venerdì 26 luglio 2013

JEAN-HONORE FRAGONARD


Ribollenti e avvolgenti sete, enfie di aria intrappolata nella trama, spumeggiano attorno alle cosce e al seno, mentre tende ricadono pesantemente a chiudere la deliziosa scena del cagnolino stretto dai piedini e allontanato con vezzo dalla meta.

Non si è ospiti disattesi in questi interni impenetrabili. Padrona e cane, sebbene sorpresi, si lasciano cogliere nella loro intimità da uno sguardo sacrilego. Fiori con biglietto sono stati recapitati e appaiono gettati alla rinfusa sul tavolo, disordinati come le sensazioni che hanno provocato.

Non si vedono mai donzelle che non abbiano vesti intorcinate, rigonfie e spiegazzate.  Seriche stoffe non ricoprono le membra, ma le svelano, esaltandone rivolgimenti e palpiti.

Confessione d’amore è interamente disegnata dall’arco flessuoso che il corpo di lui assume per suggerirle che il suo cuore è da lei preso al guinzaglio, mentre lei sta ricevendo il dono d’amore con aderente accoglienza e statua, che la doppia, si muove verso l’uomo con compassionevole orecchio. Amore non duole in questo giardino di amorosi sensi, di recita gentile, di vicendevole scambio delle parti.


Cane sdraiato ai piedi degli amanti conferma la serena evoluzione della vicenda. Sul gruppo chiome arboree si chiudono a rimarcare un inutile quanto vezzoso cuore. Ombrellino, gettato fra i rami, non serve allo scopo. Finché non si uscirà dal quadro si resterà al riparo dalla storia. 

Che amore è mai quello che si dispiega sui decori della porcellana, sugli arazzi e sui cuscini? Tali oggetti ricordano, ora, come petali disseccati su ventilate sete, che l’amore è svanito. Pure, gli amanti, appena qualche ora prima, avevano ben altro avvenire: erano immersi in un’avventura assoluta, condotta in terre estreme, nel punto in cui il sole sorge e tramonta nel volgere d’un solo sguardo.

Dei non si differenziano dagli umani per alcunché, seduti su soffici tappeti d’erba, circondati da rami fioriti, lenzuola vaporose, balaustre di marmo e vellutati mantelli. Nemmeno l’eternità  funge loro da segno distintivo: agli umani in amore, infatti, neppure quella manca.


Si scambiano rapidi furtivi baci, poiché lei è spinta dal desiderio verso di lui e, contemporaneamente, è attratta da una piacevole conversazione che si svolge nella stanza accanto. Amanti non possono restare a lungo su tale confine. Dovrebbero cadere come masso che rotoli su uno dei due versanti, ma i due fidanzatini restano in paradossale ridicolo equilibrio.

Ritrattista guarda, spia, desidera e afferra quel che può con mina di piombo. Carta non equivale a roseo corpo né a carnali parole.

Bagnanti sono il sogno  persistente del pittore. Carni tremule che assumono il medesimo rollio delle acque scosse a loro volta dalle membra che vi si agitano  e chiome che frusciano per induzione, per echeggiata conformazione. Vento avrebbe poco da aggiungere. Chi si ama, sui prati, agita il quadro con perenne moto.


Floride carni, sode, fra viscide erbe, colte nell’istante in cui il temporale s’appresta. Fra le verzure intrise d’acqua e le tonalità ocra delle membra all’ombra, dee o donne, la distanza è fittizia.

Rosseggianti tende contro verdeggianti fronde: ivi, solo carnagione rosea può essere colore di raccordo.

                                                                       Rosa Pierno

giovedì 18 luglio 2013

Gabriella Drudi “Nunzio Di Stefano” Spatia Books, 1981


“Per seguire Heidegger. Nel ghetto di un linguaggio vastamente geologico, che designa lo spazio un cosmo enigma, sperdimento d’inizio, eppure inesplicabilmente disposto a distinguersi da cose sinonime e diverse, una duna, un daino, un’oasi, un maniero, tutte le immensurabili esigue spoglie del suo essere stasi e un universo latente, quegli spaesati e inquieti addensamenti o solitudini che il tempo tocca e scioglie, e se ne dà un movente, uno scopo, una ragione, giacché qui dove codesto incastro ininterrotto e inerte si frantuma qui appunto si addita e si lascia dire”.

