mercoledì 20 settembre 2023

Maristella Diotaiuti “.come cosa viva”, Terra d’Ulivi edizioni, Lecce, 2021



Primo libro di poesie di un autore già maturo, “.come cosa viva” di Maristella Diotaiuti, Terra d’Ulivi edizioni, Lecce, 2021, mostra una forza visionaria che non lascia mai la presa e, trascorrendo da un ambito all’altro dello scibile e della percezione sensoriale, lascia intendere che la realtà è già stata liquidata da un giudizio. Non si deve, tuttavia, credere che sia in atto una negazione del reale a spianare la via all’immaginario, bensì è dalla natura che quest’ultimo prende il volo, recidendo solo apparentemente il proprio cordone ombelicale e mostrandosi sganciato dal referente solo per una prospettiva parziale. Ma c’è un asse portante rispetto al quale si svolge a raggiera la ricerca di Diotaiuti; esso riguarda il nucleo più insidioso di un’altra questione, forse prioritaria: i rapporti tra emotività e razionalità, relazione da cui non ci si può congedare nemmeno temporaneamente, scegliendo l’uno o l’altro termine della coppia dicotomica. Per questo nulla è da tralasciare: “(quello che crediamo di non aver sentito di non aver capito / di aver perduto) / addirittura un fruscio un'eco / a volte anche meno: un attimo di vuoto” sono l’incatramato nodo da non doversi sciogliere. Percezione e pensiero sono già attivi, nascono insieme. E ci consentono di vedere persino dove l’occhio non giunge.

Collegare il proprio corpo al cosmo, mettere a confronto la propria misura e la  dismisura dell’universo è l’atto susseguente che determina la necessità di andare a studiare una seconda relazione contraddittoria: micro e macro mondo. Nella disamina di tali relazioni,  lo strumento linguistico gioca un ruolo ambiguo. Le parole sono cerniere che se, da una parte, sembrano poggiare su un fondamento, dall’altra, paiono aprirsi su uno sprofondo: cosmo-melograno e disgranata nudità di spazio. La dispersione diviene aspersione. La simmetria che si conosce e che non si conosce veramente: 


ma questo cosmo questo cosmo geometrico e a rimbalzi allegoria d'altro o segnale questo cosmo dove ogni cosa tiene l'altra di coincidenza in coincidenza in una stessa grammatica d'immagini e figure passa una carezza dolce gioco della lontananza del richiamo compiuto un gesto possiede la bellezza di chi è sospeso in un'età aperta ad ogni forma la morbidezza o i muscoli la smisura del tempo la sua profondità la sua scansione questo cosmo melograna disgranata nudità di spazio visibile e i passi un ritmo di passi come fosse mantice questo cosmo dispersione di passi aspersione di seme un troppo per cui non abbiamo misura vorrei insegnarti la simmetria vorrei aver imparato la simmetria


Si apre all’improvviso uno scenario tessile: la spola che ritorna indietro, disfacendo il lavoro. La scrittrice è una Penelope all’opera. Da luoghi impossibili, come “il centro del centro” che inanella sia Apollo alla tartaruga irraggiungibile sia il taccuino che si svuota mentre l’autrice narra: la torre di Babele si erge, mentre si inabissa. Splendido spettacolo dovuto alla “passione dei riflessi”. Anche la pazienza e l’impazienza degli anni, ciò che è desiderabile mentre sembra insopportabile, vanno a costituire una collezione di luoghi-eventi, i quali, nonostante l’annunciata paradossalità, sembrano di fatto verificarsi nell’esistenza come luoghi comuni, appartenenti alla percezione di ciascuno. Il tempo non si palesa né come funzione lineare né circolare. Presiede il presente e l’immutabile, sorta di cannocchiale che si allunga o si accorcia rimpicciolendo o ingrandendo il campo visivo. Quel che conta è il tempo che ciascuno sceglie per sé, il tempo sentito, il tempo dell’esistere a cui abbandonarsi. 


