martedì 29 maggio 2012

Il nuovo libro di Rosa Pierno “Artificio”, Robin Edizioni, 2012, dall’introduzione di Gilberto Isella

E’ in libreria“Artificio”, Robin Edizioni, nella collana I libri di poesia diretta da Mario Quattrucci



Artificio e Amore fossile formano due testi speculari, interagenti. Due organismi, insomma, messi in reciproca postura di desiderio. Insensato volerli separare, così come non si separa una coppia d’innamorati (“indivisi amanti”), nemmeno sapendo che la loro passione è campo di battaglia, incrocio di forze antitetiche. Sia chiaro: per i testi, animati da reciproca attrazione, vige il medesimo ordine teatrico dell’agon vissuto dalla coppia. A cambiare sono invece attori e posta in gioco, perché questa volta il confronto avviene tra parola e figura, affermazione e negazione, movimento e stasi, presenza e assenza. Che è anche confronto con gli spettri, quelli insorgenti dalle riesumazioni, dagli scavi (fossile deriva da fodere, scavare), tra le cui ombre il desiderio già da tempo si è convertito in desiderio d’agonia. I suoi echi li troveremo nella “chiara e lucida visione” lungo i bordi del fossato, in maniera ancor più netta sulle insegne dell’oltretempo collocate là dove riposano gli oggetti perduti, orfani di Natura o di Idea:
“Asfittico luogo, con fioca luce, mentre la vista fugge da immobili membra, prive di forza, su cui nemmeno scorrendo con la lingua, alitando, soavemente nominando è possibile rinvenire alcun moto. Amore non può nulla su fossile cuore” (Amore fossile).
Un capolinea, se vogliamo: l’avventura della mimesi (copia di copie di copie nel sistema di Platone) che si autorivela quale evento tendente alla propria fine, destinato a rispecchiarsi nell’effigie mortuaria di un gesto amoroso. Artificio e Amore fossile costituiranno la duplice scena di amanti testualizzati che si scambiano messaggi da capoverso a capoverso (da loculo a loculo), sorpresi in una sorta di ‘postumità’ gioiosamente funebre. Allorché il vincolo mimetico si sta sciogliendo.


Cos’è l’artificio se non l’ars concepita nel suo splendore fenomenico ‘innaturale’? La passione vale in quanto tékhne, ogni gesto poggia su un intrico strutturale ordinato da un invisibile Altro. Come dire: se qualcosa si libra nell’immaginario (“fantastica visione”) deve anche formare dispositivo, matema in progress (“carta geografica”, “diagramma”, idest testo) . Ci soccorrerebbe a questo punto l’ipotesi di macchina desiderante, avanzata da Deleuze e Guattari, ma già la trattatistica d’amore manieristica e barocca ne aveva, coi suoi congegni retorici replicanti, anticipate ambizioni e mosse. Per lo scrittore barocco, come per Rosa Pierno, il mondo-testo o il mondo-teatro (vedi Calderòn) è produzione dell’ars, capace di ricreare un simulacro di vitalismo cosmico coniugando l’agudeza della forma con la meraviglia dei sensi.
“Assoluto artificiale coincide con la più vivida realtà” (Artificio).
Dove il modus operandi fa tutt’uno con la sottigliezza degli strumenti. Una ratio phantastica abilitata a promuovere compattezza entro il diffuso, ma che abolisce, proprio per il suo potere metamorfico, peso e staticità strutturali. Grazie alla regia di Rosa, la struttura non si prostra all’immobilità; diviene al contrario onda viva, mobile serra affidata a una sorta di gaia scienza. I cui fiori più teoretici crescono  in Amore fossile, i più affabulanti in Artificio. Ma senza l’affanno dei ‘distinguo’, siccome tutto sembra posto in circolo e fluidificato da quello Spieltrieb di cui Schiller aveva scoperto l’essenza. […]

                                                                                       Gilberto Isella




FLORA E FAUNA


Piante rare ed esotiche, importate dal Levante o dalla Cina,  piante vive e disseccate, piante catalogate.  Dall’erbario risale un effluvio di aromi che invade il gabinetto naturale in cui, disposti in fila o ammassati, sono fossili, pietre e crostacei. Anche un pappagallo impagliato contribuisce a creare un ambiente universale. Un coccodrillo intero, che piange gli uomini dopo averli mangiati,  pende dal soffitto, pur solleticato da foglie di banano. L’albero del pane è senza mortadella e coleotteri giganti, schiantatisi sulle pareti vitree della serra, lì sono rimasti appiccicati. Sembra una bottega di robivecchi, più che una serra professionale di decantate virtù medicinali. 

Se fosse un acquario vi si potrebbero vedere pesci-donna, leoni marini, pesci palla e scorfani di ogni dimensione. Patelle e perle non mancherebbero di certo in quest’ameno microcosmo naturale. Balene sarebbero presenti solo con falene, mentre ossi di seppia e boccette d’inchiostro stimolerebbero l’estro del poeta di passaggio.  Lave, pietre vulcaniche e barattoli di cenere gettati nelle vasche simulerebbero l’attività vulcanica dei ribollenti mari, compresi i calcoli biliari.


NINFA CON PASTORE


Amore mai arse con tali rugginosi effetti. Strali rossastri hanno annerito cuori e pupille. E boschi e rupi ardono nella notte  con le ultime fiamme. Di quale avvampante unione è mai testimone questo snervato corpo che rapina l’ultimo sguardo? Da quale profonda spossatezza  le membra si sollevano per ascoltare la superflua frase? Se corpi e paesaggio sono consunti dalle fiamme dell’amore, il suono che uscirà dal flauto, a cui il pastore  s’appresta a dar fiato, le farà socchiudere  le palpebre su un mondo di cenere.



acquistabile anche on-line
collana: Libri di poesia
pagine 124
ISBN 978-88-7371-950-2
euro 10,00

venerdì 25 maggio 2012

Paul Celan “La verità della poesia” Einaudi, 1993

Il libro “La verità della poesia” Einaudi, 1993, raccoglie tutte le prose di Paul Celan fornendoci testimonianza sul suo particolare modo di porsi i problemi e di indicare risposte, le quali convergono nel tratteggiare un cammino, delineando contemporaneamente le limitazioni insite in questo incamminarsi.  Il tergiversare, l’apparente disgressione, il dubitare delle proprie affermazioni per riproporle qualche passo più avanti, domandando e costatando assieme, non manca alfine il bersaglio. E’ una modalità d’interrogarsi che sostanzia anche la risposta. E’ un cercare che ha in sé la propria meta. Cercare è non fermarsi, è sostenere la propria umanità.

