martedì 25 giugno 2013

BIENNALE d’ARTE di VENEZIA 2013. Una felice novità?


Nell’ultimo decennio – salvi com’è naturale alcuni rari autori e non molte opere o installazioni – le Biennali Veneziane si sono caratterizzate per disordine, noia, stanchezza  - riferita quest’ultima alla modesta ed epigona creatività, e all’esaurimento letteralmente fisico (e intellettuale!?) dei visitatori, lungo gli infiniti spazi ai Giardini, all’Arsenale e in giro per Venezia, isole comprese.

Quest’anno una idea indubbiamente originale, realizzata dal Presidente Paolo Baratta e dal Curatore Generale Massimiliano Gioni, ha sollecitato l’attenzione dei numerosissimi visitatori all’inaugurazione e nei giorni immediatamente successivi. Si è voluto ricreare il Palazzo Enciclopedico (che può richiamare per esempio la biblioteca infinita di Borges, o il barocco Teatro del Mondo). Per riferire in breve di cosa si tratti possiamo parafrasare l’introduzione, in Catalogo, di Massimiliano Gioni: nel 1955 l’artista autodidatta italo-americano Marino Auriti registrava presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti per un Palazzo Enciclopedico. Un museo che avrebbe dovuto ospitare le opere della creatività artistica e scientifica dell’uomo dalle origini al secolo XX. Il Palazzo (realizzato in modello e, com’è comprensibile, mai edificato) misurava 136 piani, per settecento metri di altezza, e occupava più di sedici isolati di Washington. Impresa incompiuta, ma, come osserva Gioni, indicativa di «un sogno di conoscenza universale e totalizzante» che percorre la storia e le opere di artisti, filosofi, scienziati e profeti, i quali sempre cercano –  per verità invano – di costruire una immagine del mondo che ne sintetizzi l’infinita varietà e ricchezza.

L’utopica idea di questa… Utopia soddisfa comunque due fondamentali esigenze trascurate appunto dalle più recenti Biennali: la necessità di presentare le innumerevoli opere esposte secondo un ordine storico-critico – di contro al disordine di una dilettantesca confusione propagandata per rivoluzione – e, ancora, la volontà di una ricerca delle ragioni intime (congenite?) dell’arte dei nostri giorni che – non sempre s’è voluto capire – non nasce certo dal nulla.  Ma non si tratta di rivalutare una o più tradizioni secondo pretese museografiche-conservative, bensì di percorrere con la ‘follia’ della creatività la vicenda del segno quale traccia indelebile (anche perché trasmissibile geneticamente) di quella che, particolarmente in arte, potremmo definire la tendenza  plasmante della materia, come metamorfosi non solo concettuale, ma tout-court fisica. Perciò umanissima.

La prima opera che incontriamo è Il libro rosso (1914-1930) di Carl Gustav Jung, nel quale con testi teorici e contorti disegni, talvolta, barocchi e mostruosi, (si scopre che Jung era uno straordinario disegnatore di visionarie fantasie oniriche) in quindici anni ha rappresentato visivamente la vicenda universale dell’inconscio  collettivo.  Così (ma facciamo pochi esempi) in merito ad opere ‘antiche’ e insieme primigenie troviamo del 1915 i geometrici mappamondi della svedese Hilma of Klint; gli antichi dipinti tantrici di autori anonimi indiani; le performances “le mani che cantano” del russo Victor Alimppiev (2012); l’opera della surrealista Dorothea Tanning; “I disegni dono” dei naïves Shaker (1771); i disegni surrealistici e metamorfici di Hans Bellmer (1934)… E così via. E non mancano dilettantistiche, ingenue, e tuttavia di uno espressionismo conturbante, le performances e filmati di 200 persone disabili, che mimano parlando d’amore. La drammatica rielaborazione di Guernica destinata a far cogliere ai bambini la verità degli orrori della guerra. L’installazione interattiva dei ragazzi sordomuti al padiglione (è una novità) della Santa Sede….

