“MIRA”, ti sussurrava uno di loro. E tu anagrammavi “ARMI”.
Ma era armato il tuo occhio, o in disarmo la sua mira?
Un vigile
disarmo, chiarori d’alba sospesi.
Qualcuno varca
il cancello, col senso di colpa nascosto
sotto le palpebre.
Non saprà di
averlo varcato, siccome il cancello è cancellazione, sfaglio di presenze. Nemmeno una frontiera, il suo cigolare è tra i carboni
bianchi di uno spazio illimite. “Entrare e uscire, una sola cosa”, dice. Porta
negli occhi metallo stracciato.
Il passaggio,
se avviene, è verso luoghi dove ogni testimonianza si riduce ad attriti
minimali, vicenda di un nulla imperfetto.
Un vibrare,
allora? Ma per quale punto generante, per quale tardivo erompere della materia?
Prevalgono
emulsioni, creme lattee colate da sequenze di iridi che, infittitesi ormai,
misconoscono l’ebbrezza dell’inoculazione.
Punteggiature
d’insetti vibrano, è vero, nel reciproco compiacersi. E tuttavia creano
stalli, attratte dai teleri del fosco. Polverina che rimane sulle
ciglia.
Lanciano occhiate,
i luoghi, simili a quelle dei fiori che stanno per esaurire il loro viatico.
Spandono pannelli di immagini fuggitive, che appena insorte si fondono in gocce
lunghe, pendenze speculari.
Navicelle
cromatiche nel vento. Ne rimane l’ambiguo arcobaleno, il vagabondare entro
festoni di paesaggio in divenire, per un osteso succedersi di fiati e umori.
Qualcosa che ha
a che vedere con la magia: il vedere dei morti. Armato, in disarmo.
Qualcuno varca
il cancello, un’ipotesi. Volti trapassati, maschere algide prese da un gioco che soltanto
loro padroneggiano.
Hanno occhiaie
riverse nel notturno, concavità impregnate di aglio passo, sgomento. Risibili
astuzie per scansare figure armate, incombenti piaghe.
E in
quell’oscuro s’indovinano transiti, promesse di profondità ignote, visioni che bruciano ovvietà.
Volti scaturiti
da terre vischiose, o ricoperti di pellicole e piume, e che talora lingueggiano
come memorie ondulanti. Il pensiero li caccia, li dispensa.
Sembrano fare a
meno di profili e margini, quasi a difesa dell’imponderabile. Emanazioni, vien da dire, del corpo vitale e
amoroso d’un tempo, adesso affidato all’intermittenza del visibile. Simulacri, entità
che in ogni modo non divorzieranno dalla luce. Ectoplasmi fotografici.
“Una sorta di piccolo simulacro emesso
dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa
parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa
vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. (Roland
Barthes)
Facce
puntellate da lampade, votive gibigianne. Carnee trasparenze applicate a marmi
concavi, rientrati. I seni posticci della vista? Il retrattile artificio di
un’ovulazione?
Nulla supporre.
L’Altro si limita a svolgere il suo corpo etereo, affidandone minuti fiocchi a pedine
che scivoleranno su liquide scacchiere di riflessi.
Sguardi
moltiplicati, l’infinitezza di un unico sguardo diffuso. Poiché l’occhio del
morto si dilata, crea aloni e luminelli che si propagano alle cose d’intorno, e
nel contempo conquista a sé la loro onnivora superficie riverberante.
A ore alterne,
nelle periferie del viso s’installa un porticato, un campanile, perfino il
cancello che ancora rimugina, entro reticoli violagrigio, l’enigma della vita.
La vita in collusione con la morte.
Memorie, leggende
di rivisitazioni. Candelabri per fiamme smozzicate. Prisco cenobio espelle opalescenze,
velature.
Uno spicchio di
cielo fa breccia nella testa, un’infilata di colonne risucchia nella sua
prospettiva la mente assopita. Dove l’antica
peste del tempo depone una guaina: lamento di macchie, l’involversi della
bellezza.
Il tranquillo
fluire e rifluire di larve, rese iridescenti dalla contiguità, disegna
l’interfaccia tra il qui e i panneggi che avvolgono il lontano.
Panneggi che
spingono ai margini il volto defunto, e allo stesso tempo ne fanno il loro
complemento più prezioso.
Cancelli
fluenti, emblemi di quel nulla imperfetto intorno al quale la vista inventa i
suoi anagrammi. Armeranno, per commutabili prove, il vuoto.
Gilberto Isella
Il testo, in altra versione, è apparso in
“Ticinosette” 44, 30.10.15
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