sempre intorno alle cose un'ombra viva

quel segno che ti fa capire nel rombo del tempo nerazzurro chimico modi diversi allusivi del tutto-accaduto-una-volta-per-sempre

solo il mondo è diverso ostinarsi

ma-più-mai-più uno di quei giorni di prima uno solo ritroverai per caso una mattina sopra uno scoglio correndo sul cielo aperto

piccoli azzurri struggenti guardano

fanne un mistero se vuoi ma-vivi


vivi-se-ti-va-vivi

muta-le-cose-mute-per te


come fa che ogni tanto scompare sai che è partito e quando ritorna una tenerezza

un odoretepore di uccellino

adesso ricordo dove


Se occorre segnalare che il tempo scandisce, lascia segni, centellina e procrastina, impone e devia, è immobile e scolpito nel presente, altrettanto importante è sottolineare che tali segni non devono trarre in inganno, giacché il tempo è un’idea logora, quanto fuori posto; segna un giogo sotto cui non si deve necessariamente passare. La mente, in quanto coacervo di sensazioni-pensieri, è anche qualcosa attraverso cui risalire o discendere. Un cambio di scala è sufficiente a consentire, infatti, di “avere tra . le braccia una nuvola una . piccola nuvola di polvere da portare. in dote tanti piccoli dettagli di incantevole lindore in cui dare e . ricevere sono . una cosa sola”. Il tempo è nondimeno essenziale nella costruzione del verso di Diotaiuti in quanto la poetessa scandisce gli spazi con una punteggiatura che presenta diverse posizioni, quasi un battere e levare nello spazio vuoto tra le proposizioni. È come un pulsare ritmico, corporeo, che funge da ripetizione di quel pulsare cosmico che Maristella ha inteso mettere in evidenza anche concettualmente. Ciò vale per le parole che si susseguono in maniera concatenata: “etiamoperchènonmelodici”, “ unosolo”, “petalichecadono”,  “nell'umanamisura” dove l’unione dei vocaboli rinserra lo spazio-tempo in un punto inesteso.


Che dietro codesta scrittura poetica non si celi anche una metapoesia è innegabile. Stante la critica di una scrittura poetica che mentre sfavilla, vacilla, lasciando intravedere gli egocentrici ‘io’ che tessono in versi la propria disfatta umana, deve comunque intendersi che la poesia è irrinunciabile, presa che sia assieme al suo ciarpame e alle sue pecche. Se le poesie si presentano come “tensostrutture” che attestano di una “realtà carnevale”, pure “l’osso della parola” ancora testimonia di “un’anima in dismissione”. Ossia, è in grado di tradurre per l’altro la propria condizione umana. Pertanto, anche se la poesia oggi sembra merce, anche se non c’è un pubblico,  anche se sembra ruminata da innumerevoli poeti, tuttavia, la poesia continua ad avere un ruolo ineludibile:


“a mezzanotte zero uno una navicella cella di nave e vento in crostazione d'inchiostro sul cuscino il mutarsi della vita con l'artificio con la punta dell'assillo in gola un fluido incanto di luce pesta


un canto appestato d'occasione in forma chiusa per la chiusa

autenticare l'inautentico ancora la prova estrema con il punto a dare una pausa che non puoi contenere il sipario che cala sull'io poetico nell'infinito chiuso come riparo”.


Una versificazione, quella di Diotaiuti, che, dunque, senza timore di ritornare sui propri passi e da lì deviare, intende con insistenza percorrere tutti i gangli della rete, rendendo conto di una complessità che da sola vale come risposta. Niente esiste senza avere una doppia valenza, un doppio peso, un doppio sembiante. Bisogna stringere entrambi fra le mani. Allora, aprendole si vedrà il tesoro. Nulla lasciando scorrere tra le dita.