Dopo il 20 gennaio 1942 in cui fu decisa la soluzione finale, anche l’arte non può più essere quella che era prima, poiché la soppressione di uomini decisa da uomini scardina ogni logica e interrompe ogni discorso sull’arte, che può essere ripreso soltanto con un impegno etico-poetico. La parola allora appare come recuperata contro l’ammutolire. E assieme a essa è recuperato il luogo utopico, non reperibile, della sua origine, parola-prima, speranza e attesa insopprimibili. E’ questo lo straordinario ruolo propulsivo che Celan affida alla poesia. In questo dire, cercato ostinatamente, senza soluzione di continuità, in questo non dismettere, nonostante tutto, l’abito dell’umanità.  Cercare è trovare sebbene utopicamente, sebbene solo su carta, geografia mentale, in cui risiedere è possibile, poiché abitare la poesia è possibile: la terra dell’anti-parola.  E la poesia è appunto processo, resistenza, forza indomabile, incoercibile.

Necessario appare, nella coincidenza di arte e poesia, la dimenticanza di sé: poesia parla “per conto di un Altro – chissà, magari di tutt’Altro”, perché il cammino si attua distogliendosi da sé e andando verso “alcunché di arcano  straniato”. Poesia coincide con questo cammino che non ha garanzie, ma che cerca l’interlocutore, ogni possibile interlocutore: “Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro”.   L’io stesso è d’altronde estraneo a se stesso. Non perde mai la consapevolezza di dover contrastare la sua stessa tendenza ad ammutolire, ma incessantemente “si evoca e si riconduce dal suo Ormai-non-più al suo Pur-sempre”.

Limiti imposti e possibilità dischiuse dal linguaggio intersecati dall’“angolo di incidenza della esistenza del poeta”, per cui il poema sarebbe “linguaggio diventato figura, di un singolo individuo”. Nello spazio del colloquio attuato dal poema, il quale consente che “abbia voce quanto, all’Altro, è più proprio: ossia il suo tempo” c’imbattiamo in ciò che rimane aperto, che non sfocia in alcuna conclusione, nel fuori. Nessun assoluto. Il poema è reale, tangibile e reca con sé “l’ineludibile pretesa; e quella inaudita pretesa”. Forse mai apparsa così concreta, quando il ballo sono “forse progetti d’esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi…Una sorta di rimpatrio”.

La lotta è quella contro ogni fissazione del senso, ogni significato anchilosato, per consentire al nuovo di scaturire. Il poema è anche il luogo della libertà. Strumento concretissimo per tracciare percorsi, arrischiare sentieri, tratteggiare nuove direzioni e persino per darsi “una nuova prospettiva di realtà”, il poema, “pur rivendicando infinitezza, cerca di aprirsi un varco attraverso il tempo – attraverso, ma non sopra il tempo” poiché è al proprio tempo presente che il poeta pone interrogativi. Nel poema è la lingua “che vuole farsi attuale nella sua verità”. Senza rinunciare alla “poliedricità dell’espressione”, il linguaggio cercato da Celan mira alla precisione, con esso egli vuole nominare: non trasfigura, instaura. Non cerca la metafora, mira dritta al cuore dell’essere.

                                                                                     Rosa Pierno

martedì 22 maggio 2012

Peter Flaccus “Inciso/Fluttuante”

I


La nuova serie di quadri neri, ove solo una sola linea corre sulla superficie sgraffiandola, incidendola per farne emergere un liquido luminoso che si cela tra la pellicola di cera stesa con la tecnica ad encausto e la tavola di legno e ove in lontananza, sospinta sullo sfondo come lo sarebbe un’apparizione che non voglia spaventare il suo ospite, sta una forma fumosa e indefinita, sono il  teatro in cui ha luogo un dialogo impossibile ancor più che improbabile.

Dialogo che ci pare incompossibile perché linea e superficie riposano, ancorché su differenti piani, anche su basi concettuali diverse. Inoltre, la linea che stentatamente si scava un suo percorso non è segno e  la forma che immaterialmente si svolge non è figura.

Questa instabilità è dovuta naturalmente al fatto che si tratta di una immagine e non certo di un testo. Eppure il significato è convocato per connotazione diremmo e la figura per analogico condensarsi.

Forse solo a questo punto potremmo essere in grado di dire che il dialogo, miracolosamente, si attua dinanzi ai nostri occhi: che la linea ci sembra una probabile proiezione del contorno della forma, che la forma traduce l’adombrata  sostanza della immaginaria superficie circoscritta dalla linea.

II


D’altronde, nel guardare un’altra opera di Peter Flaccus, dove la forma acquisisce centrale evidenza occupando buona parte della superficie e risultando maggiormente sostanziata dalla più densa consistenza del pigmento bianco, il quale ancora svapora lungo le linee frastagliate del contorno,  scorgiamo la scaturigine della sua formazione, riconosciamo una linea, quasi per via di togliere.

Il dialogo si atta qui in senso invertito rispetto a quello che avevamo colto nella precedente osservazione, mostrando come linea e forma non necessariamente sono distinguibili in maniera separata, né contrapposti. Qui, una classificazione sarebbe fuor d’ordine e la pittura fuor di natura.       

III


Ed è ancora sul filo della indistinzione che si gioca questo nostro terzo tentativo di lettura delle opere di Peter. Ambedue riposano su un medesimo piano che è quello del supporto ligneo: linea sembra galleggiare sulla superficie, esilissima e stentata, mentre spugnoso calice sembra fluttuare nelle acque di un profondissimo mare. 

