mercoledì 15 dicembre 2021

Alcuni fulminei testi inediti di Marco Furia del 2021

 



L’impossibilità di interpretare alcunché si scontra con considerazioni stereotipate scambiate con un conoscente, a cui il linguaggio di Marco Furia, anziché  adeguarvisi, si oppone con strenua forza: ecco il motivo di una sintassi priva di quella morbidezza consueta e brusca elasticità con la quale sistemiamo il mondo. Il mondo non offre appigli, non si fa leggere, così ogni evento si appalesa come indecrittabile. La speranza che migliori condizioni si riscontrino sull’arco dell’orizzonte temporale quotidiano, a un passo appena dal qui e ora, è battuta inesorabilmente dall’improbabilità di reperire un riscontro: che si tratti dell’incertezza d’individuare univocamente un colore, di potersi pronunciare sull’eventualità che piova, oppure del doversi adeguare alla mancanza del cucchiaino che rende disagevole la consumazione al bar.

E se qualcosa si trova, che corrisponda alle proprie attese, forse è per caso, per un evento fortuito, imprevisto, non contemplato dai dati disponibili. Sicché è l’individuo a conformarsi al mondo, ad avvolgere la sequenza di aridi fatti riscaldandola con la sua esistenza. Il cucchiaino che il barman non ha fornito diviene il simbolo di un’accettazione che è valorizzazione del presente, in un’epifania che anziché essere rivelazione si presenta come recupero, e per questo le prose fulminanti di Marco Furia divengono per noi, suoi lettori, funi avvincenti che consentono la risalita.


                                                                                         Rosa Pierno




A casuale


A casuale, ma non straordinario, incontro con loquace, longilineo, individuo seguì rapido scambio d’opinioni a proposito d’appena cessate precipitazioni atmosferiche: la pioggia, di durata davvero breve, non aveva disperso, né attenuato in maniera considerevole, opprimente afa.

Pieghevoli ombrelli, di cui ambedue non erano privi, presto sarebbero stati riaperti?

Auspicate gocce sarebbero ancora cadute da scuri nuvoloni?

Forse, chissà.


                                                                                                               

Atteso pacco

 

Atteso pacco non essendo stato ricevuto nonostante ragguardevole periodo di tempo trascorso da pur concordata data di spedizione, considerato poco conveniente, date le sfavorevoli condizioni meteorologiche, recarsi presso cartoleria scelta quale sede di recapito, aperta casella di posta elettronica, ebbe a leggere inattesa e-mail: non troppo solerte fornitore, scusandosi per il ritardo, annunciava il compimento della consegna durante le ore serali di quello stesso giorno.

Forse, più tardi, gelida pioggia sarebbe caduta meno copiosa?

Non restava che sperarlo.

 

                                                                                                               

Attraversata

 

Attraversata lastricata via, percorso breve tratto lungo affollato marciapiede, superò consunta soglia d’antica bottega: posto di fronte a ricca possibilità di scelta, indeciso, seguì consiglio d’esperto commerciante.

Percorso in salita ombroso vicolo, raggiunta ampia piazza inondata di luce, si chiese se le qualità cromatiche dell’articolo contenuto in sottile sacchetto fossero esattamente quelle indicate da chi l’aveva incaricato dell’acquisto.

Rapida, attenta, occhiata non fu tale da tranquillizzarlo.

 

                                                                                                                 

Consultazione

 

Consultazione di rinomato vocabolario avrebbe consentito soddisfacente esito d’idiomatica, ineludibile, ricerca?

Sarebbe stato costretto a ricorrere anche all’aiuto di corposo dizionario dei sinonimi e dei contrari?

O, forse, in maniera repentina, gli sarebbe balenata la soluzione del problema?

Onde favorire simile (auspicabile) illuminante evento, rilesse ancora una volta appena scritto testo e, preso atto di non avere raggiunto il proprio scopo, decise d’avvalersi d’ambedue le voluminose raccolte di parole.

Il vocabolo adatto fu alla fine trovato?

Sì, in modo davvero imprevisto.

 

                                                                                                             

Corpulento barman

 

Corpulento barman avendolo informato di come, causa incresciosa (momentanea) carenza di personale, consueto servizio al tavolo fosse sospeso, poiché intendeva mitigare spiacevoli effetti di soffocante afa consumando shakerato caffè in ombroso cortile, trasportò di persona colma coppa: accortosi della mancata aggiunta di pur richiesta dose di zucchero, ritornato sui propri passi, ebbe a ricevere, assieme a sentite scuse, rettangolare bustina contenente edulcoranti granuli.

Comodamente seduto, decise di non badare all’assenza di necessario cucchiaino.

 

                                                                                                                 

Costretto ad arrestare

 

Costretto ad arrestare all’improvviso proprio lesto passo causa repentina comparsa di vivace cane a stento trattenuto da lungo guinzaglio, riuscì ad evitare caduta su grigio selciato.

Nonostante non lieve distorsione, accettate altrui verbali scuse con silenzioso cenno, si allontanò (un poco zoppicando).

Corpulento individuo avrebbe in futuro fissato più corto laccio a rosso collare di dinamico quadrupede?

Chissà.


                                                                       Marco Furia

 

                                                                                                                

mercoledì 1 dicembre 2021

Vincenzo Scolamiero a Palazzo Pubblico - Magazzini del Sale, Siena con “Del silenzio e della trasparenza”. Pittura, musica, poesia e oro in mostra.