Rosa Pierno


lunedì 4 settembre 2023

Marco Molinari “Come per una stagione breve”, MC edizioni, Milano, 2020

 


Una poesia visionaria che si coglie fin dai primi versi della silloge di Marco Molinari, Come per una stagione breve, MC edizioni, Milano, 2020.  Il poeta parte dalla natura, dagli oggetti, dai paesaggi, dagli astri e, però, nessun elemento reale resta intonso; tutto viene stravolto, trasportato in un luogo artefatto, mitizzato al fine di poter essere utilizzato come declinazione del divino. Certamente, la realtà tutta è sottoposta a un processo di metamorfosi di cui il poeta è l’artefice, ma, contemporaneamente, è anche il manovrato burattino. Kafkiano sogno o diurna visione, poco importa. La domanda  cogente sembra essere la seguente: può la realtà consentire all’essere umano di slanciarsi in un mondo altro? Sembrerebbe di no, poiché è il linguaggio  ad avere un ruolo ineludibile in codesto processo e per questo ogni afasia è cancellata dalla poesia di Molinari. La parola, astratta per definizione, si volge in spirituale, ossia si svolge in un luogo diverso da quello esistenziale; una dimensione cerebrale, ove le cose sono divenute simboli e il senso è univoco, ha una sola direzione: misterica. L’individuo vive in solitudine e si dirige, fuggendo dal noto, intenzionalmente verso l’ignoto.


Quella di Molinari è una poesia avente come fine una cruda appassionata aderenza al proprio compito etico, che è in qualche modo quello di sorpassare la gabbia percettiva del reale e tentare si scorgere l’oltre. Il primo passo da compiere è quello di considerare la realtà in maniera diversa. Il presente non è attaccato a un appendiabiti per essere dismesso. Esso contiene in sé, senza alcuna distanza, il passato; anzi, quest’ultimo, oggetto mentale, è una causa al pari di un’altra, cosicché Socrate è reale quanto la discoteca Piccadilly: entrambi assicurano lo sviluppo razionale del discorso, spiegano come sono andate le cose nell’esistenza del poeta. È grazie a questa strategia che la visione inizia a virare, ad acquisire un senso nient’affatto ermetico o contraddittorio. Si entra in un amplesso di rovine e ci si ritrova in un roseto. Brani di realtà ci vengono incontro in forma trascesa. Il ruolo della metafora è fondamentale per questo cambio di passo. La visione di Molinari è sempre pittorica:


Per sere e sere instancabile, modulò

il profilo retrattile, sfiorando vento e nebbie

con un segnale pilota, immutabile

col suo occhio di pesce asciutto

fino alla totale anemia.


È una poesia che ridisegna i connotati delle cose e non si preoccupa di togliere gravità, né di apporre pesi. Le trasformazioni non sono soggette a regole, non sono né geometriche né legate allo sviluppo logico dei significati, visto che questi ultimi non sono oggetto di indagine filosofica, ma poetica. Siamo con Molinari nei pressi dell’origine della poesia: intesa come ispirazione divina. È una poesia che non si cura della materia. La immagina. È per questo che la natura si anima di corrispondenze, ove ogni apparenza rinvia a un oltre, sicché simbolismo ed ermetismo si sostengono l’un con l’altro in questo prolifico terreno di coltura. Effetti di vertigine si propagano dall’oscurità: le apparenze sono particolarmente instabili, sprofondano nel terreno, e gli accostamenti sono aleatori e provocatori. Le poesie di Marco Molinari risultano perciò crude, acri e stridenti: non mescidano i contrari fino a creare una salsa insipida. L’intensità dei dettagli oggettivi giunge a sfiorare l’allucinazione e tiene distinte le fasi che si succedono rapidamente: esse vengono osservate come in un cannocchiale a rovescio, mentre si è su un battello azzannato dalla tempesta.


Il manipolo di barboni incredulo

s’inchina al rito come a un semidio

e travisa il piattino e la panchina

per bussole e altari, e poi la maledice, 

qualsiasi alba di qualsiasi mondo

(anche la prima, la pura l’alba senza croce)

perché porta con sé la partenza, 

la partenza in salita, la bifida.