Tutte queste testimonianze del passato, anche più recente, svilupattesi nel primo dopoguerra e assai prima, seguendo la logica storico-critica di cui dicevamo, ci danno ragione di quelle opere e installazioni che il visitatore degli anni scorsi poteva percepire come disordinate e gratuite, insignificanti: banali follie. La nuova impostazione del percorso della Biennale, rifacendosi in particolare alla ingenuamente inconscia visione del mondo, interiore prima ancora che esteriore, giustifica e ci fa comprendere, per fare altri pochi esempi, le crudeli fantasie dada di Enrico Baj;  gli enormi incombenti massi neri e frastagliati di Phyllida Barlowe; il nudo dal fantasmagorico, pavoneggiante cuore uterino di F.Schöder-Sonnestern; le violenze materiche oceaniche vastissime come un tratto di mare burrascoso di Maria Lassing e Thierry De Cordier; i perlacei vulcani di Melvin Moti; i due potenti blocchi di acciaio forgiato che nel 1985 Richard Serra ha dedicato a Pasolini; il minimalismo (25 barre di acciaio dorato offerte in sequenza ritmica) di Walter De Maria, e così via…

I padiglioni storici (USA, Francia, Gran Bretagna, Russia…) sviluppano installazioni concettuali niente affatto accattivanti, seppure dignitose.  Dominano, diremmo talvolta fastidiosamente, fotografie fotografie fotografie, performances tuttavia solo filmate.  Collages epigoni senza vita di autori italiani (nemmeno nominati) quali Miccini e Pignotti. La Cina invece, fra l’archeologia industriale delle Tese, oltre Arsenale ci affascina con enormi mobili disegni digitali che rappresentano la decadenza pseudoclassica della nostra cosiddetta civiltà.

E il Padiglione Italia? Ancora una volta ci riporta al vuoto insignificante: non c’è alcunché dell’arte che in varie occasioni abbiamo guardato con interesse negli ultimi due anni. Non siamo il miglior paese del mondo per cultura artistica: ma qualcosa di meglio, per esempio Paolini e Baruchello qui presenti, hanno di solito da offrirci.

Comunque rimane l’importanza (che confidiamo venga sviluppata in futuro) dell’idea del Palazzo Enciclopedico.

                                                             Gio Ferri
                                                        

mercoledì 19 giugno 2013

Lucio Saffaro "Trattato della virtu", inedito

Si deve all’attenzione di Gisella Vismara (Fondazione Lucio Saffaro) e alla cura di Daniele Poletti la pubblicazione di testi editi e inediti di Lucio Saffaro  sulle pagine della rivista elettronica “floema”:


I testi  ivi consultabili sono:

-Trattato della solitudine, inedito, s.d.
-Disputa aspidociclica, inedito, s.d.
-Trattato della malinconia autunnale, inedito, s.d.
-Il Primo degli Haijin, 1965
-XII Trattati Costanti, 1973
-L’azzurra malìa, inedito, s.d.
 
e ivi consultabili sono pure i commenti di Gisella Vismara, Rubina Giorgi e Rosa Pierno. L’operazione si colloca nel progetto di “diaforia” (sito che accoglie “floema”) teso a proporre all’attenzione autori importanti, di cui non sempre è agevole trovare i testi.

Qui pubblichiamo, ancora grazie alla disponibilità di Gisella Vismara, un estratto dall’inedito “Trattato della virtù”, il quale è composto di 43 punti o Virtù stampati su un pieghevole 8,5x16 cm., carta patinata 100gr. a 8 ante, allegato al libro “Trattato curvo della tristezza”, stampato in proprio dall’autore per le edizioni di Paradoxos - Bologna. (n.d.c.)

Il componimento “Trattato della virtù” fa esclusivo riferimento a concetti astratti, determinando nel lettore una strana sensazione: di avvitamento e rescissione dei legami concreti, procedendo “dal pensiero al pensiero”, ove tranciati appaiono anche gli sfilacci della memoria e ove la materia sembra avere perso qualsiasi caratterizzazione fisica. Tant’è che anche la forma, diversamente da quel che accade in Aristotele, appare qui separata dalla materia. Il lessico, del tutto slegato dalla concretezza, non si situa però nella scia di visioni in cui il linguaggio riassorbe in sé la realtà sostituendola, ma dalla parte dell’idea, che riassorbe in sé qualsiasi determinazione particolare esorbitando anche dal linguaggio, per quel che è possibile, quasi un tour de force,  a tal punto che esito finale sarà proprio l’assunzione in un’idea unitaria e infinita che ricompone in sé qualsiasi contraddizione e scoglie ogni particolarità e specificità.



da: “Trattato della virtù”

Il “Trattato della virtù” è composto di 43 punti o Virtù stampati su un pieghevole 8,5x16 cm., carta patinata 100gr. a 8 ante, allegato al libro “Trattato curvo della tristezza”, stampato in proprio dall’autore per le edizioni di Paradoxos - Bologna. (n.d.c.)