 



Nelle medioevali sale del Palazzo Pubblico-Magazzini del Sale, a Siena, una prima forte impressione donata dalla pittura di Vincenzo Scolamiero, nella mostra Del silenzio e della trasparenza, è quella della sinestesia riguardante il senso musicale, che si sviluppa a partire da alcuni toni e timbri altamente evocativi usati dall’artista nella sua ultimissima produzione. Ascolto di suoni in quanto la predisposizione d’animo del fruitore viene da tali cromìe indirizzata verso un accentuarsi delle emozioni terrose o acquatiche, levitanti o affossanti, assieme allo scroscio o ai tremori dei loro movimenti. La tavolozza cromatica di Scolamiero risuona: replica le proprie cavità sonore o le fa scivolare lungo le dorsali di transitori flussi ondosi.


Il gesto, che arriva dall’intero corpo, e dalla spalla si precisa nel movimento del polso, così come è prescritto nella pratica orientale, in cui tutta la persona si riassume nel gesto, dopo essere stato lungamente eseguito nelle opere realizzate una ventina di anni fa dall’artista, viene ora volutamente sostituito da un’azione che nel togliere e levare pigmenti con carte o stracci, bada all’esecuzione di un’azione ritmica. In qualche modo, mentre si asporta pigmento, lo si deposita in modo diverso. Premendo l’utensile che imprime una macchia, un effetto, nel pigmento sottostante, si scopre la magnificenza dello svuotamento della profondità, la moltiplicazione delle superfici, lo svelamento degli strati intermedi.


Creare sulla superficie dimensionale della tela o della carta la profondità, non attraverso illusioni prospettiche o geometriche, ma attraverso spessori millesimali e trasparenze inaudite, è la nuova frontiera che Scolamiero affronta. La superficie è ricreata in quanto deve essere eliminato il modo convenzionale di recepirla. Un larghissimo pennello ricrea un piano che sembra possedere una consistenza vegetale e che si avvolge su se stesso come farebbe una stoffa adagiata in morbide sovrapposizioni. E per questo ha bisogno di un sostegno a sua volta: siano esse le profondità intestine di un bosco, i panneggi e i tendaggi di un’interiorità oscurata da ingombri di atavica memoria, un fondo impenetrabile o uno specchio d’acqua. Lo spazio teatrale ivi inaugurato è uno spazio che allude senza concedere e vi si può inoltrare senza addentrarvisi.


A volte le carte formano un turbinìo, si sollevano grazie a un vortice che proviene dal basso, da quel nero che tutto fagocita o espelle. E quale materiale migliore della carta può enfiarsi o accartocciarsi anche per un solo alito di vento? Esse sembrano essere alle prese con un girone dell’inferno, assieme alle secche foglie strappate con l’integro virgulto. La dimensione della profondità si inclina fino a schiacciarsi su se stessa, come l’asse terrestre, svelando solo nello scorcio il vuoto che si genera a ogni nuova distribuzione spaziale. Esiste la superficie? No, la sua esistenza è un’illusione ottica.


La carta, uno dei soggetti più rappresentati nelle opere di Scolamiero, può coprire un abisso, mimando un ponte, un sostegno, reintegrando la continuità del piano. Può corrugare il piano fingendo un movimento alterno di ripiegamenti e antri, che raccogliendo luce, espelle un buio bituminoso. Su di essa capita che cadano giunchiglie e racemi; in altre zone, ramoscelli e virgulti appaiono stampigliati; ricordano i parati di broccato in seta. Una sorta di topografia termica, di cartografia animata da un vento impetuoso che sposta dune e covoni e che ha del tramonto la patina infiammata. La luce a tratti diviene quella solforosa e baluginante delle simboliche, algide, lingue di fuoco scolpite nel marmo.


Che cosa accadrebbe se la pittura non potesse essere che atemporale, se la carta o la tela al pari delle concrezioni geologiche fossero perenni come gli imbuti danteschi della perdizione? Iperurani scoscendimenti dell’io. Le immagini di Scolamiero aprono a questa perdizione che pur tuttavia ha i suoi solidi punti di riferimento, nel desiderio ritmico e atemporale a un tempo, che la pittura concede a chi sappia estorcerglieli.


Con le pianticelle bronzee, arricciolate come alfabeti, non può trascriversi la storia umana. Le lettere caduche sulle pagine voltolanti continuano a precipitare nella babele delle scritture segniche senza avere un significato rintracciabile. È questo l’eterno? I cerchi, le ellissi senza inizio né fine che la materia imprime a ciascuna altra materia? Trarli dal fondale color petrolio, fino a renderli visibili. Far emergere qualcosa dalla profondità cosmica per lasciarla galleggiare su un piano prossimo al corpo.


Vibrazioni che provengono da addensamenti di polveri e gas risuonano sul proscenio poiché è lì che la cassa di risonanza li amplifica. Il legame con la musica di cui Scolamiero è alla continua ricerca si produce nello spazio pittorico sul quale egli determina un ritmo. Tale ritmo non consiste solo nel battere e levare del proprio gesto, che colloca o rimuove materia pittorica, ma è la ripetizione rifratta, dilazionata, del suono appartenente alla materia cosmica. 


La magica potenza emanata da queste tele e opere su carta nulla lascia a un consumo che non sia perlustrativo e intrigato. Gli ori sontuosi, barocchi, che si tramutano in verdi iridati o ossidati, i rame fiammanti ed estinti: la nuova tavolozza porta con sé la memoria dei quadri della tradizione, i neri caravaggeschi, le materie cartilaginee o setose, la translucenza delle foglie, la duttilità della pelle. Novelle nature morte che si appalesano nella loro forma geologica a rammentarci che il passato è annodato allo spazio del nostro presente.