Spazio rappresentato non è che illazione, eppure pluriforme, plurisemica. Superficie pare dissolta, spazi abissali si dispiegano in un ulteriore paradossale accostamento.
Le opere di Peter Flaccus sono opere che richiedono contemplazione: quella che si effonde nella durata, che pretende sospensione di canonico  giudizio, di ordinato incasellamento. Seguire l’incerto percorso della linea o le liquide evoluzioni delle forme in espansione richiede capacità di pensare non in termini definitori, ma di trasformazione.

                                                                                     Rosa Pierno

domenica 20 maggio 2012

Madison Morrison “Existentialisme et Matérialisme Dialectique” da Anterem n. 81

Nel testo di Madison Morrison “Existentialisme et Matérialisme Dialectique” pubblicato sul n. 81 di Anterem, II semestre 2010, nella traduzione di Alessio Rosoldi, si percepisce immediatamente la netta separazione tra due registri: quello della descrizione di una situazione concreta e quello teoretico affidato alla citazione filosofica (peraltro segnalata anche dal corsivo). Visto che all’inizio non si riscontra alcuna relazione tra le due sfere, si pensa che possa essere un semplice scorrere nella mente dell’autore del linguaggio professionale (simile allo scorrere di una pellicola filmica, che continui anche durante il sonno). Una sorta di sovrapposizione trasparente, non attinente, che segue un suo iter a prescindere dal percepito, dalla situazione in cui l’autore agisce.

“Consente a Husserl di porre un ego trascendentale “al di fuori del mondo”. L’autore  si siede davanti a un dipinto a quattro tavole nere, mentre un giovane con una giacca nera gli passa di fronte lemme lemme. Mentre Heidegger, da parte sua, supera Husserl, riconoscendo che l’ego trascendentale di quest’ultimo è “un sé concreto e temporale”. Nel dipinto è raffigurata una pagoda circondata da alberi di specie diverse. Secondo Tran, ci riesce riconoscendo che l’essere-nel-mondo deve essere analizzato in termini di “realtà umana”. Due estintori rossi sono poggiati a terra pronti per essere usati, con le impugnature a forma di tenaglia rivolte in direzioni opposte. Tuttavia, per Tran Duc Thao Heidegger non va abbastanza lontano  nella sua analisi”.

Inoltrandosi nella lettura, s’iniziano a scorgere i primi punti di contatto o comunque i primi punti di congruenza tra i due registri. Parrebbe che le citazioni nascano dalla traduzione in linguaggio filosofico di ciò che sta avvenendo nella realtà (la visita al museo). Una sorta di tavola sinottica in cui all’opaco darsi di una banale situazione esistenziale possa accostarsi addirittura un senso appartenente ai più alti esiti filosofici. Naturalmente il salto non si avvera, l’arbitrarietà resta insoluta nel liquido testuale: residui si avvicinano e si allontano sospinti e respinti dalla medesima casuale corrente.

La tessitura testuale non tarda, peraltro,  a scompaginarsi, si sfalda e si sovrappone al punto che i periodi non sono compiuti  e periodi secondari si aggettano nel vuoto senza il sostegno del periodo reggente.   L’artefatta coincidenza è portata al suo punto parossistico poiché è di tutta evidenza che il senso non per questo va a campire le zone lacunose.  Quasi un processo, potremmo dire, opposto a quello in atto nella poesia ermetica, in cui il senso è appena indicato e volutamente lasciato indefinito, in modo da ottenere ulteriori indicazioni, non previste, eppure promettenti.

Il congetturato significato viene ulteriormente sfilacciato, anziché fatto lievitare. Qui, il senso non è un gas riscaldato,  ma una struttura le cui lacune non sono reintegrabili. Nemmeno da un punto di vista esclusivamente ottico, come avviene invece  nel restauro, è possibile pensare di ridurre la frattura tra il pensato e il percepito. A tal fine, la restituzione linguistica del reale è quanto mai dimessa e affidata a una descrizione quanto più oggettiva possibile proprio per non consentire a un linguaggio personale una deriva di senso non prevista.  

“”Fucili vietnamiti utilizzati a Dien Bien Phu” sono stati allineati verticalmente in una teca. Ciononostante, la Terza Indagine, considerata assieme alla nozione di “intuizione categorica” della Sesta indagine di Husserl. La bicicletta di Nguyen Tin (“usata per trasportare viveri alla battaglia di Dien Bien Phu, nel 1954”). Mostra come si impossibile separare del tutto le essenza dai noccioli sensuali. E’ esposta come un reperto indipendente, poggiata sul proprio cavalletto. Sulla base di questa inseparabilità. Il sellino è nero, ma le ruote e i puntelli sono stati ridipinti di un verde scuro. Tran Duc Thao isola tre “ambiguità” nella teoria fenomenologica di Husserl”. 

Resta netto il disavanzo, la non compromissibilità tra linguaggio filosofico e descrizione della realtà, che Madison Morrison, inoltre, accentua solo per far emergere la distanza invalicabile tra le due modalità: impossibile da colmare, dunque. Resta come disavanzo tutto ciò che estetico e che il linguaggio filosofico non riesce a dire (tralasciando ovviamente la pellicola estetica rinvenibile nell’esteticità matematica o filosofica) e di cui si fa carico il linguaggio oggettivo della descrizione del reale (“Una ragazza vietnamita con le scarpe coi tacchi alti di colore nero scende con passo pesante la scalinata che conduce al secondo piano; i suoi folti capelli corvini le ricadono su un’elegante giacca color verde militare”). Ma ciò soltanto per testimoniarne la presenza  nel reale, e la sua mancanza nel linguaggio filosofico, non per sviscerarla. Madison ottiene in questo modo di porre i problemi – e porre i problemi in maniera lucida e precisa è in ogni caso  prendere posizione – sgombrando il campo da scorie  e da superfetazioni.  Un modo davvero originale di esplorare le contiguità tra linguaggio specialistico e linguaggio comune!