Nessun aspetto può essere tralasciato, ogni cosa, nella sua complessità, va issata e caricata sulle spalle. La vita come un cammino di crocifissione e, in ogni caso, di salvezza, ma come già prestabilita. Lo scorrere del tempo non serve a nulla, se vi sono cose già approvate prima di nascere. Lo sguardo sembrerebbe allora essere cieco. Il poeta guarda sapendo, ma senza vedere; conoscerebbe tutto, se non ci fossero continue interruzioni nel racconto: “Quando fra un secolo tornerà / in queste lande dirimpetto al cielo / crescerà l’orzo selvatico / a grappoli sulle tombe”. Morire è ritornare, in tutti i sensi possibili. La parola deve aprirsi a una razionalità avulsa dalle concatenazioni reali. Anche il corpo si situa oltre ogni delusione: “bianco, fossile, senza spine / intriso di polline come l’ape regina”. Il tempo non progredisce:


La parola rigira stasera

sulla punta del dardo

nel secco battente di un confine:

tocca la consolazione

nella cattività del gesto disumano

scritto a secco dentro un futuro immobile.


Se da una parte si avverte la necessità di evadere dall’attesa; dall’altra, ogni giorno appare “senza speranza”. Non è un bilanciamento simmetrico, giacché attesa ha un diverso peso semantico in confronto all’essere senza speranza. Si profilano vie di fuga rispetto alle quali è la capacità visionaria lo strumento più utile. Le vie di fuga, pur sembrando coincidere in alcuni versi con la morte, sono  subito rilanciate con un “prima del risveglio”.

La natura appare come un ricettacolo di presagi, per chi la sa osservare con l’occhio della mente. Non si tratta di non essere nuovo a un paesaggio, di avere, ad esempio, frequentato la foce del Mincio, quanto di guardare in sé attraverso le gradazioni millimetriche dei riflessi dell’acqua. Guardare in sé per oltrepassare ciò che è fisico. Tutto ciò che vediamo non ci fa vedere bene: “davanti ai nostri occhi, / incatenati e miopi, / il rospo azzanna la libellula / nelle maree dello stagno”. Iperboli restituiscono la sensazione di non finitezza. Tale è l’oggetto del resoconto di Marco Molinari: una dismisura che procede dalla finitezza.


Rosa Pierno



domenica 16 luglio 2023

Luciana Bianchera “Il minuto rotondo”, Gilgamesh edizioni, Mantova 2023

 


Il tempo, nel secondo libro di poesie di Luciana Bianchera, Il minuto rotondo, Gilgamesh edizioni, Mantova 2023, sembrerebbe il convitato principale, ma è presto scalzato dall’entità contrapposta, rendendo tutto presente: l’eterno. Due concetti: uno rappresentabile e l’altro no. Certamente, nell’eternità il concetto di tempo perde senso, mentre il tempo percepito richiede di essere declinato non solo in senso psicologico, ma addirittura in maniera creativa, al fine di essere trasformato in tempo proprio, vissuto, incorporato, non solo fisicamente, dunque, ma soprattutto mentalmente. Esso diviene un contenitore in cui riporre ciò che è prezioso: “Ogni vuoto avrà la tua forma. / Un armadio, una stanza / un appuntamento mancato”.

Anche la morte ha a che fare con una relazione paradossale e richiede uno sforzo di comprensione, un’elaborazione. Sapere che ineluttabilmente accadrà, dà modo di abituarsi alla sua presenza. Restituirà agli essere umani quello che nessuna vacanza o sonno potrà concedere. In fondo, sottrarrà la coscienza. Dunque, più che lo scorrere del tempo, limato e lustrato da Bianchera fino a che i suoi minuti non appaiano tondi e levigati come sassi con cui dilettarsi, è la coscienza a dovere essere elaborata, a risaltare quale vera protagonista del proprio rapporto col tempo. Ma anche la morte sembra avere una misura: non la si può valutare se non in rapporto alla vita. Vi è una circolarità evidente che trapassa tra concetti che solo apparentemente sembrano opporsi, fino a rendere ambigui i significati delle singole parole. Vivere non è facile, eppure, è possibile affrontare la vita in innumerevoli modi. Ad esempio, dover sottostare al proprio imperioso desiderio di avere un costume verde e arancio, in età adolescenziale, come fosse tutto ciò che si può desiderare. Per fortuna, a quell’età si è incoscienti; si può procedere a vele spiegate. Ecco, che allora si apre una via dialettica tra i vari gradi di consapevolezza che siamo in grado di raggiungere. Di sicuro, ogni passo esistenziale non è una conquista definitiva. Contraddizioni e pentimenti sagomano il percorso, rendendo parziale la visibilità di un contesto maggiormente ampio. Ma anche lo sdoppiamento rende traballante il visto: in agguato ci sono i doppi sensi. Un simbolo, difatti, può assumere tanti significati. Tutto è arbitrario, a meno di non infondere il proprio sentimento: sembrerà, e già solo per questo, che gli altri significati possano essere abbandonati; è sufficiente che se ne trattenga solo uno: quello che riconosciamo come vero. Cosicché la verità si mostra come funzione di un investimento emozionale. Infatti, quando “le cose / sono solo / quel che sono” rappresentano un vuoto, una perdita. Si configura, in maniera pressante, nelle poesie di Luciana Bianchera, il desiderio di collezionare istanti rapinosi, sensazioni erotiche o travolgenti, che scandiscono, queste sì, altro che il tempo, le peripezie esistenziali: “Quei minuti di luce guadagnati / a gennaio / quando tutto sembrava perduto”. Anche l’affetto verso i propri cari è una conquista e grava sull’assunzione di senso che la poetessa deve attivare. Gli altri, così come la natura, devono essere inglobati in sé e reinvestiti di senso.