I Virtù
Se la meditazione diviene l’origine
stessa dell’atto meditativo, la Virtù
procede dal pensiero al pensiero e
appare nella sua primigenia sussi-
stenza. Parimenti la

II Virtù
condivide nominalità astratte e con-
cede la circostanza codominante.
L’inizio proprio è polo della

III Virtù
causa e nozione originaria. Da que-
sta sede si formano le aggregazioni
successive, secondarie ipotiposi del-
l’implicito, bilancio di converse
emanazioni. Nella

IV Virtù
si enuncia il principio dell’attinen-
za, più pura attitudine alla forma:
la sua legge governa la discenden-
za degli enti e li dispone sempre
nuovi nel catalogo irriducibile. La

V Virtù
richiede il riflesso dell’assenza e si
incendia sugli specchi lunari; la
sottile assise dell’orizzonte si ap-
presta al rischio e al dogma senza
numerazione: subentra allora la

VI Virtù
che ripercorre l’indizione in più
elevate specularità. Al pensiero so-
no date in sorte adozioni astratte
che determinano la moltitudine
profetica e pure rastremazioni.
Quando il tempo si approssima a
quelle regioni in cui più intensa è
l’apparenza del sentimento la quie-
ta rinuncia conduce alle consola-
zioni della

VII Virtù
Quivi è operante quel silenzio ar-
monioso che partecipa delle pro-
prietà formali e suscita eventi. Nel
transito della sua perfezione si di-
mostra l’esistenza della

VIII Virtù
in cui viene reso il giusto traspor-
to alla solitudine del pensiero. Ma
solo nei modi della

IX Virtù
è posto il limite di quelle ausilia-
rie contiguità che ammettono ec-
celse altitudini e il privilegio della
permanenza. La

X Virtù
riunisce la consapevolezza delle
cause. La sapienza cognita si enu-
mera per indici assoluti e annovera
l’estensione indubbia delle forme.
Se le specie esterne ottengono un
maggiore trionfo si perviene alla

XI Virtù
che individua le fonti traslate. Qui
il significante si arresta e produce
l’infinito. La sua deduzione è ope-
ra astratta della

XII Virtù
proveniente da remote cardinalità.
Così la parte luminosa dell’ingan-
no recede in sorti diminuite e si
appresta alla replica disgiuntiva.
Ormai queste congregazioni autolo-
giche dispiegano la propria tra-
scendenza, là dove le azioni si
convertono nei sostrati immutabili
della sostanza. Apprenderne l’ugua-
glianza è materia somma della

XIII Virtù
che superando apprestamenti inter-
minati valica i prodotti estremi del-
l’infinito e si ricompone nell’uni-
tario.

Lucio Saffaro

Si ringrazia la Fondazione Lucio Saffaro anche per le due immagini:
"Studio di sfere tangenti" 1972, Bologna, china nera su cartoncino, 15*13 e "La verità Metafisica", 1965, Bologna, china nera su carta, 3,9*5
,

giovedì 13 giugno 2013

François Jullien “Il nudo impossibile” Luca Sossella Editore, 2004

All’interno della cultura cinese, è il tema del nudo che questa volta François Jullien indaga: tema tanto ricorrente in Occidente quanto rimasto completamente ignorato in Oriente. Tant’è che egli parte da un’affermazione perentoria: il nudo sarebbe proprio la stessa cosa che fonda la filosofia: la cosa stessa, l’in-sé, l’essenza e pertanto egli si chiede se a monte della filosofia il nudo non possa dunque essere un partito preso del pensiero relativo al modo di rapportarsi al reale e, di conseguenza, si interroga su che cosa abbia impedito lo sviluppo del nudo in Cina,  in ciò, naturalmente,  coinvolgendo il problema della rappresentazione e dell’arte. Il nudo non è mai stato preso in consegna dall’arte, non si è mai separato dalla nudità intesa in senso pornografico. Perlustrando le immagini cinesi, egli rileva che non c’è una “raffigurazione umana distinta dal resto”, dal paesaggio, ad esempio,   e che “la pittura del soggetto umano risulta dispersa sotto più voci, non possiede uno statuto di genere”. Il nudo, estraendo l’uomo “dalla differenza di epoche e di condizioni”, comporta che si risponda alla domanda “che cos’è l’uomo nella sua generalità?”. E poiché la Cina non si è mai posta tale domanda “ha sviluppato una saggezza, ma non una filosofia”. Pertanto è intorno al rifiuto della cultura cinese di identificare un’essenza relativa all’uomo che ora Jullien appunta la sua attenzione, in quanto “soltanto l’uomo è – e può essere nudo”, e in questo, appunto, risulterebbe la sua essenza.