                                                                                  Rosa Pierno

giovedì 17 maggio 2012

Liliana Maresca “Un’identità multiforme” mostra a cura di Ludovico Pratesi

presso la galleria Spazio Nuovo
via d’Ascanio, 20, Roma
dal 23 maggio al 30 giugno 2012


La mostra, fortemente voluta da Paulo Pérez Mouríz e Guillaume Maitre, mirabilmente ritaglia, nel complesso e multiforme ventaglio di opere che Liliana Maresca, artista argentina (Buenos Aires, 1951-1994) ci ha lasciato, un solidissimo, coerente  blocco che ci consente di comprendere come, al di là dell’incessante variazione dei mezzi espressivi e degli stili, il cuore pulsante della sua motivazione artistica, sia, incredibilmente, una algida astrazione, una vigile razionalità tutta investita nel concreto e come sia affidato principalmente al simbolo (le uova, i poligoni, l’oro) il ruolo semantico: operazione squisitamente concettuale, dunque.

E non si pensi che concreto sia il contrario di astratto, poiché nessun oggetto nel mondo della Maresca può evitare la trasformazione attuata da una mai deposta ponderazione. Persino l’emozione vi appare levigata, amorevolmente smussata: resa oggetto di fulgida evidenza. E’ un cosmo in cui la contraddizione sembra estenuata, evaporata, transustanziata.

In Liliana Maresca, il simbolo è strettamente collegato all’alchimia, in un dialogo che fin dal Rinascimento è frequentato da scienziati, e qui, come direbbe lei stessa, il cerchio si chiude.   In ogni caso, pensiamo che anche quando l’artista sembri sottrarsi alla coerenza, addizionando tutti i reperti di cui spesso le sue installazioni si caricano in maniera caotica, non sia il caos l’elemento aggregatore, ma una precisa idea: limpidissima.

Si veda la splendida, affascinante foto (e tutte lo sono anche per la ineludibile bellezza dell’artista che vi si fa ritrarre) in cui ella tiene nel palmo della mano due uova di piccione trovate nella grondaia di una casa abbandonata (qui la semplicità ha forza di evento) e l’installazione in cui  due uova poggiano in portauova che ricordano una corona rovesciata a loro volta posti su un basamento (ove basamento sta per il fondamento della tradizione filosofica). La trasformazione non è data dal passaggio da un evento casuale a uno artificiale, ma si riscontra nella diversa considerazione a cui il medesimo oggetto  si presta. Metamorfosi (sappiamo, inoltre, che la vita dell’artista ha subito vari traumatici passaggi), ottenuta in quanto ripetizione all’interno di una salda cornice, dove l’autenticità è traguardo. E ciò in riferimento sia alla sfera morale sia alla sfera artistica. Trasformazione, dicevamo, ottenuta per via di astrazione.

L’uso del simbolo indica che la realtà è caricata di senso e di responsabilità, che nessuna azione è lasciata senza relazioni con il resto dell’esistente. In questo senso, l’azione della Maresca è sempre etica e lega gli oggetti che lei manipola alla responsabilità dell’essere umano.  Nessun oggetto pare potersi sottrarre a quest’analisi e a questa ricollocazione, in un affastellamento di opere che denuncia l’impossibilità di una soddisfazione. Non sfugge, attraverso il taglio interpretativo della mostra, la profilazione dell’emozione, tenuta a un livello smorzato, filtrato.  L’innocente inaderenza alla realtà è chiave di volta per comprendere che una ferrea volontà vuole stralciare le cose  dal loro casuale e insignificante limbo per riconsegnarle a un processo di rivalutazione e di verifica. Di risemantizzazione.

In un’altra splendida foto, la Maresca è ritratta in una casa in cui sulle pareti si affollano disparati oggetti  o opere da lei stessa creata e la sensazione è che nessuna cosa, pur avendone la parvenza, sia non scelta, non filtrata, non ardentemente voluta, non estratta dal caos dell’esistere per essere consegnata alla sfera dell’arte, in una comunione universale, come vuole alchemico dettato.

                                                                                   Rosa Pierno
http://www.spazionuovo.net/

lunedì 14 maggio 2012

Gio Ferri “Cent’anni di Scrittura Visuale al Museo Carale di Ivrea”

Sabato 5 maggio 2012, h. 16,30
“La ‘poesia’ e la scrittura formale del ‘fare’”

E’ difficile scambiarci qualche nuova idea sulla “Visual Poetry” (riassumo in una definizione … internazionale le diverse etichette) dopo quanto illustri operatori e critici e storici (solo per far qualche nome, scusandomi con gli altri: Accame, Accattino, Bentivoglio, Spatola, Pignotti, Miccini, Fontana, Perrotta, Lora-Totino, Sitta, Sarenco… ecc…) hanno fatto e scritto in proposito - e ancora oggi egregiamente ci illustrano.

In genere la storiografia critica spazia dalle origini dei Codici Miniati, a Mallarmé,
ai Calligrammes, al Futurismo e via via fino alle Neoavanguardie del Novecento, e alle attuali post-avanguardie. Le metodologie, gli stili, e le motivazioni estetiche o idelogiche sono diversissime, ma tutte si manifestano attraverso la visualizzazione della lettera e della parola. Sovente fino a sconfinare nella pittura: ma allora, fatte le debite eccezioni, sarà bene parlare decisamente di pittura.

La scrittura verbo-visiva, come ben sappiamo, propriamente lavora sulla parola e sulla lettera: che usa ed elabora come materie fisiche, formali ed espressive.
Il supporto in genere non è di grandi misure, bensì ai limiti della pagina o non molto di più. Ed anche se talvolta di grandi misure si tratta pur sempre di una pagina.

Quest’ultima caratteristica giustifica il concetto di scrittura, di grafia e infine di poesia. La scrittura verbo-visiva si legge sulla pagina, o sfogliando più pagine, così come si legge sulla pagina la poesia. La poesia, che peraltro, diversamente dal compatto discorso prosastico, si pone sempre spazialmente e ritmicamente sulla pagina medesima: vedi, esempio principe, Mallarmé.

Ecco, perciò, che la poesia cosiddetta lineare, sotto questo particolare aspetto, non si diversifica dalla poesia visiva. E viceversa. Il gemellaggio tra la poesia lineare e la poesia visiva, riferito alla loro espressiva collocazione sulla pagina trova l’esempio più appropriato nel Sonetto, secondo le classiche tradizionali misure. Il sonetto è infine un oggetto strutturato (direi persino architettonico) e compatto che affronta lo spazio del foglio, al di là dello stesso significato, secondo misure letterali (cioè per lettere e righe o versi, o strofe). Ciò vale ovviamente anche per altre scritture poetiche tradizionali, come la Canzone, il Poema con le sue misurate scansioni, ecc., per non dire inoltre dello spartito musicale, che elabora secondo criteri visivi, di non minore fascino, la comunione fra suono e parola-canto.