Cadono, così, quelle barriere tra la vita e la morte che generalmente si considerano fisse, cementate da rigide visioni, stoltamente inamovibili. “Forse, / nella luce / tornerai”. È ancora la mente che disfa e ritesse. Le soglie si assottigliano fino a scomparire, a divenire inessenziali. Non è forse nella nostra mente che risiedono i nostri cari? E più che “abitare la terra”, per dirla con Heidegger, si potrebbe chiosare codesto ragionamento con “abitare la mente”,  affermazione che stringe tutto in una sola mano. Non per togliere peso alla realtà, ma per indicare il lavorìo che effettuiamo sui dati reali. Morte e vita non sono meramente opposti, si integrano, si completano. La poesia scosta il velo: “induce la trasgressione”. I rifiuti divengono accordi. È con la poesia che  si frequentano luoghi impossibili, persone scomparse, che si accorda la propria persona con la totalità.

La morte “abita i nostri anni / compagna insinuante. / Talvolta la notte / qualcuno riappare / è dissolvenza”.  Reale e mentale, allo stesso modo di vita e morte, non sono scindibili. Chiedere quanto resti della propria vita è domanda retorica, eppure domanda propositiva al tempo stesso. Non è un moto che coinvolga solo le persone, ma anche gli oggetti, i luoghi: la propria casa, Parigi, Venezia, Avignone, la Spagna: “L’anima è il luogo / dei luoghi”, completamente “tessuta d’immagini”. Si cerca un “posto / sull’orlo della sedia”. E quella sedia sembra essere il linguaggio, il quale fa “comprendere il tempo / che ci è dato”.

Vivere allora sarà un tessere e un disfare dove la spola è la parola.


Sogni, stranieri


Ferma immobile 

afferro i sogni della notte.

Espansi

densi di stupore

e tempo arrotolato. 

Enigmi foresti

più intimi di quanto io possa vedere.

Sto immobile 

guardo in questo scrigno di poesia.

Stupefatta di me stessa 

e delle architetture 

che a mia insaputa

disegno

e cancello

ogni notte

con perizia.


sabato 1 luglio 2023

Pierluigi Isola “Terre d’ombra”, Galleria Falteri, Firenze, 2007

 


