martedì 15 settembre 2020

Alcune poesie di Bill Dodd sul tema dell’arte scandagliate da Giuseppe Martella


 Presentiamo quattro testi del poeta inglese Bill Dodd, con traduzioni a fronte dell’autore stesso.   

Ricordando il detto di Simonide di Ceo (VI -V secolo a.C.), per cui “La pittura è una poesia muta, e la poesia una pittura parlante”, riassunto poi nel celebre “ut pictura poesis” di Orazio che ha influenzato tutta la storia delle arti sorelle, possiamo affermare che le poesie qui proposte sono a tutti gli effetti delle pitture parlanti. Il titolo stesso, Voicings (sillabando, dando voce), della raccolta da cui sono tratte, ci avverte che il suo dettato si colloca a mezza via, quasi in sospensione, fra percezione e linguaggio, natura e tecnica, su quel confine sottile che separandoli li collega. Dodd appartiene alla grande tradizione inglese di poesia della natura che, a partire da William Wordsworth, continua a dare splendidi frutti fino ai nostri giorni. Del maestro condivide il linguaggio colloquiale, la poetica del “fanciullino” (“Alla mostra di Matisse”), il frequente ricorso all’apostrofe e “l’emozione rivissuta in tranquillità”. Ma al poeta del XXI secolo tocca necessariamente di essere meno assertivo e onnisciente, di adottare una prospettiva più mobile e raso terra. Chi leggerà questi versi si accorgerà presto comunque della sua maestria nel cogliere i dettagli e montarli in sequenze articolate di analessi e prolessi, primi piani e campi lunghi, per pervenire infine a una composizione di luogo e a un distillato di atmosfera del tutto singolari, concretissimi, pienamente vissuti e mai libreschi.       

Non è però che la poesia di Dodd sia povera di pensiero, tutt’altro: è che all’idea egli ci arriva al momento giusto, attraverso l’esplorazione di un vissuto che, nel mentre si concretizza, la lascia gradualmente trasparire. In ciò le dipinture, sia di quadri che di paesaggi, che abbiamo qui trascelto appaiono molto diverse da quelle di altri poeti della natura come Robert Frost, Edward Thomas, Charles Simic o Wislawa Szymborska, tanto per fare dei nomi, che con pochi tocchi traggono l’allegoria dalla figura. In Dodd, invece, il nitore del segno solo raramente cede allo sfumato del mood o alla sottolineatura aforistica. Per convincersene basta paragonare la poesia che qui presentiamo su “La Domestica di Vermeer”, con quella più famosa di Wisława Szymborska: “Finché quella donna del Rijksmuseum/ nel silenzio dipinto e in raccoglimento/ giorno dopo giorno versa/ il latte dalla brocca nella scodella,/ il Mondo non merita/ la fine del mondo.” Ma si veda peraltro come in “Resti romani a Bibbiena” egli riesce a cogliere la fragilità dell’esserci nella minuta manipolazione della creta (metafora del poiein), gettando uno scandaglio al di là dei millenni, nel futuro passato, in un orizzonte progettuale che ancora dura, ma come rallentando, in una moviola del ricordo o una radiazione cosmica di fondo, fra natura e cultura. E come, in “A Serranova”, con tocco delicato ma fermo, egli riesca a rendere l’intimo, progressivo trasmutare degli eventi in ricordi e stati d’animo, con pause misurate e variazione di accenti, col tono sommesso di una voce che invita il lettore ad assaporare lo straordinario gusto del quotidiano.  

Giuseppe Martella 



Bill Dodd è nato a Lancaster, G.B. Ha insegnato letteratura inglese per lunghi anni nelle università di Bologna e Siena (Arezzo). Ha pubblicato due volumi di poesie: Sightings (2015) e Voicings (2018




At the Matisse Exhibition    


Go on, step over the magic line

defending the masterpiece.

Spark the alarm!

Mum and Matisse will forgive you.


Only a toddler can enter into a picture.


Go on, drag your plump palms

across the oil we’d all love to stroke.

Come back,

show us your hands full of rainbows.



Alla mostra di Matisse


Vai, oltrepassa la linea magica

che difende il capolavoro.

Fa’ scattare l’allarme!

Mamma e Matisse ti perdoneranno.


Solo un bambino può entrare in un quadro.


Vai, trascina i palmi cicciuti

sopra l’olio che tutti vorremmo accarezzare.


Torna indietro,

mostraci le mani piene di arcobaleni



Vermeer’s Kitchen Maid


From a jug that never empties

to a bowl that never fills

a white thread of milk

makes its static descent.