Il filosofo francese, dopo avere esplicitato la sua tesi, effettua un confronto tra alcune opere occidentali e orientali:ne risulta che il corpo nelle immagini cinesi è sempre in relazione con il paesaggio, istituendo una co-originarietà, poiché sono entrambi concrezioni di energia. Se nel mondo greco, la forma, “come archetipo, fonda e struttura il mondo platonico delle idee”, fino a istituire la coincidenza della forma con l’essere, nel mondo cinese, non è stata concepita una forma intellegibile al di là del sensibile, e neppure una forma immutabile che sia un’essenza. In breve, la Cina antica (prebuddista) è senza una metafisica”. Essa, infatti, non concepisce essenze, ma processi, i quali designano un’attualizzazione in corso e, cioè, qualcosa che “uscendo dall’indifferenziazione del senza forma” è destinato a tornarvi. Tutto dunque vi figura come soggetto a una trasformazione, in cui, fra l’altro, visibile e invisibile non sono separabili in modo netto.    Per sgombrare il campo dalle inevitabili sovrapposizioni che si istituiscono nel confronto di due oggetti che si vogliono porre come radicalmente separati, Jullien ulteriormente segnala che se la forma in Cina è considerata un vettore per lo spirito che si espande al di là di essa, lo stesso deve dirsi anche per il Nudo in quanto “la forma è in superamento: essa è tesa al di là di se stessa, verso la forma ideale”, tuttavia, “la Cina non ha conosciuto la nozione di ideale – né di conseguenza di forma ideale – perché non ha concepito un Esterno al mondo dei processi”.  Ciò vale anche per l’armonia, concetto al centro dell’interesse di entrambe le culture, ma che ha visto una diversa caratterizzazione (“i diversi elementi che concorrono nell’unità dell’insieme” in Crisippo e l’armonia dal punto di vista di un processo che varia per alternanza, celebrato dal pensiero della regolazione” nella cultura cinese). In aggiunta, Jullien definisce come indiziale la cultura cinese poiché “mancano in essa sia l’allegorico che il nozionale” e come simbolica la cultura europea, la quale “richiede un’interpretazione per ricostruirne sul piano ideale il significato”.

La perlustrazione effettuata dal filosofo francese delle rappresentazioni della pittura cinese ed europea, come pure dei testi filosofici occidentali o letterari cinesi, (senza prendere in considerazione, fra l’altro, che esiste irriducibilità tra testo e immagine e che non si possono condurre analisi sui testi come se essi coincidessero con le opere d’arte) un po’ risente del postulato che separa nettamente i due ambiti come se non si desse nessuno degli elementi definiti per l’arte occidentale in quella cinese e viceversa. Lui stesso ammette che non vede niente di peggio ”delle generalizzazioni culturali”, ma ribadisce che a suo avviso la cultura europea sia rimasta ossessionata dall’idea di “Altrove (di un altro mondo) e si trovi indelebilmente segnata da questa aspirazione”. Il che equivale a rendere una cultura manchevole rispetto a un’altra o caratterizzata al punto da non avere sviluppato nelle sue  innumerevoli forme anche la posizione opposta.
E vogliamo riportare l’esempio che Jullien porge riguardo all’intenzionalità del pittore cinese, il quale esalta, anziché l’oggetto che ha dinanzi, che per lui non sarebbe mai “completamente oggettivabile”, lo spirito che lo incarna, poiché immediato il nostro ricordo va all’opera di Giacometti. O ancora si può opinare sul fatto che i giardini francesi si fisserebbero “come in un quadro, in modo panoramico”, mentre un giardino cinese si potrebbe ricomporre solo a posteriori nel proprio spirito, poiché questa è una lettura parziale dell’uno come dell’altro caso. Questo non per mettere in dubbio le profonde analisi compiute da Jullien, quanto per non perdere mai di vista la capacità dell’arte di  assumere valenze che mettono in discussione i postulati e i concetti, le suddivisioni e le categorie nelle quali crediamo di poterla incasellare. 
                                                                                                      