Le opere di Pierluigi Isola appartengono alla tradizione pittorica che da Poussin e dai vedutisti ottocenteschi giunge a permeare una parte, esigua ma significativa, della pittura nel primo Novecento. Piero Guccione, suo insegnante al liceo artistico, scrive che l’arte, pur essendo finzione, eleva il suo regno d’ambiguità al realismo fattuale di ogni sperimentazione che nell’arte, appunto, si compie. Appare importante sottolineare che Isola inserisce nella sua pittura elementi che rendono tali verifiche iperboliche. Nell’opera Pomeriggio a piazza Cavour (olio su tela, 2006), la dorata luce pomeridiana avvolge gli ultimi piani di un palazzo ottocentesco, le strisce pedonali ripetono astrattamente l’ordinamento ritmico delle colonne della facciata, mentre una lingua di sole illumina parzialmente il fondo stradale di bruto asfalto e l’ombra vi disegna una enigmatica porta che si apre. Non passa nessuno per la via. Forse un pomeriggio d’estate o la citazione di una caratteristica della pittura metafisica. La scena rappresentata è quella di una città museo, visto che sulla parete del palazzo d’angolo si può ammirare un quadro quattrocentesco che rappresenta San Sebastiano. Il quadro attinge a luoghi mnemonici, sorta di caselle ove sono posizionati i tesori che non debbono andare dispersi. Ma la memoria convoca imperiosamente altre immagini in relazioni a quelle indicate; esse vengono suscitate provocando un affollamento visivo. La Sinagoga vista dal Campidoglio (tecnica mista su carta, 2006) non può essere disgiunta dal ricordo delle opere di Corot o Valenciennes. Ciò non accade a cagione di un immagine che, anziché essere prelevata dal vero, è tratta da un repertorio figurativo precedente, dacché sono stati espulsi tutti gli elementi che connotano oramai le città moderne (dalle antenne ai fili elettrici). Persiste quel timbro di luce che s’indora vieppiù sulle pietre tufacee: nella suddetta opera è Jones il nuovo invitato e la luce è quella eterna di Roma. Vera sempre, non modificabile, ma qui come presa all’amo e deposta con mille cautele ed attenzioni sul foglio. È quel che accade anche in Verso il tramonto sulla strada del Sasso (tecnica mista su carta, 2006), quando la mente, nell’osservare l’opera, viene attraversata dai colori e dalle forme di Giotto, del Perugino, fino a infilzare i paesaggisti inglesi della fine dell’Ottocento. Dove sarà intervenuto il cambiamento e, soprattutto, ce n’è davvero bisogno? Non sarà che quell’idea invasiva dei romantici, della novità come esigenza indeponibile in arte, abbia guastato e distrutto la possibilità del lento evolversi delle forme espressive? Fare un passo indietro offre, in questo caso, una maggiore visibilità: l’orizzonte appare curvo, non troppo prossimo e limitato. Ciò detto, Pierluigi Isola non è uomo che non ami i contrasti. Il catalogo della mostra Terre d’ombra, Galleria Falteri, Firenze, 2007, è interessante anche perché riporta alcune considerazioni dell’artista; ad esempio, quelle riguardanti la lotta tra luce e oscurità, ove l’estenuarsi del giorno rende massimamente intenso l’azzurro del cielo o il colore delle cose, ritardando l’avvento dell’oscurità. Il catalogo, che si dipana tra opere e annotazioni dell’artista, riporta alla mente il testo di Cozen sullo studio degli effetti luminosi e delle macchie; tuttavia, nei quadri di Isola, il cielo è sempre sereno, le masse sono portentose, hanno il peso dei macigni, pur trovando una miracolosa compensazione negli inserti geometrici, nei poligoni regolari che la luce disegna. Si vedano, a tal proposito, Pini a Ostia Antica (olio su tavola, 2006) e Lungotevere in Augusta (olio su tavola, 2007). Isola non trascura la composizione né gli oggetti rappresentati; certamente li fa colloquiare con astrazioni geometriche che lanciano l’opera verso destini speculativi. Ciò nonostante, l’artista apre un contenzioso tra elemento naturale ed elemento geometrico, nel quale la loro differenza si assottiglia. L’asserzione che in natura non si dà linea o punto o cerchio viene fatta traballare, viene scossa. La predilezione espressa è quella di una prossimità della natura e della geometria che, a tratti, si riduce fino alla coincidenza. La mente umana  trasforma il dato naturale, astraendo. Si tratta di una natura che senza l’uomo non sarebbe rappresentata e, certamente, la natura come la conosciamo è il risultato di un’elaborazione mentale, ma nell’arte si tratta anche sempre di una formalizzazione che presenta molteplici livelli di senso. Nel disegno Rovine circolari #1 (tecnica mista su carta, 2006), la trasparenza dei colori di ascendenza cézanniana induce a comprendere la stratificazione che si attua nelle opere di Isola e la conseguente e necessaria azione di riconoscimento che esse richiedono al lettore per essere correttamente intese. Senza questo passaggio a ritroso, non si dà spinta in avanti. È nelle risorse dell’arte la possibilità di agganciare un tempo che sia afferrato nella sua profondità prospettica e presentato su un solo piano. Da una nota dell’artista si evince che egli è alla costante ricerca di una soglia, di un limite tra cose eterogenee, come può esserlo il passaggio da un tempo a un altro, dal reale al mentale, dal visibile all’invisibile. Sovente, Isola istituisce un dialogo tra ombra e luce, tra cose che c’erano ieri e ancor oggi persistono, oppure che si presentano in compagnia di elementi contemporanei innestati in un paesaggio altrimenti non caratterizzato cronologicamente. Ma le opere di Pierluigi Isola sono anche un inno alla mirabile mente umana che può vedere non solo quello che è reale, ma anche quello che ricorda. L’artista nomina la nostalgia, ma essa è piuttosto una condizione desiderante.