Se queste considerazioni formali  si possono ritenere non superficiali (vale a dire di banale superficialità) e non del tutto ovvie, potremmo dire (forse paradossalmente)
che una pagina di poesia per il lettore, ma altresì per lo stesso scrittore-poeta, è sempre formalmente una pagina di scrittura visuale. E, per l’appunto, non si tratta di una caratteristica superficiale ma decisamente di senso (oltre il senso del significato contenutistico): altrimenti non si capirebbe perché, anche nella poesia lineare, si debba andare a capo, fra l’altro anche quando il verso sia libero. Per ragioni di ritmo si dirà, ma il ritmo, come in uno spartito musicale, trova le sue scansioni nello spazio (della voce e, quando scandito in silenzio, della mente).

Non so se si possa accettare questa impostazione formale (poesia verbo-visuale uguale a poesia lineare, e viceversa). Ma personalmente  (e mi scuso per questa, per altro amichevole e discutibile, pretesa) l’idea e la sua concreta, materica, oggettualità assai mi intrigano e mi costringono a chiedermi – oltre la facciata – in che cosa la scrittura poetica - comunque, se mi è concesso, sempre e ovunque verbo-visuale -  trovi appunto il suo senso oltre il senso, per altro sempre ambiguo del significato più o meno ideologico, sentimentale, filosofeggiante e sintattico.

Azzardo una modesta risposta assestandomi sulle dismisure dell’immagine, dello spartito, della voce ancorché silente. Per inciso si può osservare che in termini verbo-visuali - si pensi per es. alla poesia cosiddetta Tecnologica - il suono-voce è sovente visualmente gridato, mentre è sovente più visualmente sommesso nella poesia cosiddetta lineare. Tuttavia non si tratta di una differenza generalizzabile e non limita l’ipotesi d’uguaglianza avanzata.

Il discorso, per questa via, si farebbe troppo lungo e problematico. Perciò mi limito a qualche accenno propositivo e a qualche citazione.

Lo so che posso essere accusato di ovvietà e manierismo se per l’ennesima volta sono costretto a fare un nome forse troppo usurato – tuttavia a mio avviso niente affatto datato in quanto di valenza decisamente fondativa: cito (non me ne vogliate!!) Marcel Duchamp.

E precisamente dagli appunti per il Grande Vetro pubblicati in Italia da A.Bonito Oliva (Lerici 1978) con il titolo Il Mercante del segno, che lo stesso Bonito Oliva definisce ancora “Duchamp il mercante del silenzio”.

Dovrebbero bastare queste definizioni a sostenere la tesi prima proposta, anche se troppo temeraria, in quanto suggeriscono alcuni princìpi-oggetti ai quali ritengo di dovermi comunque ancorare, per la poesia tout-court, lineare o visuale che sia:
il Segno, il Silenzio, la Mercanzia, quest’ultima quale oggetto concreto, misteriosamente (materialisticamente, mentalmente, sensitivamente) tangibile della creatività poetica ed estetica in generale.

Bonito Oliva passa dalla creatività artistica di Duchamp, assolutamente abnorme e squisitamente concettuale rispetto alla tradizione pittorica, alla qualità altrettanto concettuale ed ermetica della scrittura che rileva in particolare nei Morceaux moisis.
Si tratta di aforismi in cui fin dal titolo dominano il non-sense e il gioco di parole, realizzati sulla omofonia nello scambio tra “morceaux  choisis” (brani scelti) e “morceaux moisis” (pezzi marci). E’ il consueto rapporto (sovente ambiguo tanto diffuso nella visual poetry) fra oggetti trovati (ready made seppure in collages tratti da giornali, stampe, ecc.) e analogie verbali talvolta… inconsciamente trovate.

E della poesia, soprattutto contemporanea, ma anche classica, così come delle strutture visuali dei Grande Vetro, va rilevata come in Duchamp la “programmatica incompletezza, l’impronunciabilità, e il frammento come illuminazione, pausa”… e suono inaspettato si manifestino (epifanie) entro il vuoto. Anche tra verso e verso, strofa e strofa. E si può leggere con questa propensione appunto un sonetto, una terzina, un enjambement, una analogia sonora o ritmica… Il tutto, in miscellanea, ripeto, seppur programmata (anche il ricorso al caso è programmabile!), entro le dismisure spaziali della pagina.

Possono valere sia per la poesia ‘lineare’, sia per quella ‘visuale’ detti (duchampiani)
del tipo: in fin dei conti (al di là del significato contenutistico, pur sempre ambiguo) il Grande Vetro (con le sue grafie, come noi potremmo dire per un sonetto o una poesia visiva) non è fatto che per essere guardato con occhi estetici (è questo il senso della energia formale prima - perciò primigenia - del senso strumentale o sentimentale).

Sintesi e parafrasi di altri detti di Duchamp che valgono, ripeto per la poesia lineare (che poi tanto lineare sempre non è), per la visual poetry:

Isolare il segno della concordanza tra pausa (riposo) e scelta  delle possibilità legittimate da leggi occasionate…

Suono continuo (anche, soprattutto, silente) proveniente da diversi punti che forma una scultura sonora duratura…

Necessità della ‘continuità ideale’ secondo la quale ogni raggruppamento di segni e di parole sarà legato agli altri raggruppamenti da un significato formale rigoroso…

La figurazione di un possibile… Il possibile è solo un mordente fisico… che brucia tuttavia, infine, ogni estetica…

Grammatica = come collegare i segni elementari quali le parole e le immagini in gruppi che diventano idee di azione, di essere…

Tra i nostri articoli di chincaglieria pigra raccomandiamo un rubinetto che smetta di sgocciolare quando non lo si ascolta

Questa frase, invece di descrivere l’oggetto come avrebbe fatto un titolo è destinata a portare la mente dello spettatore verso altre regioni verbali (per inciso: procedimento tipico surrealista).

