lettura dell’immagine con un marchio ingerente e livellante, in cui viene pressoché spazzata via la specificità dell’immagine, credendo di poter risolvere la sua intraducibilità in una serie di concetti individuati in maniera univoca, mentre “Nessuna indicazione di somiglianze o anche di parziali identità della forma può essere” considerata “conclusiva”. D’altra parte, J. Alexander, che è stato allievo di Pächt, registra nella sua prefazione come lo storico dell’arte “Osservava che solo con l’esperienza di una vita intera si può sperare di occuparsi dei problemi veramente difficili della storia dell’arte”. Pächt credeva fermamente “fosse responsabilità dello studioso lasciare alcune questioni aperte e non pretendere di aver risolto tutti i problemi in una sola volta” e che “provando a far meno, alla fine si ottiene di più”. Un altro interessante aspetto di  Pächt,  che Alexander rileva, è quello relativo alla modalità con cui si sceglie di parlare d’arte: “Sebbene diffidasse di un certo genere di linguaggio fiorito e superficialmente brillante che spesso viene applicato all’arte, a rendere i suoi scritti così ricchi e fruttuosi è proprio lo sforzo di descrivere con i termini appropriati i risultati di una lunga e faticosa osservazione”. E’ convinzione di Pächt che esista una specificità di ciascuna arte per cui i risultati maturati nella scultura non passano nella pittura e viceversa: “il naturalismo in scultura e il naturalismo in pittura non sono fenomeni identici. Si deve ricordare che scultura e pittura hanno ognuna le proprie specifiche leggi di sviluppo, il che significa che presentano processi di maturazione differenti. In altri termini, le condizioni favorevoli al superamento dello stesso problema (per esempio la raffigurazione di una pianta) può essere raggiunta dalla scultura e dalla pittura in momenti storici ampiamente separati”. Questo solo per tratteggiare quella che è la cornice di riferimento metodologica in cui questa splendida complessa trattazione si svolge e di cui vorremmo caldamente raccomandare la lettura.

Rosa Pierno

giovedì 7 luglio 2011

Poesie inedite di Giorgio Bonacini

L’addentrarsi nella lettura delle poesie inedite di Giorgio Bonacini comporta un’attenzione che è segno di una  spiccata sonorità dei versi, soprattutto di un’accurata scansione ritmica, di un cesello raffinato delle cesure, di frequenti spazi risonanti di vuoto,  definibili come  “un suon volante”, “un vivo fiato”,  avrebbe detto il settecentesco  poeta francese Voiture.
Né si tratta di una poesia che abbia un filosofico o scientifico fondo, ma con mezzi esclusivamente propri ne persegue esiti paralleli. Anzi, reclama uno specifico modo, che è quello di un pensiero poetico che si muove agevolmente fra le osservazioni nate a diretto contatto con la natura e  alcuni risultati scientifici o filosofici. Ci troviamo interamente in un ambito non metafisico, di poesia tenacemente aderente al piano percettivo e dove persino le idee sono meno appartenenti al mentale e più tirate verso un’oggettivazione linguistica (ove, appunto, la metafora appare  essere il tramite elaborativo del dato percettivo, anziché il versante dell’idea).
L’andamento sinuoso che si tesse e si discioglie come sotto l’effetto di una brezza, o di un riflesso abbagliante corrisponde a una scrittura di modulazioni e legami; a un tracciato sconnesso, ma, pur con fatica, praticabile; a una sequenzialità di esplosioni di cui non si prevedono né i fremiti, né le direzioni e che traccia autonoma, insostituibile esperienza.





Il tempo di uno sguardo ci appartiene
non possiamo esserne certi ma dobbiamo



    Il sole che ansima e soffia
e tratteggia le nuvole e scioglie e scombina
                                una parte di sé in cui la luce
ballando gorgoglia, non è come un fuoco
che recita al vento e si ingrossa –   
                        né il cielo è un effetto                   
di ciò che guardando
                   si prende o si perde.


    Appartiene alla luce quel misto di buio
a cui diamo valore e certezza
all’oscuro –
                                un assillo di immagini
e suoni, di pioggia costretta in un solo modello
                       di numeri e gocce
di pietre lasciate a osservare una forma
                   che esiste e non smette
                  

    Ma questo è ben poco se vedi
un profilo di nebbia che affonda
                                che imprime all’azzurro
un destino di nubi, un sipario schiumoso
                       in cui stare e scrutare
e in un limbo sbagliato    
provare l’assenza, decidere ancora che nulla
                   si vede, ma deve vibrare. 


                


             

Qui ci avviciniamo alla sua pioggia

non ricordi che è l’inizio di una frase




    Barare col sole, disperdere polvere
immagini, cose – gettarle
                                in un buco se illumina o piove
e condurre la sfida alla fonte di un verso
                        che induce i lamenti a rimuovere
sotto, a commuovere dentro
un colore inguardabile, sporco, un odore abusivo
                   che tutto contorce e distoglie.


    Ma il suo stato migliore
accarezza l’idea che ci sia, dove il cielo
                                di colpo si piega ingiallito
una sola metafora, un’aria più arguta
o preistoria chiamata
                        a condurre uno sguardo
che spoglia ogni cosa togliendola
                   via da ogni cosa che affonda.


