lunedì 9 novembre 2015

Gilberto Isella “Da un nulla imperfetto, lo sguardo”. Fotografie di Daria Caverzasio


“MIRA”, ti sussurrava uno di loro. E tu anagrammavi “ARMI”.
Ma era armato il tuo occhio, o in disarmo la sua mira?

Un vigile disarmo,  chiarori d’alba sospesi.
Qualcuno varca il cancello, col senso  di colpa nascosto sotto le palpebre.
Non saprà di averlo varcato, siccome il cancello è cancellazione, sfaglio di  presenze. Nemmeno una  frontiera, il suo cigolare è tra i carboni bianchi di uno spazio illimite. “Entrare e uscire, una sola cosa”, dice. Porta negli occhi metallo stracciato.

Il passaggio, se avviene, è verso luoghi dove ogni testimonianza si riduce ad attriti minimali, vicenda di un nulla imperfetto.
Un vibrare, allora? Ma per quale punto generante, per quale tardivo erompere della materia?
Prevalgono emulsioni, creme lattee colate da sequenze di iridi che, infittitesi ormai, misconoscono l’ebbrezza dell’inoculazione.
Punteggiature d’insetti vibrano, è vero, nel reciproco compiacersi.  E tuttavia  creano  stalli, attratte dai teleri del fosco. Polverina che rimane sulle ciglia.

Lanciano occhiate, i luoghi, simili a quelle dei fiori che stanno per esaurire il loro viatico. Spandono pannelli di immagini fuggitive, che appena insorte si fondono in gocce lunghe, pendenze speculari.
Navicelle cromatiche nel vento. Ne rimane l’ambiguo arcobaleno, il vagabondare entro festoni di paesaggio in divenire, per un osteso succedersi di  fiati e umori.
Qualcosa che ha a che vedere con la magia: il vedere dei morti. Armato, in disarmo.

Qualcuno varca il cancello, un’ipotesi. Volti trapassati,  maschere algide prese da un gioco che soltanto loro padroneggiano.
Hanno occhiaie riverse nel notturno, concavità impregnate di aglio passo, sgomento. Risibili astuzie per scansare figure armate, incombenti piaghe.
E in quell’oscuro s’indovinano transiti,  promesse di profondità ignote,  visioni che bruciano ovvietà.

Volti scaturiti da terre vischiose, o ricoperti di pellicole e piume, e che talora lingueggiano come memorie ondulanti. Il pensiero li caccia, li dispensa.
Sembrano fare a meno di profili e margini, quasi a difesa dell’imponderabile.  Emanazioni, vien da dire, del corpo vitale e amoroso d’un tempo, adesso affidato all’intermittenza del visibile. Simulacri, entità che in ogni modo non divorzieranno dalla luce. Ectoplasmi fotografici.

 “Una sorta di piccolo simulacro emesso dall’oggetto, che io chiamerei volentieri lo Spectrum della Fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. (Roland Barthes)

Facce puntellate da lampade, votive gibigianne. Carnee trasparenze applicate a marmi concavi, rientrati. I seni posticci della vista? Il retrattile artificio di un’ovulazione?
Nulla supporre. L’Altro si limita a svolgere il suo corpo etereo, affidandone minuti fiocchi a pedine che scivoleranno su liquide scacchiere di riflessi.
Sguardi moltiplicati, l’infinitezza di un unico sguardo diffuso. Poiché l’occhio del morto si dilata, crea aloni e luminelli che si propagano alle cose d’intorno, e nel contempo conquista a sé la loro onnivora superficie riverberante.

A ore alterne, nelle periferie del viso s’installa un porticato, un campanile, perfino il cancello che ancora rimugina, entro reticoli violagrigio, l’enigma della vita. La vita in collusione con la morte.
Memorie, leggende di rivisitazioni. Candelabri per fiamme smozzicate. Prisco cenobio espelle opalescenze, velature.

Uno spicchio di cielo fa breccia nella testa, un’infilata di colonne risucchia nella sua prospettiva la mente  assopita. Dove l’antica peste del tempo depone una guaina: lamento di macchie, l’involversi della bellezza.

Il tranquillo fluire e rifluire di larve, rese iridescenti dalla contiguità, disegna l’interfaccia tra il qui e i panneggi che  avvolgono il lontano.
Panneggi che spingono ai margini il volto defunto, e allo stesso tempo ne fanno il loro complemento più prezioso.
Cancelli fluenti, emblemi di quel nulla imperfetto intorno al quale la vista inventa i suoi anagrammi. Armeranno, per commutabili prove, il vuoto.

                                                                Gilberto Isella





 Il testo, in altra versione, è apparso in “Ticinosette” 44, 30.10.15   

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