Quando il fumo del tabacco sa anche della bocca che lo esala i due odori si accoppiano per ‘infra-sottile’.

L’infra-sottile non è infine, possiamo dire noi, la misura immisurabile del segno poetico, qualsiasi sia l’oggetto e il suo senso, nella poesia cosiddetta lineare, come nella poesia cosiddetta visuale?

*   *   *

Domenica 6 maggio 2012, h.10,30
“Martino Oberto e l’Anasenso

Il riferimento è al volume “Il segno irraggiungibile” (ed.Mimesis/Carale 2012).
I saggi e, fra gli altri, gli interventi in particolare, di Adriano Accattino, Lorena Giuranna e Raffaele Perrotta hanno messo in rilievo il progetto anascritturale avviato da Martino Oberto fin dal 1955, anticipatore in buona parte delle esperienze dell’Arte gestuale, dell’Action painting, dell’Arte concettuale e della Visual Poetry.

Ad una osservazione del tutto superficiale, se si prescinde da opere in cui la scrittura rimane ancora essenzialmente pittura (per es.“Anafilosofia”, o Philosophieren”…) le opere gestuali in mostra e in catalogo potrebbero apparire semplici schizzi se non addirittura ‘scarabocchi’ (?!). Tuttavia i relatori mettono opportunamente in rilievo il progetto filosofico-scritturale di Oberto, in cui “Ana”, il nome della rivista da lui fondata, sta per privazione, negazione. Per ‘pulizia’ rispetto ad ogni manierismo di pensiero e di attualità. Ma ancora vale di contro per elevazione e pure per retroazione (contro, appunto). Si fa strada l’ipotesi, sulla quale insiste Perrotta, di un’arte non finita (con intenzione filosofica quindi e non per mancanza di tempo), e, vorrei aggiungere, non mai cominciata. Il segno libero (secondo Accattino), fatto, rifatto, cancellato, ridotto, accumulato, elevato e insieme deprivato (Ana) di senso (ma non di sensitività)… senza interruzione di continuità, diviene quindi il segno dell’assenza come illogica presenza materica.

Sottolineo a mia volta i concetti (tanto accarezzati in seguito) di interminabilità, di poema interminabile, perciò di metamorfosi: biologica e cosmologica. La sintesi cosmologica, dell’universo degli universi, macro o micro che siano.

Le singole opere anascritturali, analinguistiche, esposte e in catalogo non vanno perciò osservate singolarmente come quadri o banalmente pitture, o disegni, bensì come eventi appunto cosmologici o biologici, accidentali, di nascite, morti, rinascite. Potremmo dire dal nulla al nulla, dal tutto al tutto. Viene in mente il detto di Meister Eckhart, secondo il quale Dio non ha figura perchè è Nulla rispetto al visibile e all’intelligibile, perché è nella sua presente eterna evoluzione epifanica, al di là di qualsiasi immagine, intelletto, volontà… Dio è colui che è, e basta! Così il segno di Oberto (e di molti altri, nel secondo ‘900, suoi coevi o dopo di lui) è il segno che è, e basta. Nel quale se vogliamo, possiamo farci coinvolgere non solo intellettualmente, ma essenzialmente, metamorficamente e materialisticamente.

Allora questa non è una mostra da guardare, bensì da vivere.

                                                                                                                           Gio Ferri

giovedì 10 maggio 2012

Marco Furia "Le composizioni floreali di Marzia Malli e di Arianna Battistessa"


Il fiore si offre alla vista senza nulla pretendere in cambio: può formare siepi e cespugli, condurre la propria sgargiante esistenza in isolamento, pendere da un ramo e perfino galleggiare.
I gusti di ciascuno di noi, certamente, differiscono, ma, in generale, è davvero difficile pensare a un fiore brutto.
L’arte di comporre fiori conta molti adepti nel mondo e in certi paesi orientali è considerata pratica zen.
Di fronte a tanta fragile bellezza, viene spontaneo esercitare un’attività che è contemporaneamente di cura e di valorizzazione ulteriore: quando la curiosità si trasforma in assiduo interesse e l’attrazione in amore per il bello, allora qualcosa di più entra in gioco.
Una composizione fa mostra di sé in un giardino, in un vaso di coccio, in un elegante contenitore smaltato o trasparente: quel mostrarsi ci colpisce, entra in contatto con noi, provoca sensazioni estetiche e, talvolta, affettive, insomma, come qualunque emozione, ci modifica.
Una modifica che per Marzia Malli e Arianna Battistessa assume un ruolo di grande e duraturo rilievo.
Può, così, nascere un desiderio: quello di comporre con i fiori.
Occorre consentire a un’affascinante pratica di entrare a far parte della propria vita, occorre riconoscerne l’indubbio valore.
Gli aspetti, i pigmenti, i profumi, sono silenziosi, eppure partecipano di una natura prosodica: una buona composizione floreale è anche una sinfonia, poiché il suo espressivo silenzio è, in qualche modo, suono.
Comporre con fiori, intendo dire, è porre in essere un linguaggio in grado di echeggiare in noi: un’indole musicale riesce a mostrarsi proprio in virtù dell’assenza di tratti acustici.
Il durevole tocco di un’intensa e sorprendente pausa sul pentagramma è paragonabile a ciò che si prova nell’ammirare simili composizioni.
Nell’ammirarle soltanto?
Direi, meglio, nel viverle, considerandole una presenza, una raffinata compagnia.
Le forme silenziose talvolta non sono mute e a noi spetta il compito d’imparare ad ascoltarle con assiduo rispetto affinché possano diventare parte integrante di gesti esperti e riguardosi.
La fisionomia dei fiori non è rigida.
La medesima corolla parla in maniera diversa a seconda del luogo in cui si trova e del modo in cui è disposta: col variare degli accenti che cadono sui sericei petali, si modificano le sue valenze espressive.
Vivide valenze di lineamenti definiti che pur costituiscono varco aperto sugli ampi territori dell’ulteriormente possibile, di fisionomie determinate pur sempre memori dell’intima trasformabilità dei propri aspetti, di fattezze espressive mai dimentiche di un’origine flessibile e creativa.
Insomma, una delicata fermezza che emerge, che non esclude nulla senza scadere nell’imperfezione del dettaglio fine a se stesso e sa intonare, con duttile sicurezza, il suo silenzioso canto.
Lo spettacolo offerto è quello di un sobrio sfarzo i cui aspetti vistosi, non attenuati, incontrano il fecondo limite di una vocazione all’equilibrio e alla misura.
Mettere in mostra corolle e petali senza cadere vittime di pur allettanti eccessi costituisce, a mio avviso, la peculiare cifra stilistica del tocco ripetuto e sempre rinnovato di Marzia e Arianna.
Un tocco per effetto del quale ciò che ritorna anche nasce, proprio come accade in primavera allo sbocciare dei fiori.