Mentre Grabriella Drudi segue Heidegger, noi seguiamo lei, dopo tale incendiario incipit, in una serie di incalzanti corollari, designanti uno spazio apparentemente privo di segni e inaccessibile ai sensi. Azzerata ogni possibilità di riconoscere in esso una direzione, un verso (ammesso che abbia espansione) ma, in fondo, se attributi cartesiani debbano necessariamente qualificare l’essenza,  senza di essi sparisce anche ciò che la caratterizza (il peso, il colore, la temperatura). Pertanto il verso deve necessariamente inerire alla forma plastica che nello spazio s’accampa.

Lo stesso Heidegger vi si deve arrendere: lo spazio riusciamo a immaginarlo solo con i corpi che lo occupano e fosse pure scatola vuota gli dovremmo comunque attribuire pareti, infittendo il buio lungo i suoi bordi. No,  lo spazio riusciamo a immaginarlo solo con i corpi che lo occupano. Ma anzi, no, anzi “Perché ciò che dello spazio pare il più proprio, nel suo manifestarsi da se stesso nascente, si dà sospetto e irrisorio all’incontro con l’arte, che ripetutamente ne cancella e inventa i lineamenti incogniti, mentiti e plurimi”. Ecco è l’arte che rende appieno lo spazio! E’ l’arte soltanto, diremmo, che è in grado di visualizzare lo spazio, anche negandolo, anche indicando dimensioni non immaginabili, oltre che “il silenzio, quale si dispiega a partire dai pianeti melodici di Melotti”. Non è forse vero che è la storia della scultura quella che infilza le definizioni più ricche o paradossali dello spazio?   A centinaia di migliaia: una per ciascuna opera. Che lo incarna? Ne mostra gli scivoli, le pendenze, le multiple superfici sfreccianti in mille direzioni, che lo ingloba e lo intrappola.

 Ma ritorniamo a questo straordinario testo di Gabriella, che mentre leggiamo letteralmente ci prende la mano. E quanto amiamo quel suo “Può darsi”, in esergo all’elenco monotematico dello spazio compilato da Heidegger! Tant’è che già Gabriella se n’è stancata. Avida e inesausta lettrice, esperta in mille e una materia, afferra i materiali e li valuta, ne verifica la tenuta rispetto all’uso che ne vuole fare, li fa esplodere e, scontenta, crea il proprio fantasmagorico vocabolario forgiando le definizioni che urgono alla critica artistica.
   
Heidegger: appena un pretesto per mettere a fuoco le opere di Nunzio Di Stefano: “Quando disarma la scultura della sua forza di gravità, Di Stefano, e la libera del peso delle cose alla luce del giorno, quando impedisce la separazione dei lineamenti invadendo la figura fratturata di colore liquido, grigiattolo, che in vasto allagamenti e maree di gocciolature si deposita, non fa che ricondurre la forma incorporante il luogo, e la sua fonda contrada, alla levitazione stagnante della memoria e del sogno”.

Esistono spazi che le parole della Drudi sanno trarre come epifanica rivelazione dall’osservazione delle opere: dall’effetto illusionistico che non si fida dell’ottico poiché sdoppia e balugina senza fissare a quello di pura parvenza, di oggetto contenitore, di tana, di essere-calco, maschera o scudo e impronta. “Luoghi, dunque, che scrutano al fondo, al non-limite, oltre la soglia, nelle bolle di melma dell’immemoriale”.

E qui riporto una parte del brano che io crederei scolpito nella roccia della memoria universale se esistesse una verità univoca dell’arte: “L’amore per l’arte precede l’evento creativo, così accade. Per ognuno che si fa artista l’arte del passato si riaccende fantasmatica e intima come le stanze dell’infanzia. Nel ricordo, nello smemoramento, nel rifiuto, nella vicinanza e nei sensi di altre opere l’artista pone in opera il proprio evento, che è nuovo perché non conseguente, non logico, ma individuo dischiudersi dell’esserci”. 

Apparterranno a questo dischiudersi le opere di Nunzio Di Stefano a cui Gabriella riferisce una colata vivida di verbi: ‘bagnare’, ‘illiquidire’, ‘oscurare’, ‘sciogliere’, ‘riemergere’, ‘colare’, ‘disfarsi’, alfine “lasciando che la scultura si dia nel suo più autonomo e guidato farsi, e nello zelo degli attrezzi”. Anche se Gabriella Drudi registra il doppio sembiante dell’opera d’arte: “Una simile forma dovrebbe resistere a metafore che accolgono il corpo, l’umano, ma la trasposizione è inevitabile non appena il luogo che la scultura determina si assume intima evocazione di vaste scomparse”.