Tali soglie non sono prese nel medesimo vorticare turneriano, nel quale non si distinguono più i confini degli elementi naturali, con gli oggetti squassati dalla furia degli elementi o dispersi nello sfarinìo lucoroso. In Isola i contorni appaiono spesso netti; taglienti, se presi nel dominio dell’astrazione, oppure morbidi e stondati, se appartenenti al dominio organico. Luce e ombra sfaldano o assemblano. Non vi è una gerarchia relativa alla concretezza fisica; le architetture, le chiome arboree, i dossi e i canali sono ugualmente disegnati dai gradienti della visibilità, tuttavia, non si dissolvono mai.

Il rapporto che il primo piano instaura con gli elementi retrostanti della composizione è usato da Isola per disporre, sulla superficie più vicina allo spettatore, ma non per questo maggiormente definita, segni, lettere, tracce di un’iscrizione. È quanto si osserva, ad esempio, in Dalla spiaggia di Vendicari (olio su tavola, 2006), ove il primo piano del paesaggio campestre appare come luogo di iscrizione di un segno, più che la rappresentazione di un dato naturale: gli steli di gramigna sembrano mimare una scrittura. Al pari del rapporto tra natura e geometria, di cui scrivevo prima, anche quello tra iscrizione e architettura passa attraverso un medesimo imbuto, poiché vi è tra esse una forte prossimità, anche se non si estingue mai in una completa coincidenza. Come la scrittura, anche l’architettura è un prodotto umano. Pierluigi Isola pone in luce le forme nella loro diversità strutturale, evidenziando il particolare rapporto tra senso e significante che si genera ogni volta nella specificità delle forme espressive. 

Ritornando al tempo non segnato, sgorgante dalle opere di Isola, cito a titolo esemplificativo il quadro Il Tevere a Ponte Garibaldi (olio su tela, 2007), nel quale i diversi stati della materia sono restituiti nella luce pomeridiana che polverizza le sostanze in un pulviscolo d’oro, finendo con l’annullare anche i diversi istanti del reale.  Davvero il reale non è mentale? Si direbbe proprio di sì, dinanzi a questa cartina di tornasole.


                                                            Rosa Pierno 

giovedì 15 giugno 2023

Mostra di Rosa Pierno “Il colore della linea” presso 1 Stile Home Gallery di Mara Pasetti, Mantova, dal 18 al 30 giugno, a cura di Stefano Iori

 



Per introdurre Rosa Pierno e per dire della sua mostra Il colore della linea voglio partire da ciò che Rosa stessa scrisse introducendo il suo libro di prose liriche Il contorno dell’ombra pubblicato da Oedipus nel 2020


Con parole acconce, mostrare il baratro tra lo scrivere e il figurare. Non è questione di tradurre, ma di rimarcare lo iato, i regni senza ponte del mio operare. 

Lessicali equivalenze, partiture sintattiche in equilibrio con legature di linee e tinte, con tratti esarcebati o dolci, oppure ammagliati oggetti trafitti da spilli lucenti: non è che un far la spola, un andare e venire senza remissione.