                                                                                                     Marco Furia
http://www.studioinside.it/

martedì 8 maggio 2012

Flavio Ermini “Il secondo bene” Moretti&Vitali, 2012


Costruito attraverso un indice, che enumera le fasi cronologiche di un percorso destinale, (nascita, cammino, morte) il saggio di Flavio Ermini “Il secondo bene” Moretti&Vitali, 2012, è contemporaneamente costruzione di una cartografia. La necessità di una cartografia indica che è di utopica terra che qui si narra (e vedremo che questo saggio erode il discrimine di irreggimentazione che lo separa dalla letteratura).   L’estraneità con la quale il poeta guarda se stesso e la propria esistenza produce un diverso piano – progettato - che su quello esistenziale si proietta per imporgli la propria mappatura, le proprie direzioni, con un atto irriducibile. La constatazione del dolore e delle aberrazioni con cui la vita  accoglie l’essere umano, (non esclusa la capacità dell’essere umano di essere carnefice del proprio simile) non è accolta in maniera passiva, ma rivolta contro l’esistente. Così l’indice stesso si rivela come una descrizione dell’esistente e al tempo stesso costituisce una messa in atto delle strategie linguistiche che l’uomo può opporre. E ove la resistenza è in se stessa il fine, poiché la dignità umana non deve  piegarsi dinanzi al nulla, anche se deve riconoscerlo.

Sebbene il testo nelle sue pieghe contenga anche una critica all’età contemporanea, alla tecnica, alla politica, alla rimozione della morte, un peso rilevante è assegnato al tempo in quanto compresente nelle sue tre caratterizzazioni di passato, presente e futuro. Qualsiasi cosa che non tenesse in conto la totalità del tempo, la sua compresenza in quanto origine non afferrabile, futuro infinito, presente statico non sarebbe un tempo umano. Siamo, infatti, costituiti per Ermini da un nucleo atemporale.

“La partita esistenziale si svolge sotto un cielo che tutte le storie senza pace include. La sua distesa uniforme ospita pagine spesso indecifrabili di antichi diari e si apre in ferite dalle quali continua a fluire sangue. Degli astri che la solcano non lascia intravedere che le ombre sul terreno”.    

Dolore, unico contrassegno della realtà umana, nasce anche dalla memoria senza la quale non saremmo né potremmo nulla. Ma da questa scrittura poetica esala un incantamento immediato.  Le parole nominano. Non indicano, non fanno balenare vie intraviste per un attimo e subito dopo scomparse. Siamo agli antipodi dell’ermetismo. Di un senso vagheggiato e inutilmente rincorso. Sulla pagina di Flavio Ermini, invece, nessuna verità  che non sia già data. Le cose si possono nominare. Non c’è nulla che non possa essere detto. Si può dire albero o morte e si indica esattamente albero e morte. Nessun mistero, nessuna fuga.  La poesia non arretra, è lì sotto il nostro sguardo. E’ l’autenticità che il poeta instaura quando nomina. Con la sua persona. Sotto l’incidenza del suo angolo esistenziale, come scolpito da Celan. Con il suo impegno personale, etico, esistenziale, il poeta si dona attraverso il linguaggio,  donando la mappa della propria navigazione. Niente di più preciso, esatto. Il poeta ha una presa salda a cui il mondo si assoggetta nonostante il poeta dalla morsa del dolore non possa liberarsi.

“Ma tutto ciò che si fa limpido nelle nostre frasi resta comunque oscuro sulla scena del mondo” perché “Non va confuso lo strumento della speculazione con la struttura della realtà: la logica con l’essere. L’esperienza è irriducibile, nella sua essenza, al concetto”. Privilegiare la sensibilità rispetto all’intelletto sarà un portato del nostro percorso, poiché più conosceremo più perderemo ogni punto di riferimento. L’accettazione di sé come luogo della mancanza, fortifica, rende liberi.

Le “cose somiglianti” chiamano in causa la metafora, la quale trasla il senso da un campo all’altro, ma le cose restano separate, ricadono nell’ambito della metafisica, mentre solo la nominazione garantisce dell’unione, nell’essere umano. di essenza ed essente. E in questo senso ci riallacciamo all’indicazione data all’inizio, quando abbiamo ipotizzato la caduta della separazione tra saggio e poesia, che poi sta per dissoluzione della filosofia nell’ambito della poesia, a cui Heidegger aveva dato il varo. Il trapasso è insensibile, si legge, si ragiona, si sente, si condivide. Il testo di Ermini si snoda fra le pietre di un giardino Zen: tutti abbiamo presente l’immagine della ghiaia in cui un rastrello ha mimato il fluire dell’acqua fra i sassi. Nessuna metafora: l’acqua fluisce fra le montagne realmente in un giardino Zen ove ci sono solo ghiaia e pietre. E’ questo il linguaggio, è questo quello che ci consente. La rappresentazione presa nel suo valore assoluto. Ciò che è fermo e solido sta per ciò che è fluente e in divenire.

Si direbbe che l’immagine è in presa diretta e che sia simbolica. Se cartografia dovesse essere figurale, sarebbe costruita con carte dei tarocchi, l’estraneo, infatti, è una delle figure centrali nel libro di Ermini: “sarà proprio l’estraneo ad assumersi il compito di cercare per il morente la verità” quella che svela che l’apparenza non è l’essere.” L’estraneo simula, certo, finge, ma trae fuori da sé gli inganni, li esibisce”. L’estraneo è la trasformazione, frantuma le regole, spinge verso la molteplicità.  