    E’ questo il momento in cui pensi
all’inizio di un altro rumore –
                                un mondo che accusa
che umilia, che pensa coi denti
e assapora le stelle, la stessa euforia
                        che lo spazio riceve da un semplice
addio, a quel volto spaccato
                   e ai sorrisi inondati, sfregiati.
                        
                             
Giorgio Bonacini è nato a Correggio (RE) nel 1955, dove vive e lavora. Ha conseguito la laurea in estetica al DAMS di Bologna, con una tesi su Roland Barthes. Negli anni Settanta-Ottanta ha fatto parte, con poesie visive, sonore, e performance artistiche, del gruppo Simposio Differante. Redattore della rivista ‘Anterem‘, ha pubblicato testi poetici e critici su varie riviste, tra cui: ‘Parol‘, ‘Poesia‘, ‘Capoverso‘, ‘Il Segnale‘, ‘L’immaginazione‘.
Presente sulle antologie:
Ante Rem, a cura di Flavio Ermini (con una premessa di Maria Corti), Verona, Anterem Edizioni, 1998; Verso l’inizio, a cura di Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri (con una premessa di Edoardo Sanguineti), Verona, Anterem Edizioni, 2000; Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), a cura di Alberto Bertoni, Bologna, Book, 2005.
Libri di poesia pubblicati:
Non distruggete l’immondizia, Correggio, Edizioni Gabiot, 1976; Teneri acerbi, con una nota critica di Giuliano Gramigna, Verona, Anterem Edizioni, 1988 (Premio Lorenzo Montano, 2a edizione); L’edificio deserto, con una nota critica di Niva Lorenzini, Bologna, Edizioni di Parol, 1990; Sotto la luna (con Giovanni Infelìse), Bologna, Book Editore, 1991; Il limite, con una nota critica di Lucio Vetri, Bologna, Book Editore, 1993; Falle farfalle (con disegni di Alberta Pellacani), Verona, Anterem Edizioni, 1998; Quattro metafore ingenue, Lecce, Manni Editore, 2005.


domenica 3 luglio 2011

Ruggero Savinio “Cartavoce” Pagine d’Arte, 2011

Immagini e testo, i quali condividono un medesimo soggetto, entrambi composti da Ruggero Savinio e presenti nel bellissimo libro “Cartavoce” edito da Pagine d’arte, 2011, mostrano, comunque, un’incerta rispondenza nel confronto, cosa che avviene naturalmente quando si affianchino immagine e testo se appartenenti al dominio dell’arte. A caratterizzare quest’opera è però anche il puro pretesto dell’assunzione dell’avere qualcosa da dire: dove il tessuto di eventi è più lasco, tanto più è pretestuoso il racconto e tanto più si fa insistente l’assunto metafisico dell’essere, quell’essere che è pensato a prescindere dalle sue specificità, il quale s’accampa nel rado spazio lasciato dall’esiziale dato esistenziale.  

Poiché le lasse e i disegni di Savinio, nemmeno epifanici, appaiono essere descrizioni e immagini di qualcosa che non fa sorgere senso e, anzi, esso è talmente labile che, in genere, neppure viene evidenziato, quasi fosse secondario.  Si pensi  alla descrizione di una palma che viene scaricata da una gru in un giardino o alla descrizione di alcuni elementi d’arredo appartenenti a  una sala in cui si sta ascoltando un concerto. Ma ciò che è interstiziale, il senso che, comunque, s’abbarbica tra le sconnessure che esistono tra testo e immagine affiancati, emerge, in queste pagine, a maggior ragione e con particolare virulenza.

Il testo, parco e come prosciugato, nella collezione delle pagine delinea comunque un io: accogliente e disabitato, pura cassa di risonanza, in cui la considerazione degli oggetti o delle situazioni, i quali appartengono al flusso che normalmente passa sotto silenzio o sotto la soglia di attenzione, viene ad assumere un ruolo egemone. In quest’esercizio di scrittura e disegno così strenuamente perseguito, il percipiente riflette sulla propria presenza sulla scena e sulla propria durata esistenziale, paventando un’inevitabile, non lontana, chiusura del proprio ciclo vitale individuabile in una progressiva perdita di forze, mentre le immagini percorse da un tratteggio furioso e vitale, lasciano affiorare occhielli di vuoto, di laconica luce bianca.

Le immagini attraggono con la forza del moto con cui sono realizzate, recano impresse un impeto vitale che prescinde dal soggetto rappresentato; il segno si impone rispetto alla scena raffigurata, elettrizza, polarizza, rimescola le parole che sostano sulla pagina sinistra, deforma e attrae letteralmente il testo calamitandolo nella sua orbita nera.
All’immagine mal si attaglia, infatti, il senso pinzato dal testo, e per quanto essa apparentemente rappresenti la medesima situazione, in realtà, rispetto alla parola scritta, distrae e deborda, lima e assorbe, in un’oscillazione non sopibile.

In questa lotta condotta con armi affilate e dissimulate, l’essere s’impone rispetto al dato esistenziale, poiché crediamo che la questione che l’artista pone riguardi il valore: la durata delle proprie opere.

Inutilmente si riporrà il libro credendo di averne terminata la lettura. Il volume, contenente una insanabile frattura, continuerà a lavorare nella nostra mente spostando continuamente la finitezza del proprio oggetto e creando slabbri e lacerate discontinuità. Che cosa chiedere di più a un libro d’arte?    

Rosa Pierno