                                                                            Rosa Pierno

venerdì 12 luglio 2013

Victoria Xardel sul n.86 di Anterem, giugno 2013

Leggendo la poesia di Victoria Xardel, presente nel numero 86 della rivista Anterem, giugno 2013, viene in mente il gesto della misura, come quando si prende la circonferenza vita di un corpo e quel che resta è un gesto: dita che tengono stretto il metro in un punto. Gesto come passo intermedio tra il concreto e l’astratto e dove il passo conclusivo indica solo la raggiunta area dell’astratto: concreto, qui, è oramai puro calco. Persino le parole sembrano avere smarrito la loro matericità a causa di questo indicare appassionato e svuotato al medesimo tempo. Victoria Xardel prende le misure a tutto, attenta a conservare i gesti che dagli oggetti sono generati, per distrarre la nostra attenzione, traslarli, si badi bene, non nella nostra interiorità, ma in uno spazio mentale. Esterno, bianco.
I gesti collezionati servono alla poetessa per effettuare ‘similitudini’ e ricostruire il mondo equivalente e mai coincidente con quello reale, ove  ogni cosa è assottigliata e disfatta   sino a perdere la forma originaria. La distillazione effettuata con questo metodo ottiene un liquore ambrato e denso, in cui, a tratti, pare di ravvisare il ricordo di un oggetto, ma è un mero istante e tutte le immagini vengono riassorbite in un fluire che ha eliminato violenze e fratture e in cui la materia e la forma hanno assunto un altro statuto, un altro modo di esistere, perseguito non attraverso il silenzio, ma tramite una via che si situa tra l’immagine disfatta e la parola non più concreta.



Victoria Xardel

*

Ne demeureraient que les faits les plus simples
et d’espace les écarts soustraits à l’enlisement des gestes.
Rien ne s’y confond et tout élément de ressemblance
s’exécute ; simplement, son retrait. Dont rien ne s’égare
mais souvenu, et l’histoire de la similitude s’élabore.
Enfin la simple écoute du soir. Le posé d’un geste –
tout en suivant les figures blanches qui vont –
d’où l’attention, le cérémonial, répétitions et choses,
jamais choses, les articulations.


*

Dans la circulation de la parole – ce qui est pourtant repris
par à-coups – et de ce même coup devient possible.
La très légère hébétude, le balancement des violettes.
Elle précise sa pensée par énumération
plutôt que par agencement des choses. Ce qui se répète
dans le ralentissement des suites enfin s’amenuise ou se défait.
Mais de fracture nulle n’est connue. Et d’aller
de telle sorte qu’aucune forme ne soit nouvelle
ni belle ni matière, ni ne renonce ou se tait.





Queste due sequenze fanno parte di Un movimento (traduzione di Domenico Brancale) apparso in 33 esemplari numerati per Prova d’Artista/Galerie Bordas, Venezia 2011.



Traduzione di Domenico Brancale

*

Non dimorerebbero che i fatti i più semplici
e di spazio gli scarti sottratti all’affondamento dei gesti.
Nessuno ci si confonde e ogni elemento di somiglianza
si adempie; semplicemente, suo riscatto. Niente di ciò si smarrisce
ma a mente, e la storia della similitudine si elabora.
Finalmente il semplice ascolto della sera. La posa di un gesto –
inseguendo le bianche figure che vanno –
di qui l’attenzione, il cerimoniale, ripetizioni e cose,
mai cose, le articolazioni.


*

Nella circolazione della parola – ciò che è tuttavia ripreso
a strappi – e di questo stesso strappo diviene possibile.
La lieve ebetudine, l’oscillazione delle viole.
Lei precisa il suo pensiero per enumerazione
più che per disposizione delle cose. Quello che si ripete
nel rallentamento delle conseguenze infine si assottiglia o si disfa.
Ma non si sa nulla di frattura. E di perseguire
in modo tale che nessuna forma sia nuova
né bella né materia, né rinuncia o tace. 





Victoria Xardel è nata nel 1987. Ha scritto Méthode (Eric Pesty Éditeur, 2012) e Précision seguito da ne dis pas non (sans mention d’éditeur, Napoli 2013). Cura la rivista “Pension Victoria” che ha pubblicato testi inediti di Royet-Journoud, Bailly, Svaeren, Perez, Racine, Brancale, Derrida.

 

Il numero 86 di “Anterem” (giugno 2013),  da cui è stata estratta la poesia di Victoria Xardel, ha per titolo “Dire l’essere” e registra – come viene sottolineato nell’editoriale di Flavio Ermini – che “la letteratura non ha altro compito che portare alla luce del pensiero l’essere nella sua essenza: questo essere che il tempo consuma e rovina, ma cui l’eternità sarebbe probabilmente insopportabile, così come sono insopportabili le illusioni che a essa conducono”.