Gorgiere, pergamene, vesti: si può convocare mnemonicamente un armamentario da wunderkammer pittorica. Una splendida visuale che trapassa il tempo, lo infilza e lo raggira. Le carte, nuove Ofelie galleggianti, ci riportano – tale è infatti il potere delle immagini che attraverso analogie visive sono in grado di far affiorare sul piano dell’intuizione lontanissimi lacerti di cose equivalenti – il ricordo di ciò che è scritto nelle veline vegetali, nelle striature delle rocce, nelle increspature marine. Il cosmo scritto sta ai nostri libri come l’infinito a un punto.


I segni non rispettano la congruenza di alcuna specifica materia. Foglie spumeggiano simili a piccole creste d’acqua, mentre l’acqua si frange a sua volta in lame di luce; la carta non affonda; non esiste atmosfera al di sopra del piano pittorico. Forse che la superficie non è una sorta di specchio, riflettente ed opaco insieme, qualcosa dove la materia si percepisce come ingombro, impreciso e mobile? Dove essa riaffiora per meglio sparire?


L’emersione delle materie dall’area dipinta, vero e proprio liquido amniotico, segna un ulteriore passaggio individuato dalle trasformazioni delle sostanze, il loro cammino dallo stato gassoso a quello solido, dallo stato liquido a quello franto. La materia, in pittura, nasce dalla mente, ancor prima che dalla sovrapposizione delle velature. Le metamorfosi che segnano le estensioni delle sostanze, dalla levità al peso, e la trasmutazione alchemica che riesce a ottenerne oro è un’ulteriore diramazione, fra le altre possibili, che la pittura di Scolamiero inscena. Realtà mai nulla poté contro arte, poiché è dell’arte il contatto diretto con l’immaginazione. 


                                                                                 Rosa Pierno



SIENA, PALAZZO PUBBLICO – MAGAZZINI DEL SALE 27 NOVEMBRE – 9 GENNAIO 2022


Promossa dal Comune di Siena

Ideazione e cura Inner room, Siena

In collaborazione con la Fondazione Accademia Musicale Chigiana, Galleria Edieuropa,

Qui Arte contemporanea, Museo Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona - Arte Contemporanea







lunedì 15 novembre 2021

“La poesia visiva come arte plurisensoriale. L’olfatto”, Fondazione Berardelli, Brescia, progetto di Lamberto Pignotti, a cura di Alice Valenti. Dal 6 novembre 2021 al 22 gennaio 2022


 

La seconda mostra dell’articolato progetto ideato da Lamberto Pignotti, La poesia visiva come arte plurisensoriale. L’olfatto, che interpreta anche <<l’interrelazione sensoriale di vista e olfatto>>, si svolge presso la Fondazione Berardelli, a Brescia, dal 6 novembre al 22 gennaio 2022. La Fondazione ha la finalità di far conoscere il movimento artistico della Poesia Visiva, attraverso l'organizzazione di esposizioni, incontri, seminari e la pubblicazione di monografie: la sua sede è costituita da un ampio spazio espositivo, sviluppato su due piani, e da una biblioteca avente più di 6000 volumi, consultabile on-line e aperta al pubblico. Il patrimonio della Fondazione è costituito da un’ampia collezione di opere di poesia visiva e  poesia concreta.


Il progetto La poesia visiva come arte plurisensoriale ha avuto inizio nel 2020 con una prima mostra avente come obiettivo la rappresentazione dei cinque sensi. Il ricchissimo catalogo dell’attuale mostra è dedicato all’olfatto e illustra l’ampiezza e la profondità del lavoro dei cinquantatré artisti che hanno affrontato il tema, sfuggente e aleatorio. Secondo Wittgenstein infatti, nulla possiamo dire del nostro stato interno; non siamo in grado di dire con precisione quanto di ciò che viviamo sia frutto del solo dato sensoriale, percettivo, immaginativo, intuitivo o razionale. Cosicché cercare di afferrare il gusto di qualcosa che abbiamo assaporato od odorato, le caratteristiche di ciò che abbiamo toccato sembra davvero un’azione che scavi nell’ineffabile, e maggiormente poi quando i dati sensoriali si presentano assieme. Pur tuttavia, il progetto a cui la Fondazione si è dedicata è votato proprio alla ricerca di un trofeo così difficilmente registrabile.


Alice Valenti, che ha curato la mostra, segnala che <<I visitatori osmonauti attraverseranno un sentiero fatto di atmosfere odorose, metaforiche o annusabili, creando percorsi-incontri di senso “a naso”>>. È proprio sulla parola senso che va a concentrarsi l’attenzione in codesto progetto, perché il desiderio di descrivere ciò che appare indistinto è presente in molte opere, così come il desiderio di afferrare anche solo visivamente il prodotto degli altri sensi. È pur vero, però, che le sinestesie, le percezioni aleatorie, difficilmente esprimibili linguisticamente, sono come afferrate e fissate nelle opere di Poesia Visiva e Poesia Concreta, le quali funzionano come piccole trappole in grado di far scattare la morsa che le tiene ferme. In tali opere sono messi a frutto paradossi, giochi, allusioni, rimandi, sostituzioni: il fruitore riesce in tal modo a cogliere quel che normalmente è sullo sfondo e a riportarlo in primo piano. Anche se non si possono predisporre canoniche classificazioni, il senso dell’olfatto sembra essere onnipresente, forse al di là della nostra stessa consapevolezza.


Se passa attraverso la vista, l’odore è solo immaginabile, non identificabile con certezza, ad esempio la foto di una pianta non consente di distinguere il suo odore. Nondimeno se guardiamo qualcosa che non conosciamo, possiamo essere tentati di associargli analogicamente qualcosa di noto, oppure può accadere che se stiamo guardando uno strumento musicale mai visto prima non riusciamo ad associargli alcun suono. D’altra parte, un’immagine potrebbe suscitare un dubbio su quale sia l’odore che potremmo sentire nell’ambiente rappresentato (il profumo di una donna elegante o quello della pietanza che sta mangiando?).