                                                                                   Rosa Pierno


domenica 9 giugno 2013

Gio Ferri “Primato della parola” Signum Edizioni d’Arte, 2001

Gio Ferri, con la raccolta Primato della parola, Signum Edizioni d’Arte, 2001, (con sette disegni di Ruggero Maggi),  non mostra la volontà di narrare: la sua è una dichiarata azione di recupero, citazione vivente, carne viva della parola letta e riproposta e, insieme, volontà di annunciare, ancora, della parola, la sua sfuggente opposizione a qualsiasi cosa voglia recintarla, sia canone sia teoria critica o linguistica. Nella forma messa a punto è presente una certa sinuosità labirintica che consente di leggere il testo come si vuole. Il lettore può seguire lo svolgersi della poesia linearmente, seguendo la riga, o accettando la cesura che si propaga in tutti i versi e che finisce con lo sdoppiare la consequenzialità testuale. Certo, in questo modo ci sono attributi che non collimano con i sostantivi, ma non è certo esperimento che intralci la lettura. In questa strana matrice si può alfine entrare da qualsiasi lato, anzi, dopo averla letta in maniera sequenziale, viene naturale ricominciare nel modo in cui più aggrada. Di lato, a metà, dove il lettore più si senta attratto dal tentare, accentuando così la già ricca polisemia del testo. Di fronte alla pagina ci si sente come dinanzi a una grande carta da gioco su cui ci si possa fisicamente posizionare. Siamo forse andati troppo avanti, attratti dall’elemento ludico e sonoro delle parole che ha in realtà guidato questa esplorazione iniziale: i lessemi, la ritmicità sono quelle dell’Ariosto e di certa prosa secentesca: si pensi al grande Daniello Bartoli da cui ha attinto anche il Leopardi.

bugiarde si fanno e     distoniche sensazioni
indicano sensi     le simboliche metafore
e misure attese     ribadiscono alle cure
stanche e stolte di     nevrotiche esaltazioni

le guardinghe iniziazioni     stentate passioni
nullità allora s’esprime     e nulla s’imprime
i linguaggi van sperduti     tristi omoteleuti
disattese melodie     povere d’acuti

versificazioni     soporifere e stantìe
le mistìfiche malìe     svolano quantunque
le disutili risposte     così come ovunque
le spastiche spore     le isteriche impotenze

Tale ariosa sonorità, impianto fresco e leggero e diversivo, frastagliato e ricomponibile a oltranza è davvero un’ode alla letteratura italiana!  Ferri vi innesta, inoltre, un traliccio che serve da aggancio al contemporaneo e che è costituito da alcuni riferimenti a posizioni critiche maturate nel secolo scorso: il che non per arricchire un senso che altrimenti si stenterebbe a rassodare, ma per balzare agli odierni problemi che ruotano intorno al linguaggio. Impalcatura che larvatamente, appena un fantasma, fa riferimento alle letture strutturaliste e semiologiche, le quali, messe a confronto con quanto il linguaggio può fare, e naturalmente in confronto alla poesia, appaiono come limitate e ristrette.

insensati sensi     manierate convenzioni
moti in giustificativi     etiche fumose
astruse tensioni     e dimentiche visioni
àstie e rinvenute     inappetenze scadute

immalinconìe maligne     interstardate e inani
si divergono le mani     nei gesti insani
simboli adusi     i stanchi miti consunti
le deboli tesi     ai vocabolari appese

artefatte pose     quando la parola invece
‘sì libera e forte     in sé trascina la sua
sorte si rivela     prolifica ai sensi vigili
sdogana sigilli     dal nulla esplode lapilli 

Inno, dicevamo, alla poesia, tracciante una circonferenza che  va dalla libertà che il linguaggio consegna  –  valga come esempio paradigmatico il problema che Celan ha voluto affrontare e il modo in cui lo ha magnificamente risolto, proprio quando si credeva che il linguaggio, limitato, non avrebbe nulla concesso all’espressione delle più inaccettabili esperienze umane  –  all’aspetto ludico della poesia, troppo forzosamente separato dalla conoscenza per essere pienamente centrato!

Non si dirà mai abbastanza che la specificità della poesia è tale che non può ridursi al metalinguaggio, al linguaggio della filosofia. Con la sua forza eruttiva non solo apre squarci non riducibili alla sua sistemazione teorica, ma addirittura  brucia il concetto di profondità temporale agglutinando passato e presente nel medesimo lasso di tempo, come d’altronde accade in tutte le forme artistiche.