Nel numero, attualmente in distribuzione, sono presenti interventi di:
E.M. Coran, Vincenzo Vitiello, GiovanniPascoli, Victoria Xardel, Pascal Gabellone, Jacques. Dupin, Fëdor I. Tjutcˇev, Giampiero Moretti, Mara Cini, Madison Morrison, Paul Wühr, Laura Caccia, Franco Rella, Giorgio Bonacini, Rosa Pierno, Lucio Saffaro.

Le immagini sono di Magdalo Mussio da Radure dell’essere e altre scritture

www.anteremedizioni.it

lunedì 8 luglio 2013

Jacques Derrida “Sulla parola” nottetempo, 2004



Sulla parola di Jacques Derrida, nottetempo, 2004, raccoglie una serie di interviste curate da Catherine Paoletti, nell’ambito di un ciclo di trasmissioni su France Culture, assommando istantanee filosofiche davvero limpide e nitide. Affiora il tema del diario e dell’autobiografia, in quanto per il filosofo francese ogni tipo di testo è autobiografico almeno quanto non lo è, ed emerge soprattutto il tema della scrittura poiché  strato che s’inserisce in ogni pratica (filosofica, scientifica e persino artistica) sino al punto da far immaginare a Derrida una possibile compromissione tra i generi attraverso essa. Tale compromissione darebbe luogo a un discorso capace di tenere insieme le diverse pratiche culturali (le questioni filosofiche, antropologiche, letterarie, il rapporto tra scrittura, firma, ecc.) ponendo questioni critiche “decostruttive”, nate per rispondere a ciò che prevaleva nei discorsi strutturalisti dell’epoca (Lacan, Foucault, Saussure). Il tentativo era quello di “restituire i loro diritti a quelle questioni reprimendo le quali la filosofia si era costituita” e che invece la letteratura aveva consentito di formulare, essendo quest’ultima “un’istituzione indissociabile dal principio democratico, cioè dalla libertà di parlare, di dire o non dire ciò che si vuole dire”. Tutto ciò aveva come conseguenza la necessità di riattivare in filosofia il simulacro, la finzione “che può costituire ogni discorso”, in particolare quelli che producono diritti e norme. Naturalmente, accettando i rischi che la letteratura comporta: “dico qualunque cosa perché non sono io, posso confondere l’etica con l’estetica”; il testo divenendo, in tal modo, una traccia non appartenente più all’autore.

È in relazione a ciò che Derrida parla della sua esperienza di insegnamento al Collège International de Philosophie, poiché essa gli ha consentito di accogliere nella filosofia altre discipline, disegnando nuove mappe e approntando relazioni non gerarchiche. Mentre dal punto di vista del rapporto dell’indagine con i problemi sociali e politici contemporanei, la questione si è per lui incentrata sul non assumere niente come definitivo: ad esempio la tecnologia può ugualmente servire la democrazia e non solo costituire un pericolo: “poiché si è presi fra imperativi contraddittori, la risposta giusta non può avere una forma generale, fissa e statica. È necessario reinventarla”.  Se Derrida ammette che ciò che dice nei suoi testi può anche risultare contraddittorio, ritiene, però, che ciò sia, al contempo, quel che resta di più vivo, di più ricco per l’avvenire. La tensione contraddittoria ha a che fare con la questione della responsabilità, ma anche del desiderio: “Il desiderio si apre a partire da questa indeterminazione che possiamo chiamare l’indecidibile” e che è, appunto, il contrario di ciò che è paralizzante. Il filosofo afferma che non a caso a lui si possono attribuire un gran numero di filiazioni (da Nietzsche a Lévinas, da Husserl a Sartre), dove “questa eterogeneità non significa un’opposizione”, ma un lavoro instancabile per “sbarazzarsi delle sedimentazioni speculative e teoriche, dei presupposti filosofici”. L’obiettivo è quello di cogliere la cosa “nella sua presenza pura, piena, ma anche dialettica”. Il filosofo francese sviscera il suo rapporto con la fenomenologia di Husserl, presentandola come risorsa della decostruzione, ove quest’ultima “è impensabile senza un’affermazione”, la quale però non è credula, né dogmatica, volendo aprirsi all’apparire che non si costruisce.

Molte pagine, in questa raccolta di interventi, sono dedicate al rapporto politico  verità/menzogna (a partire da Kant e passando per Freud e Lacan, Koyré e Arendt), sull’attualità del marxismo,  sul rapporto giustizia/perdono: in ogni caso l’attenzione di Jacques Derrida è volta sempre ad analizzare le varie voci e a interrogare l’evento nella sua singolarità, assieme al modo di restituirlo dal punto di vista testuale.   