Ci si può chiedere se i colori abbiano un profumo che è attingibile attraverso sinestesie, e tentarle, anziché subirle passivamente. Non lontano è il tentativo di Rimbaud, con Voyelles, nel 1871, di attribuire anche alle vocali un colore, un carattere, né in precedenza quello di Baudelaire con Correspondances nel 1857. Quest’ultimo grazie alle contaminazioni sinestetiche afferra nuovi sensi e modula il linguaggio affinché sia in grado di esprimere tale miscuglio sensoriale. Il capostipite delle ricerche artistiche aventi come tema l’olfatto viene fatto risalire da Melania Gazzotti, che presenta la mostra, a Marcel Duchamp, il quale nel 1919 creò un’ampolla di vetro sigillata contenente aria di Parigi.


In ogni caso, sia basandosi sulle associazioni sinestetiche che si attivano imprevedibilmente mentre si osserva un oggetto artistico (i colori pastello che ci giungono con il loro bagaglio di sapori e di odori) sia facendo affidamento sulla loro presenza reale tramite collage di carte e materiali profumati, si cerca di abbattere la barriera della rappresentazione esclusivamente visiva. Spesso l’alchimia è di casa in queste piccole installazioni, ove, ad esempio, viene distillata una poesia per trarne il suo odore. Nelle opere, l’odore è ancora effettivamente presente per i materiali utilizzati, cera profumata, carta bruciata, polvere di caffè. La lista è lunga. L’olfatto viene convocato sia come personaggio principale, quando si voglia evidenziare l’assurdità della sua elisione, sia come un Godot di cui si attenda ad oltranza la venuta. Metterlo in evidenza, poi, quando compare in sinestetica compagine, non è meno difficile. Si dovrebbe forse ammettere che il senso come il tatto o il gusto sono imprescindibili, anche se il rapporto con la realtà è maggiormente favorito dalla vista, o almeno riconoscere che anche ciò che vediamo è intriso o meglio va in scena con gli altri sensi, inseparabilmente: olfatto, tatto, gusto. La memoria interviene in tutti i processi. Straordinaria è però l’attenzione che questa mostra dirige sui nostri sensi e sul modo in cui li elaboriamo. Perché è possibile farlo: miracolo dell’arte. 


                                                                                           Rosa Pierno







lunedì 1 novembre 2021

Paolo Di Capua “Notte di luna” HD edizioni di Marina Bindella, Roma, 2021

 


La luna, prefigurata da un foro circolare sulla copertina nera di cartoncino ondulato che  lascia intravedere la sottostante carta che già solo per questo appare opalina, lattescente, è l’oggetto della poesia di Vladimir Majakowskij: “Notte di luna” che dà il titolo al volume (impresso a secco con caratteri mobili lignei). Il testo è presente nel libro d’artista, oltre che nella versione cirillica, anche nella versione italiana di Maria Ronacali Doria e in quella inglese di Andrey Kneller. 


Notte di luna


Verrà la luna.

È già apparsa

un po’.

Ma eccola sospesa piena nell’aria.

Dev’essere Dio

che con meraviglioso

cucchiaio d’argento

rimesta la zuppa di pesce stellare.


Le immagini che accompagnano il testo sono di Paolo Di Capua: due stampe a rilievo tratte da una tavola scolpita dall’artista, interpretata liberamente, nella fase di inchiostrazione e stampa, da Marina Bindella, la quale ha anche progettato, stampato e rilegato il volume, il quale è entrato così a far parte delle sue edizioni HD, dedicate a Helena Dalhoff.

Il volume (tirato in trenta esemplari) si presenta, in omaggio all’attività prevalentemente scultorea di Paolo Di Capua, come un libro che si apre nello spazio, che dispiega ulteriori forme all’interno del libro. L’immagine della luna, staccata dalle pagine del testo, è costituita da due ali: ripiegandole, si riforma una mezza luna illuminata, completamente bianca, che fa risaltare le tre versioni linguistiche della poesia di Majakowskij. Ma vi è anche una luna che fa capolino, distante e algida, nel buio siderale, rammentato dalle due ali nere della copertina e della quarta di copertina che una volta dispiegata che sia la parte pieghettata appaiono quale nero cosmo che ricolloca il satellite non solo nella dimensione testuale, ma in quella dell’infinito. Microcosmo e macrocosmo si trovano così incantevolmente accostati nelle pagine del libro.


Quando si tratta di libri d’artista, è necessario, ogni volta, andare a scovare, letteralmente ricreandola, la relazione tra immagine e testo, visto che tale relazione non è mai fissata definitivamente, ma è sempre desumibile da un caso particolare. Al modo stesso in cui nessuna poesia è desumibile dall’appartenere alla categoria “poesia”: il suo essere singolare non è eludibile.


Solo osservando un libro d’artista particolare si può desumere quale specifica relazione si pone in essere tra ciò che è visivo e ciò che è verbale. In tal modo si riconosce, nei due disegni che costellano il libro, una luna, mentre si vede il gigantesco cucchiaio che “rimesta la zuppa di pesce stellare”. Poiché un aspetto assolutamente affascinante dell’immagine è che si presta ad assumere i significati del testo. Li assume per contiguità e vicinanza, nel presente caso. Quello che si sarebbe detto essere solamente un cerchio a cui sono sovrapposti archi di cerchio aventi un differente colore e che sono variamente disposti e sovrapposti ad altri e conservanti un rapporto con i sottoposti attraverso la trasparenza di un diverso strato di pigmento, rappresentano in realtà la luna e un gioco di cucchiai stanti ad indicare il movimento dell’utensile nel rimescolìo del liquido lunare. La luce, questo strano fenomeno che sembra  dissolvere la sostanza, in realtà non perde la forma: un fascio luminoso o la sua proiezione su un piano delinea nitide sagome. È in grado di replicare, frangere, dislocare, diffrazionare. Le forme sembrano così apparire come entità puramente mentali. E forse non è questo, anche questo, il mondo delle pure idee?