Turn away your eyes

then turn them back:

the jug is empty, the bowl now full.

Listen: a door bangs behind

the maid in the yellow bodice.

She has swept buns from the table

into the ultramarine of her apron

and carried them to nowhere.


Turn away and back again.

See her chapped returning hands

lift and balance the bowl.

Behind her on the scullery wall

a nail lengthens its shadow.


Stay with her here

as she halts with the bowl

and is caught in the painter’s eye.


What will it take, he wonders now

to make another truce with time

tough as that thread of falling milk?


La domestica di Vermeer

Verso una scodella che mai si riempie

da una brocca che non si svuota mai

un filo bianco di latte

compie la sua statica discesa


basta per un attimo

distogliere gli occhi

poi farli ritornarci


la brocca è vuota

la scodella ora piena


ascolta

senti chiudere una porta

dietro alla domestica

dal corsetto di cuoio giallo


ha spazzato i panini

dal tavolo

nell’oltremarino

del grembiule

li ha portati

con quella pagnotta nel cestino

alla stanza della colazione


voltati di nuovo

ritorna con lo sguardo

coglierai le mani screpolate

della donna di nuovo qui

mentre alzano, bilanciano la scodella


dietro alle sue spalle

sulla parete del freddo retrocucina

s’insinuano macchie di polvere

dove minuti fa il sole

ne aveva fatte piazza pulita


ora rimani con lei

mentre sta lì immobile

scodella in mano


diventa l’occhio del pittore

chiediti che cosa ci vorrà

per trovare un’altra sospensione

del tempo ferrea

come quel filo bianco

di latte che cade



Roman remains, Bibbiena

Per Sita e John


Before they were baked

the clay forms of terracotta

were laid out to dry in the air.


The surroundings were rustic.


Piglets, hens, slaves’ children

tiptoed over the giving tiles,


each imprint they left

clear as the oakleaf

on a soldier’s medal.


Only it was a print of peace

a recorded stepping out

from pen, sty, hovel


from sleep into morning coolness

of a sky promising freedom.

Now

in this tiny museum

in an absolute of gleaming

cabinets and classifications

their steps continue. 


Those unique mornings

initialled by limbs

that kept their small owners

poised just above the earth

are with us still after

nearly two thousand years.


And though we can’t see

or hear or smell these mornings

we know they were fresh as grass

before the meridian.


Of that we can be sure:

the clay under those toes and nails

gave, before it held


and to do so had to be moist

and vulnerable to life. 


Resti romani, Bibbiena

Per Sita e John


Prima di essere infornate

le lastre d’argilla venivano stese

all’aperto ad asciugare.


I dintorni erano rustici.

 

Maialini, galline, figli di schiavi

passavano in punta di piedi

sopra piastrelle arrendevoli,


ogni impronta chiara

come la foglia di quercia

sulla medaglia d’un soldato.


Solo che era un’impronta di pace:

registrava l’uscire da un recinto,

porcile, tugurio


dal sonno verso il fresco mattutino

di un cielo che prometteva libertà.


Ora

in questo museo silenzioso

nell’assoluto di teche luccicanti

e tabulazioni

insistono i loro passi.


Quelle mattine uniche

siglate da membra

che reggevano i corpicini

appena sopra la terra,

quasi due millenni più tardi

sono ancora qui con noi.


E sebbene non possiamo vedere

né udire né odorare quelle mattine,

sappiamo ch’erano fresche

come l’erba prima del mezzogiorno.


Di ciò possiamo essere sicuri:

l’argilla sotto quelle dita, quelle unghie,

cedeva, prima di rassodarsi


e per farlo doveva essere umida

e vulnerabile alla vita.



At Serranova

For Marina and Roberto


The air, the grey dusk air, is shredding.


Dark red earth gives under our soles

releasing soft voices

to join the wind’s moan

among ghosts of olive trees.


The black dog points

a vague clump of grass,

points and pants and waits 

till the grass morphs into a cat

that has picked its way after us

to where Marina in the deep

darkness of the carob tree

is gathering span-long

chocolate-coloured pods.


Like a nightjar the low sky

settles its belly along the earth.


They merge

each greyer now than the other.

Some fields away there are other dogs,

yaps, shrieks, howls.


They leave no impression

on this great black male

as he gathers knowledge

of herbs, weeds, roots,

each track of nocturnal animals,

the pissmarks of rivals.


But these are details.

What counts, what looms

is the early lack of light

the dragging away of light into space

that leaves eyesight bedraggled

and groping.


So that now our voices

learn their subdued place,

to bow to this spreading silence

as we catch the flakes

of the evening and hear them fall.