Il mondo elegante non è quello reale. Nemmeno un’intonazione adeguata può far superare il guado. 

Come una musica strepitante o dissonante disturba l’udito, allo stesso modo colori troppo carichi e squillanti procurano fastidio. Se il troppo acceso o lo smorto, lo spento o l’abbagliato, mortificano il disegno, vivo lo rende l’armonica mistura e anche la parola arguta, che, a schiera, segue, sonora.


Lessicali equivalenze, dicevamo, partiture sintattiche in equilibrio con legature di linee e tinte... Il disegno. Vivo lo rende l’armonica mistura: mi sono sembrate frasi che anticipano il lavoro svolto da Rosa stessa in campo figurativo.


Nelle opere in mostra presso 1 Stile Home Gallery, Mantova, si possono ammirare tratti sottili che si intrecciano e si raccordano, che dialogano tra loro portando avanti la storia singolare di ogni opera che si connette, però, a una velata narrazione d'insieme, declinata dai caratteri comuni alle singole opere e connotata da omogenea delicatezza, dal fulgore dei colori.


C'è un altro elemento che connette le opere tra di loro ed è dato dalla memoria, dalla elaborazione dei ricordi. Ricordi che vengono senz'altro dal vissuto dell'artista, ma anche dal suo percorso di studio, di ricerca, di approfondimento della storia dell'arte, del pensiero e della scrittura creativa.

I quadri di Rosa sviluppano intensità generate dal passato, personale e universale assieme, dunque, proprio come avviene nella scrittura poetica di questa amica artista.



Le sue proiezioni grafico/visive rappresentano, in buona sostanza, un modo di scrivere altro. Si tratta di un modus espressivo che sa costruire architetture fini e ragionate, studiate, pensate e ripensate con dinamismo, energia e fantasiosa riflessione, architetture capaci di permeare di incanto ogni generato creativo.

Voglio ricordare, avendo detto architetture fini e ragionate, che Rosa è architetto, architetto prestato all'arte e alla poesia.


Dicevo di scrittura altra. I disegni in mostra sono infatti prodotti di un alfabeto personalissimo. Quasi geroglifici o pittogrammi di una lingua nuova e antica assieme che ci regala storie da leggere, da liberamente tradurre. 

Storie che si dipanano negli accostamenti delle forme, nel loro susseguirsi e intrecciarsi, nella loro capacità di evocare simbologie intense. 

Il segno ha le sue vicende e queste danno vita a uno stato proprio che trasuda da ogni opera.


La mostra Il colore della linea mi fa pensare al senso e all'intimità di una wunderkammer, ovvero l'assemblea incoerente di oggetti disposti in bell'ordine su scaffali, oppure in teche o vetrine, come era in uso nelle chiese medievali o, più tardi, nei palazzi di nobili e dotti cittadini. 

Questo perché Rosa immette nelle sue opere tutti i quesiti possibili sulle soglie esistenti tra arte e scienza, alchimia e letteratura. E ciò sulla spinta dell'amore per la sovrapposizione, l'accostamento, anziché per la divisione. La compresenza è più importante dell'esclusione. 

Gli opposti non sono proprio opposti: per ogni determinatezza, per ogni definizione, si accumulano anche le indeterminazioni, le quali mettono in mostra, non l’irrealtà, le infondatezze o le idee vuote, ma due movimenti inseparabili eppure distinti. La vita scorre nel ritmo altalenante di bene e male, luce e ombra, estasi e rassegnazione. Personalmente, nei quadri di Rosa, vedo proprio la magica e ruvida danza del vivere, tra passato, presente e futuro.

 

Mi congedo con i primi versi di una poesia del poeta polacco Adam Zagajewski. Si tratta dell'avvio di un suo componimento che dice della poesia, ma che ben potrebbe dire dell'arte visiva come dell'arte in generale:


La poesia è ricerca del fulgore.

La poesia è una strada regale,

che ci conduce nel punto più remoto, più in avanti, più ulteriore.


Stefano Iori



1 Stile Home Gallery

Via Calvi 51, Mantova

Visite su prenotazione:339-5836540