E la luce non appare più luminosa, assoluta protagonista rispetto al nero inghiottente, rispetto a quell’infinito non immaginabile, nel quale si può porre qualsiasi idea, senza mai saturarne lo spazio? E allora la luna, capovolgendo il libro, appare bianca, ritagliata nella luminosità solare, differita dalla stessa, in quanto essa ci appare solo perché dal sole intercettata. Si può richiudere lo scrigno/libro. Riaprendolo si avranno ancora altri pensieri....


                                                                                        Rosa Pierno






lunedì 4 ottobre 2021

Marco Furia su “Le forme dell’aria” di Marco Ercolani (Gattomerlino, Roma, 2021)

 



Un’apocrifa ricerca


“Le forme dell’aria” è una raccolta di testi apocrifi in cui Marco Ercolani si accosta alle vite di celebri artisti.

Ho usato il verbo “accostarsi” perché – l’autore ne è ben conscio – la perfetta identificazione non è possibile: siamo di fronte a un attento, sensibilissimo, avvicinamento in cui il personaggio viene, in qualche modo, reiventato.

I dati storici e biografici non sono ignorati, ma quello che qui soprattutto interessa è l’approccio all’opera d’arte e al mondo.

S’instaura, così, una sorta di dialogo riguardante pensieri, lineamenti emotivi e sentimenti che, in quanto tali, potrebbero appartenere non soltanto a celebri artisti: un’elegante e assidua valenza evocativa attraversa questi scritti poiché l’autore sa di trattare argomenti originali ma non estranei, a priori, a chi legge.

Non a caso si parla di “taccuini, lettere, confessioni”, ossia di scritture familiari a molti, per non dire a tutti.

Cito due brani dai “Fogli di diario di Paul Cézanne intorno ai suoi schizzi per la montagna Sainte-Victoire”:


“Mi lascio abitare da quello che vedo. Vedere è fondamentale”


e


“Vedere attraverso la Sainte-Victoire era il mio scopo. Vedere di più. Mi servivo del profilo di un monte per capire il segreto del mio guardare. A volte, osservandola armoniosa come una cattedrale, mi stupivo che la sua morbida bellezza non venisse da un progetto divino ma da casuali assestamenti della crosta terrestre”.


Chi non si è mai soffermato sull’importanza del vedere?

Non a caso, il cieco nelle rappresentazioni teatrali è di solito figura tragica.

Qui si dice “Mi lascio abitare da quello che vedo”, cioè non mi oppongo al mondo come soggetto separato, preferisco lasciarmi coinvolgere, partecipando senza essere annullato.

Più avanti si afferma come osservare intensamente la montagna-mondo possa aiutare a “capire il segreto del […] guardare”.

O meglio, ancora ad avvicinarsi a tale segreto senza svelarlo, descrivendolo in maniera sempre più consapevole.

Del resto, scrive nelle sue “Pagine di taccuino” Giacometti-Ercolani:


“Il mio sogno è disegnare una folla, tutta con un solo tratto, febbrile, concitato, fremente, come una macchia irta e grigia, e da quella, come per miracolo, emerge raggiungibile e reale, il vero volto. E qui ricominciare. Ricominciare di nuovo”.


Non ha fine una ricerca che riguarda l’uomo, il suo ambiente, la sua cultura: si tratta, in ogni modo di ricominciare.

Uno scopo, tuttavia non manca: è quello di rendere evidente come si possa esplorare, sapendosi avventurare tra le pieghe di altrui vite, territori esistenziali ignoti o poco conosciuti che, comunque, riguardano tutti.

Siamo forse anche apocrifi di noi stessi?

Al nostro autore l’ardua risposta.



                                                                                                              Marco Furia


lunedì 20 settembre 2021

Roberto Pellegrini “Ateliers”, sedici ritratti di artisti fotografati nei loro Ateliers. Hyunnart Studio, Roma




Hyunnart Studio, Roma

da sabato 25 settembre ore 18

25/09/2021 – 25/010/2021


Appostato nel suo studio come su una tela di ragno che lui stesso ha provveduto a secernere, l’artista appare vieppiù immobile nel ritratto fotografico che Roberto Pellegrini  ordisce. Il fotografo svizzero prosegue la sua ricerca sullo spazio – iniziata fin  dal 2009, con  l’indagine sulle coppie oppositive ‘pieno e vuoto’, ‘sopra e sotto’, ‘dentro e fuori’ – presentando  a Roma, presso lo spazio hyunnart, la mostra Ateliers, nella quale le fotografie (cm. 100 x 70) di sedici artisti sono proiezioni luminose intorno alle quali lo spazio del loro laboratorio artistico si raggruma come fosse una concrezione fisica. L’intento di Pellegrini difatti è quello di fotografare tale spazio e non l’artista, se non in seconda battuta, sebbene la potenza luminosa emanata da quest’ultimo sia inversamente proporzionale all’interesse del fotografo. Non si tratta, dunque, di rendere qualcosa dell’artista come potrebbe farlo un ritratto. È lo spazio l’elemento da scoprire. L’atelier è il cuore cavo avvolto dalla penombra, è il luogo generato dalla personalità creativa tramite utensili, ingombri, opere. In quell’area non esplorata, piena zeppa di tranelli, a volte caotica, si delineano quelle caratteristiche spaziali che attraggono Pellegrini in modo ossessivo e lungimirante. 