Il compito terreno dei mortali è per Ermini “tornare al bene che ogni bene supera: il non essere”, il che trae con sé che “dopo il non essere, sia la morte il secondo bene”. E questo testo è per Ermini, “il diario di chi agisce privo di qualsiasi fede e avanza sapendo di non poter eludere il vuoto”, ma anzi vuole affrontarlo in ciascun istante della sua vita.

La parola ha un ruolo centrale poiché essa risiede tra ciò che si sottrae e la sillabazione dell’essere. Nemmeno ad essa può essere associabile l’idea di fondamento: la parola è spola tra due non congiungibili sponde. “La parola è una linea di partenza e una linea d’arrivo”. In queste forbici, l’apertura verso ciò che non ha nome è la stessa che connota l’opera poetica. Prossima alla verità e alla differenza essa, si situa nel prelogico, abbandonando quanto ci è familiare e attraversando l’estraneo. Ma avevamo appena detto che l’estraneo è l’evidenza (svela che l’apparenza non è l’essere). Dal che crediamo di poter dire, seguendo Flavio Ermini,  che ciò che non ha nome è evidente nella parola stessa individuata dall’atto etico per eccellenza: scrittura in cui è la parola che aprendosi alla morte non cessa di esistere.

                                                                              Rosa Pierno

venerdì 4 maggio 2012

Horst Bredekamp ”I coralli di Darwin” Bollati Boringhieri, 2006

L’affascinante libro di Horst Bredekamp  I coralli di Darwin”, Bollati Boringhieri, 2006,  ci guida nei meandri delle relazioni tra immagini e pensiero, ove l’immagine dà corso a un’idea. Bredekamp è uno dei più originali storici dell’arte tedeschi ed è assolutamente interessante seguirlo mentre mostra il modo in cui le immagini – artistiche o meno – entrano nella strumentazione di uno scienziato.  Tema già esplorato da Erwin Panofsky e da Gerald Holton per Galilei, mentre qui, Bredekamp, analizza come un segugio i reperti che Darwin ha avuto a sua disposizione, soprattutto grazie al viaggio intorno al mondo sul brigantino Beagle: fra questi un organismo i cui elementi si biforcano come rametti: l’alga Bossea orbignyana, la quale calcifica mediante le sue secrezioni come i coralli e la cui classificazione oscillò per lungo tempo, appunto, fra corallo e alga. Bredekamp afferma che “il valore della visualizzazione naturalistica è spesso determinato, più che dalla competenza manuale dell’esecutore, dalla sua capacità evocativa sui processi mentali”. E il saggio, costruito dallo storico dell’arte, nasce da un’attenzione portata “al marginale e al latente, lungo una linea che precorre la moderna psicanalisi e che ha trovato nella criminologia del XIX secolo il suo parallelo più stretto”. Rimandiamo per un approfondimento al saggio di Ginzburg su Morelli nel libro ”Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia”, Einaudi, 1986, nel quale si parla del metodo di ricerca indiziaria applicato alle opere d’arte.
Con una collezione di tavole che coinvolgono anche immagini medioevali, e che funzionano da atlante di warburgheriana memoria, Bredekamp ci mostra come Darwin facesse costantemente uso di metafore visive  e verbali per condensare le sue idee: “Gli esseri organizzati rappresentano un albero. Ramificati in modo irregolare, alcuni rami molto più ramificati”. L’uso di linee punteggiate derivava dai grafici di Lamark e insieme ai rametti furono il mezzo grafico che Darwin utilizzò per la rappresentazione delle sue riflessioni. Per la prima volta, l’evoluzione naturale possedeva una forma visiva e, diversamente dai tradizionali modelli dell’albero della vita e dell’albero della natura,  essi non rappresentavano un progetto dato, ma un processo che si sviluppa nel tempo. Vitaliano Donati aveva previsto come alternativa alle rappresentazioni a scala e ad albero, il modello della rete. Darwin privilegiò il corallo come modello, “poiché questo con i suoi tronchi atrofizzati, che potevano essere considerati come fossili delle specie estinte, e le sue ramificazioni divergenti, poteva offrire una immagine più adeguata” del modello ad albero di Lamark; le sue ramificazioni, inoltre, proliferavano non solo verso l’alto, ma in tutte le direzioni. Inoltre, la struttura del corallo corrispondeva anche alla “doppia definizione darwiniana di legge e caso, le opposte forze che il naturalista inglese vedeva agire nell’infinito riprodursi di completezza e suddivisione delle forme”.

Bredekamp racconta il dibattito infuocato che s’incentrò sulla lotta ingaggiata in quegli anni fra gli scienziati contro i tentativi di ingabbiare gli ordini naturali in metafore quali la catena, il cerchio, la rete, e che vide in Hugh E. Strickland il più agguerrito assertore per la difesa della varietà presente in natura.  “Questa varietà naturale, opposta a tutte le leggi dell’arte, si ritrova nella tradizione della Analysis of Beauty (1753) di William Hogarth”, il quale aveva fatto dell’infinita molteplicità di forme l’insegna concettuale di una battagli anticlassica. L’accurata disamina del dibattito attraverso le immagini mostra quanto proprio intorno a esse si sferrasse la battaglia più importante: schemi e disegni che nell’arco di dieci anni vennero assumendo forme sempre più complesse in relazione alle varianti della teoria evoluzionistica. 

Bredekamp mette in evidenza come la figura non sia un derivato o un’illustrazione, ma il supporto attivo del processo di pensiero, in cui “il concetto non si potrebbe cogliere senza l’immagine, e il commento all’immagine permette una precisione analitica che la materia prima naturale, nella sua incontenibile varietà non consente”.
Lo storico dell’arte, percorrendo la storia della scienza fino ai nostri giorni, indica la storia dell’arte e la biologia come le due scienze che nel corso dei secoli si sono sistematicamente avvicinate. “L’essere umano vive attraverso immagini che rappresentano sfere diverse da quelle del linguaggio” racchiudendo pensieri in cui i confini del linguaggio discorsivo misurano la loro portata: problema centrale per una teoria critica della conoscenza.

                                                                     Rosa Pierno