I testi poetici della raccolta indicano tutti che la tradizione è forza viva, sempre capace di rinsaldare col lettore un patto di necessità.

perciò m’ingegno entro la mia gabbia
chè sabbia della svenevolezza
si riproduce in rabbia e durezza
vince disfarsi della vecchiezza

appare di metro antico eppur
quel che dico fluisce nell’intrico
tanto che il segno costringo a dire
la prima natura quando al grido

al canto non s’opponeva usura
della vita pur sempre avea cura
la parola all’ossessione imposta
mai forniva strumentale risposta

E, dunque, se proprio una dichiarazione di poetica deve essere, non può che riguardare il valore primigenio, creativo della parola, la sua capacità di non subire usura se non quella che riguarda l’incomprensione della sua vitalità. Insomma, nelle poesie che Gio Ferri ci consegna, con la sua consueta grazia e infinita cortesia, ci sono innumerevoli spunti di riflessione e momenti di godimento, offerti contemporaneamente al piacere, all’intelletto, all’emozione.

                                                           Rosa Pierno


martedì 4 giugno 2013

Gianfranco Bruno “La ricerca dell’identità” Pagine d’arte, 2001

Il testo La ricerca dell’identità, pubblicato da Pagine d’arte nel 2001, era stato in realtà scritto nel 1974 in occasione di una mostra ordinata da Gianfranco Bruno al Palazzo Reale di Milano che, a suo parere, individuava una presenza che percorreva l’intera arte del Novecento: le problematiche della realtà sociale e contemporanea. L’arte, insomma, come pratica capace di anticipare e svelare i problemi cogenti della società. 

L’ordinamento della mostra era l’occasione per Gianfranco Bruno di cogliere al contempo anche gli aspetti paradossali di questa capacità dell’arte di porsi, e proprio mentre essa sembrava precludersi ogni diretta raffigurazione del mondo, come manifestazione delle sue energie più profonde. In particolare, il problema dell’individualità sembrava radicarsi nel problema della libertà e quindi in problema politico e, pertanto, la mostra andava a evidenziare che la pittura, muovendosi da un profondo accertamento delle condizioni della vulnerabilità umana, si rilevava centrale per i problemi del presente.  

Bruno, nella sua analisi, inquadrava il problema dell’identità isolandone due aspetti: quello psicologico e quello sociologico. La mostra partiva dagli inizi del XIX perché il critico d’arte ravvisava proprio nell’attuarsi del processo di industrializzazione la crisi dell’identità. In tale periodo,  l’esperienza dell’immagine appariva un veicolo privilegiato per la ricerca della nuova identità, consentendo l’”accertamento di un hic et nunc esistenziale, e come realizzato, in quanto altro da sé rispetto al soggetto operante”. In aggiunta si offriva come strumento opponentesi “alla logica cristallizzata dei sistemi sociali”, proponendo ipotesi di realtà alternative.

Da Théodore Géricault, il quale individuava negli emarginati una categoria opposta a quella degli integrati, passando per Munch con l’istituzionalizzarsi dell’angoscia e della follia che s’andava a integrare nel quadro di “una strutturazione sociale rispondente alla logica degli interessi di classe”, l’opera di Van Gogh  veniva assunta come emblema per l’“impossibilità di armonizzare l’anelito di verità assoluta con la struttura di un mondo basato sull’ingiustizia e sulla convenzione”, e cercava “la sua realizzazione nei modi di una completa dedizione sociale”.

Proseguendo nella sua investigazione, Gianfranco Bruno citava come stazioni ineludibili in questo racconto le opere di Kokoschka, Dix, Grosz e in particolare di Klee, poiché le opere di quest’ultimo indicano un ritorno alle origini, alle forze primarie della creazione,  al fine di cercare una “identità assoluta tra segni ed esperienza”. E senza trascurare il disegno infantile e la grafia dei malati mentali, Bruno si riferiva anche alle opere della Barnes come esempio in cui “la malattia mentale non è che un accidente che perde significato di fronte al loro essere espressive di una condizione umana”. Se, infatti, la malattia mentale è un ‘incidente’, non lo è “la creatività persistente nello stato di crisi”  che annulla i confini che artificiosamente si pongono tra ‘sano’ e ‘malato’”.

Terminando il suo excursus con De Kooning, Wols, Bacon, il critico ribadiva che ”male sociale e male psichico sono gli estremi entro i quali si dibatte in una disperata ricerca d’identità“ l’uomo d’oggi. Il diritto dell’uomo a essere se stesso venendo dunque a coincidere, per Gianfranco Bruno, in un problema di coscienza politica avvertita, in un problema di libertà, appunto. 

                                                                      Rosa Pierno