Rendere palpabile lo spazio è azione che mira a scrollarlo dalla nicchia dove lo colloca l’idealizzazione al fine di coglierlo nelle sue occorrenze contingenti e irripetibili. Lo spazio per un artista è sempre concreto, tuttavia, il suo luogo di lavoro è la risorsa meno esplorata quando si studia la sua personalità. Illuminato fino ad apparire ritagliato dalla luce, l’artista vi torreggia, ma il peso dello spazio in penombra riequilibra quello della sua figura, in quanto emerge come parte oscura dell’individualità artistica. Non si tratta del semplice rapporto conscio/inconscio, ma del lato faber dell’essere umano, il quale nel proprio antro ha ammassato e ricostruito il mondo a sua immagine e somiglianza. L’emersione del rapporto tra luce e ombra, fortemente dialogizzato, è ottenuto da Roberto Pellegrini tranciando qualsiasi relazione tra artista e spazio, tra gesto e utensili e producendo di fatto un’alterità irrisolvibile, segnalandoci, appunto, una doppiezza nella fotografia: si tratta di una relazione di sola verosimiglianza rispetto alla realtà. Inoltre, Pellegrini sceglie la posizione in cui l’artista deve collocarsi, dopo aver deciso la sezione del cono prospettico, che assicura la visibilità dell’intero ambiente. Con esso, Pellegrini crea una specie di prolungamento, di deformazione, di falsa prospettiva; ed è grazie ad esso, pura invenzione del fotografo svizzero, che lo sguardo del fruitore sembra convergere su due fuochi. Se lo spazio è sempre una costruzione, si assiste in codeste fotografie a una costruzione al quadrato: lo spazio è prodotto dal fotografo che guarda lo spazio prodotto dall’artista.


La mostra presenta dodici dei trentaquattro scatti già presentati presso il Museo e Centro Culturale Elisarion di Minusio nel 2018: Pascal Murer, a figura intera, integralmente circondato dalle sue sculture; Gianfredo Camesi, seduto fra le sue opere seriali, ordinatissime; Guido Strazza intercettante la luce proveniente dai fogli; Giulia Napoleone  quasi fluttuante nella luminosità dalle sue opere blu, mentre Loredana Müller spunta fra quadri e utensili disposti senza soluzione di continuità. È possibile scorgere Paolo Di Capua fra le sue costruzioni lignee come attraverso le paratìe di una fortezza; Fabiola Quezada si staglia lungo una direttrice defilata e centrale al tempo stesso; Klaus Prior, in piedi come su una tolda, è il punto focale dell’intero spazio; Cesare Lucchini domina l’ambiente che valorizza il vuoto; Simona Bellini guarda verso lo spazio esterno; Fiorenza Bassetti toccando una sua installazione sembra farne parte; Paul Wiedmer appare via via rimpicciolirsi rispetto al giganteggiare dei propri utensili.

La mostra si arricchisce anche degli ultimi quattro scatti, effettuati,  fra il 2020 e il 2021,    presso gli atelier di Paola Fonticoli, Marina Bindella, Ettore Consolazione e Ernesto Porcari: la loro distanza dall’ambiente nel quale pure si collocano appare asintoticamente maggiore di quel che è nella realtà, denunziando un’alterazione ancora più marcata fra spazio esistenziale e spazio artistico.


Può dirsi, al fine, che Roberto Pellegrini getti una luce sullo spazio costruito e sul suo costruttore per meglio deviare. Geniale stratagemma per far emergere quell’io che ogni giorno cerca di attingere al mondo delle forme. Il buio in cui Pellegrini affonda lo studio è solo un modo per ricreare il luogo dell’interiorità, mostrando la tenzone mai risolta tra stato interno e forma prodotta. Lo iato è evidentemente non suturabile, ma val la pena di indagarlo per rintracciare una, anche solo supposta, corrispondenza tra l’artista e la sua produzione. Dinanzi alla macchina visiva architettata da Pellegrini, si ha l’impressione che la motivazione tra la presenza degli oggetti e il lavoro artistico comunque sfugga. Il rebus non va risolto, va solo assaporato. La persona posta sotto il faro diviene emblema, non chiave per decifrare il luogo. La costruzione scenografica di Pellegrini ha già predisposto alcune equivalenze a cui il fruitore non potrà mancare di prestare attenzione e che sono quelle meno agevoli da decifrare. Innanzitutto, la voluta oscurità in cui è immerso l’ambiente, con le ombre liquide, semoventi, rispetto alle quali la fissità dell’artista ritratto risulta ancora più radicale. L’ombra appare come oggetto fra altri oggetti, non un effetto della luce: un’addizione che è funzione dello spazio: sua diretta emanazione. Così, mentre lo spazio diviene via via più penetrabile, il fruitore si sfila dalle maglie della realtà e aggancia quelle dell’interiorità. Un’interiorità, e a questo punto è chiaro, soltanto immaginata.


Se vediamo la persona ritratta e le opere artistiche prodotte, ma non vediamo il fotografo, a cui lo sguardo degli artisti è rivolto, è perché vi è una sorta di estraniante incastro che altera, specchiandole in reiterate traiettorie, le reali componenti in gioco.  Non è un caso che in codesti laboratori artistici, l’opera non sia in bella mostra: in alcune fotografie non è facilmente individuabile, in altre non c’è affatto. Forse l’opera è la cosa meno importante in un atelier. È quest’ultimo a costituire la fucina delle meraviglie, l’antro dell’improbabile, il luogo costipato da cui un’opera d’arte nasce. L’artista, creatore di ogni accadimento nella propria grotta, sottopone all’incertezza visiva del nostro rapinoso sguardo una pluralità di tracce e frammenti. Noi sappiamo che ogni atelier è un’isola dal cui incantamento non possiamo tenerci distanti e al di là della camera fotografica di Roberto Pellegrini possiamo difatti udire distintamente il suadente canto delle sirene.