We will take late-gathered

olives, and almonds of this earth

home from the twilight

to the sharper light of north

to taste later and remember

in weeks to come

how far south we have been,

with what good friends.


A Serranova

Per Marina e Roberto


L’aria, l’aria grigia del crepuscolo

si sta sgretolando.


La terra rosso scuro cede sotto le nostre suole,

rilasciando voci felpate

che confluiscono nel gemito del vento

tra i fantasmi degli olivi.


Il cane nero punta

un vago ciuffo d’erba.

Punta, ansima, aspetta

che l’erba si tramuti nel gatto

che ci ha tallonati

fin qui, dove Marina nel profondo

buio del carrubo

raccoglie baccelli color cioccolato

lunghi un palmo.


Il basso cielo come un succiacapre

adagia la pancia lungo il suolo.

Si fondono, l’uno ora

più grigio dell’altro.


A distanza di qualche campo,

altri cani, abbai, strilli, ululati.


Non impressionano

il maschione nero

che raccoglie notizie

su ogni erba, erbaccia, radice,

ogni traccia di animali notturni,

ogni segno della piscia di rivali.


Ma questi sono dettagli.

Ciò che conta, che incombe,

è la carenza prematura di luce,

il trascinarsi della luce verso lo spazio

che lascia la vista scapigliata

e brancolante.


Sicché ora le nostre voci

si rintanano in un luogo sottomesso,

s’inchinano al silenzio che si spande

mentre cogliamo i fiocchi

della sera, sentendoli cadere.


Da questo imbrunire

portiamo a casa tarde olive

e mandorle di questa terra

verso la luce più aguzza del nord


per gustarle dopo e ricordare

nei mesi a venire

quanto lontani nel sud siamo stati,

e con quali cari amici.



giovedì 10 settembre 2020

Marco Furia su “Retrostanze” di Bruno Conte


Orecchio-conchiglia, conchiglia-orecchio


La presente nota al raffinato “Retrostanze” di Bruno Conte riguarda soltanto, per decisione da me presa già alla primissima lettura, l’immagine e il testo di cui alle pagine 44/45.

Una figura umana, costruita con tratti propri d’una calligrafia, conduce, assottigliandosi, a un conciso testo che cito per intero


L’orecchio alla conchiglia


sente la voce confusa del mare


La conchiglia all’orecchio


sente la voce di un angusto fiume


espulso dal mare


corpo chiuso in viva notte


La sequenza poetica è chiara, precisa: i primi due versi invitano, riferendosi alla fanciullesca esperienza di ascoltare “la voce confusa del mare” avvicinando “L’orecchio alla conchiglia”, a entrare in un breve componimento ricco d’enigmatica attrattiva.

Spetta a “La conchiglia all’orecchio” ribaltare la pronuncia iniziale, anche se il verbo “sente” dovrebbe pur sempre riferirsi all’organo uditivo umano.

Viene da chiedersi: orecchio e conchiglia sono tutt’uno?

Sembrerebbe di sì, anche se non si annullano ovvie differenze.

È la sensazione a essere unica: questo importa.

A Conte non interessa individuare dissomiglianze in ciò che è unito, poiché per lui conta soprattutto l’avvenimento.

Certi parametri possono riguardare discipline scientifiche o propensioni meramente descrittive, non la sua poesia: una poesia per nulla asservita ad altri linguaggi e, proprio per questo, ricca di profondo senso.

L’autore introduce poi, con apparente noncurante immediatezza, “un angusto fiume/espulso dal mare” tendendo a coinvolgerci, così, in ulteriori percorsi idiomatici inediti.

Il Nostro ha fatto le sue scelte e le propone con sincera chiarezza senza nulla imporre.

Quanto poi a quel “corpo chiuso in viva notte” (forse allusione all’esile figura di pagina 44), non si può ignorare un senso di misteriosa (repentina) apertura rivolta a un lettore che, a questo punto, non dovrebbe avere più necessità di altrui parole.

Non a caso, buona metà della pagina è bianca.

Riempiremo quello spazio?

Saremo in grado di farlo?

Vorremo farlo?

Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità: l’autore ha fatto la sua parte, ora tocca a noi.

A noi quali lettori un po’ poeti, testimoni, a nostra volta, di una differenza che è anche, nello stesso tempo affinità: ci viene indicata una strada che riconosciamo tale nello stesso atto del percorrerla?

Penso proprio che Bruno sarebbe soddisfatto di una risposta positiva a simile domanda.


                                                                                                    Marco Furia



Bruno Conte, “Retrostanze”, Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2020, pp. 85, s.i.p.