                                                                                      Rosa Pierno 




sabato 31 luglio 2021

Alphonse Daudet “Cinque racconti” Pagine d’Arte, 2020

 


Il profilo di Alphonse Daudet emerge magnificamente dai testi presenti in Cinque racconti, curati da Matteo Bianchi e Carolina Leite, ove l’aggettivazione a profusione, sempre però precisa e puntuale, è ciò che maggiormente rapisce nella tessitura testuale. È dagli aggettivi che zampillano le occasioni metaforiche o comparative. Tutto spostato sul versante letterario anziché su quello realistico, la vita è una trapunta di stelle solo che così la si sappia sentire e vedere. Si direbbe, anzi, che nel rapporto tra figura e fondo sia quest’ultimo ad apparire privilegiato e che in Daudet prevalga la tendenza a riempire di umana partecipazione il mondo. Anche i personaggi sembra siano desunti a partire dall’ambiente, così che grande attenzione viene data alla loro condizione economica e culturale. Lo scioglimento di ciascuno dei testi presenti nella raccolta è risarcitorio, consolatorio, non per conservazione dello status quo, per passività o accettazione fatalistica, quanto piuttosto per non privare gli ultimi del valore di quel poco che comunque gli è toccato in sorte. Per indicare la delicatezza di Daudet narratore, potrebbe essere sufficiente riferirsi al racconto Le stelle, in cui la sensibilità è al massimo grado e si accorda, peraltro, al rispetto per l’altro e alla bellezza. Nei testi dello scrittore francese non si afferma dogmaticamente la concezione platonica, nella quale morale e di bellezza procedono sempre insieme, ma si può scorgere, come attraverso un cristallo, l’uniformità del sentire/pensare, quel loro  concorrere all’unisono, o almeno il desiderio di un tale traguardo. Benché, sia più esatto dire che la grazia percorre di fatto tutti e cinque i racconti, divenendo stato di grazia del lettore. Mai in Alphonse Daudet vi è estraneità rispetto all’oggetto narrato, mai vi aleggia quella finta obiettività che allontana qualsiasi esperienza della realtà dalla caratterizzazione soggettiva; anzi, una partecipazione trepidante e calorosa scorre sulla sue pagine con un flusso ininterrotto, tanto da non cedere persino dinanzi alla disgrazia: lo scrittore guarda con commiserazione e comprensione gli eventi e e le vittime. 

È con gratitudine che il lettore guarda all’intento dei curatori, i quali, con la loro casa editrice Pagine d’Arte, ripropongono le prelibatezze finite in un angolo dimenticato, grazie alla collana di testi brevi da loro ideata “I fiammiferi”. Testi che, indipendentemente dall’epoca nella quale sono stati scritti, ottocentesca o contemporanea, offrono al lettore favolose visioni, modelli interpretativi e stilistici da cui ripartire e in cui immergersi.

Chi non avesse letto da ragazzino le prodigiose avventure di Tartarino di Tarascona, si è perso ore di puro divertimento e meraviglia, garantite dall’ingenuo eroe provenzale a caccia di leoni in terra d’Africa che riesce a rimediare soltanto la pelle del leone cieco di un circo. Falso cacciatore, tuttavia seguito con affetto e credito indeponibile dal suo creatore. L’umanità e la generosità di Daudet furono molto amate da Proust. Egli fu amico anche dei Goncourt, con i quali fondò l’Accademia Goncourt, e di Zola, il quale definì la sua opera come appartenente al naturalismo, per la descrizione minuziosa di ambienti anche esotici, sebbene Daudet disegnasse i personaggi incontrati nella sua vita con dettagli immaginari e irreali. Fu, insomma, un uomo a tutto tondo e uno scrittore dalla penna felice, grazie alla sua presenza palpitante.

A tratti, affiora dalla mitezza della voce narrante, uno stridìo, qualcosa di inaccordato che ricorda la plumbea atmosfera di Edgard Allan Poe. La maestria con la quale Daudet opera questo sdoppiamento dell’immagine, che però subito dopo ricompone, dà conto dei diversi registri che la voce autoriale può assumere, senza, oltretutto, sfondare le cesure tra generi, cioè restando nei ranghi di un testo canonico, a dimostrazione che lo scrittore, a maggior ragione che se li travalicasse, non può essere rinchiuso in un recinto schematico.

A tal uopo, si rimanda al racconto Wood’s town, dove una foresta, disboscata dall’ingordigia mercantile degli uomini, riprende il suo spazio, avanzando come nel testo shakespeariano; in tal guisa, accampando di fatto il testo tra due autori, non solo tra due generi. Persino l’ironico tono con cui egli racconta un drammatico episodio, ne I canapè, non sfocia giammai in dileggio o in sarcasmo. Se presente, la tragicità emerge solo alla fine di un racconto lieve e cesellato come un arabesco multicolore, come accade nel racconto Il caravanserraglio, ed è mantenuta anch’essa sotto tono, smorzata, suggellata da un pudico riserbo.

Pur anche Andersen fa capolino tra le pagine delicate e vibranti de Lo specchio, in cui una ragazza creola  affronta la rigidità di un inverno del Nord.

Amante della letteratura e dell’umanità, Daudet, assieme alla nostra considerazione, rapisce anche il nostro affetto.


                                    Rosa Pierno

mercoledì 14 luglio 2021

Fausta Squatriti “Carnazzeria. Poesie, Collages” Myself Research Testuale, 2004

 


                                                              


Nel libro di Fausta Squatriti Carnazzeria. Poesie, Collages, Testuale, 2004, gli interventi critici di Gio Ferri, Milli Graffi e Angela Madesani cercano di individuare le tangenze tra le poesie e i collage che il libro espone, perché se i due linguaggi sono irriducibili, pure è solo una la mente che li pensa e daltronde la formalizzazione poetica o visiva deve congegnare mezzi espressivi che siano di sostegno a una medesima visione.

Un libro anfibio. Un libro-cartella con la piegatura della copertina che raccoglie le quindici immagini, le quali dialogano fittamente con il testo. Sicché privilegiare una forma espressiva per spiegare laltra non ci porterebbe che, ancora una volta, a privilegiare il verbale sul visivo. Meglio sarebbe procedere alternandoli, anche per cogliere le differenze formali. Tuttavia, quel che lopera visiva dice, non lo dice lopera verbale e viceversa. Bisogna forse rileggere e rivedere più volte, far levitare anche ciò che si situa fra le due modalità espressive, poiché un terzo senso si solleva, inevitabilmente, dallaccostamento delle due forme. Senza naturalmente tralasciare il contenuto che, in questo caso, è certamente drammatico. Anzi, si comprende meglio la presenza della geometria (forme astratte) che sempre impedisce la piena insuperabilità degli effetti drammatici della guerra e persino della natura umana. Una ragione può sempre mettersi allopera, cercando il modo per uscirne. Ciò nonostante, si parte dalla mancanza di relazione tra ragione e passione, dal disequilibrio tra volontà ordinatrice e pulsioni e, nonostante il loro ineludibile fronteggiarsi, si cerca la via duscita, anche se la ragione sembra affondare vieppiù nelle sabbie mobili.


Il desiderio di ricreare nellopera quelle sensazioni di simmetria, equilibrio, armonia, superiore fusione che abitano la mente prima che siano trasferite alle forme espressive, e che si possono indicare grossolanamente più o meno come valenza estetica che è attivamente implicata nella costruzione di forme, diviene non punto di passaggio obbligato, ma grado superiore di elaborazione. Elaborare esteticamente vuol dire avere già attivato limmaginazione, unica risorsa capace di non ridurre lessere umano alla sola caratterizzazione relativa alla sua doppia natura (avente in sé il bene e il male) ma di indirizzarlo verso una superiore visione. Risorsa che, pur priva di garanzie, si rivela quale unico viatico possibile. Ma, si badi bene, per Squatriti, estetica non coincide con eleganza, che altro non è se non un aspetto della morte, del vaneggiamento umano nel mero raggiungere lo stile: i piedi costretti in bende delle donne giapponesi, lobesità delle donne nigeriane rimarcano lorrore per certe pratiche in cui lesigenza di bellezza diviene strumento di dominio e di morte. Mentre è solo limmaginazione a rendere consapevoli che si può scorgere qualcosa oltre le contraddizioni, tutte concrete, dellesistenza.


Si palesa profondamente motivato (non solo nel caso del presente volume, ma in tutta la ricerca dellartista) il ricorso di Fausta Squatriti alla necessità di muoversi sui due binari formali (verbale e visivo) per affermare sia la discrasia esistente  tra azioni e pensieri sia la complessità di una realtà basata su illogicità e contraddizioni. È come voler accerchiare il nemico usando tutti i mezzi a disposiIone. Il paradosso, se non lo si può risolvere,  deve almeno essere visto al fine di poter mirare a un bersaglio, ove, fra laltro, il percorso, rispetto al fine, è più del punto mirato. Lo leggiamo nei paradossi verbalmente espressi: silenzio di gesti”, primizia ammorba discarica”, seminare gramigna”, usurai angelicati”, carestia lamenta indigestione”. Così come negli equilibri impossibili tra oggetti (teschi, cappi, mine) e figure geometriche dai contorni irregolari, che si ripercuotono nelle sue immagini.


Daltra parte, la presenza del male, che non può eradicarsi dal bene, richiede che la costruzione del verso sia effettuata con lo svuotamento di ogni definizione positiva e, allora, tutto si manifesta come macchiato; non c’è ciliegia senza verme, sì che la dizione è imperfetta, il modello è infedele, lorma è impropria, il confine è incontinente. E nelle immagini: nulla è intero, nulla è intonso, il fiore si specchia in un drappo insanguinato, la foglia è invasa da lumache divoratrici.

Ogni atto, persino quello naturale del coito si ammanta, nellessere umano, di sovrastrutture innaturali, al modo in cui i legami naturali si allacciano ai simboli della morte. In fondo, anche i simboli appaiono svuotati dallinterno, come nel troppo pieno dellotre nel vuoto di promesse”. Ed è per questa ragione che va issata la massima attenzione, che il mondo va sorvegliato, affinché nulla che sia umano debba essere creduto naturale. Ancora alla mancata funzionalità del simbolo viene affidata, nelle poesie e nei disegni, lo svuotamento del senso quando il segno di riconoscimento agisca nella mancanza di memoria. Che è quanto dire nella mancata capacità di costruire il futuro. Alcuni oggetti, nelle immagini, sono a loro volta non scioglibili dallambiguità percettiva. Restano come sospesi e inutilizzabili, proprio perché la cultura fornisce oggetti spuri e contaminati.


A una mancanza di linearità semantica, a una marcata complessità interpretativa, dovuta a una sintassi che trova le sue regole nellaccostamento di vocaboli anche molto distanti fra loro, si legano immagini che presentano elementi concreti e astratti in una configurazione conflittuale, tuttavia, ancora relata.

Abbiamo preferito porci fra le due forme espressive, poiché lopera richiedeva per la sua duplice costruzione che si tenesse conto della loro natura anfibia. La loro autonomia impedisce che si possa giungere a unesaustiva esegesi, il che è sempre vero, ma qui, è vero al quadrato.



                                                             Rosa Pierno