                                                                                  Rosa Pierno

martedì 2 luglio 2013

Elsa Morante “Alibi” Einaudi


Alibi, libro dimenticato di Elsa Morante - come già Cesare Garboli nella sua appassionata presentazione lo definì, a cagione del suo essere “incompatibile soprattutto col linguaggio poetico, con la tradizione del Novecento” - vogliamo qui proporre per una rilettura. La poesia iniziale di questa frastagliata, portentosa, raccolta, Minna la Siamese, introduce due questioni di impegnativa disamina, al di là del pretesto affettivo e domestico: una è quella della distanza/differenza tra l’uomo e l’animale, l’altra è quella del pericolo sempre in agguato dell’autoinganno. La prima viene illuminata da un dispiacere: che la bestiola non possa distinguere tra i giorni feriali e i giorni di festa, simbolo della incolmabile distanza esistente tra chi non condivide il linguaggio, ma, anche, dispiacere che per tale via non sia considerato come assassinio l’uccisione di un animale. La seconda è relativa all’illusione determinata da una proiezione affettiva: se si nutre affetto per un animale si deve sapere che esso è ricambiato solo apparentemente, nelle forme, ma non nella sostanza, e pertanto, sebbene a malincuore, avviene la presa di coscienza che quello che la gatta dimostra non è:

Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo,
ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale.
Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei,
ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…

Avvertimento che si ritrova in un ancor più lancinante strale rivolto a se stessa: “Ma, come la memoria, il presagio / è menzogna” nell’ultima poesia Narciso. Questione ripresa con maggiori e più iridescenti complessità nella poesia Canto per il gatto Alvaro che disegna quasi un’analogia tra i caratteri dell’animale e quelli della poetessa (‘selvaggio’, ‘libero’, ‘ingenuo’). Forse, è in tal guisa disegnato lo scenario principale, e forse di un unico atto, dove si allocheranno le poesie della raccolta. Nel passo invalicabile tra ricordo e realtà, dove stupisce che un ricordo possa darsi come cosa presente (la risata di Saruzza, l’immagine della sua manina che fruga tra le foglie) troviamo l’ulteriore perno di articolazione concettuale che designa poli opposti.  Scanditi nell’Amleto, quelli che si riverbereranno in maniera spiegata e totalizzante ne La Storia, e che riguardano appunto l’orizzonte storico e il destino individuale, ma con una nota incistata, simile a un ganglo di raccordo tra le due polarità, per il riguardo alla consapevolezza di tale inaccordabilità. Che il soggetto dispieghi poi un rifiuto ad adattarsi, inoltre, non avviene mai a costo della perdita di umana partecipazione e comprensione, di amore verso i due opposti versanti. Mai espulsa la denuncia dalla constatazione del delittuoso comportamento della società che i suoi fiori più belli espunge o colloca ai propri margini senza pietà. Basta un genitore che non ami o un segno che riassuma la condizione femminile d’inferiorità a far scattare l’inevitabilità di un destino. Eppure, l’accertamento di tali nefaste condizioni trova maglie rade se  qualcuno accoglie le denuncie, se individua le ingiustizie, se le contesta, col che viene a cadere la più ferrea delle condizioni: l’amore ha questo potere e la poesia lo testimonia. L’apparente anacronismo che si avverte in questi versi è tutto teso a riconsegnare un mondo di sentimenti recuperati e riscoperti in un momento storico che più cruento mai ebbe mondo (tutte le poesie sono state scritte negli anni 1941-48 e solo alcune sono degli anni 1956-57), quasi un guardare indietro per riallacciarsi a forme che ancora potessero tracciare una continuità con la cultura precedente (testimoniata, vera e propria dichiarazione d’intenti, nella poesia Ai personaggi).  In un indomabile volontà/desiderio di non lasciarsi travolgere, di non divenire cinica o disillusa, Elsa Morante, in esergo alla poesia Sheherazade, scrive: A voi diletto, a me speranza / rechi l’Oscura”.

L’amore come leit-motiv, come catena da traino dell’intero mondo e pur anche delle celesti sfere! L’amore in grado di trasformare tutti gli eventi interiori nei suoi contrari per pura generosità o per tenace attaccamento alla forza primordiale che, ancora, non sopravanza le polarità concettuali, ma le disinnesca, non le riunifica in una categoria superiore, ma le mantiene attive entrambe perché altrimenti amore non si darebbe ( e si ricordi quanto amore non sembri esistere al di fuori del linguaggio con cui lo esprimiamo, come afferma Bateson: “in verità, sono i messaggi che costituiscono il rapporto”):

Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu,
le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate:
l’orgoglio che si compiace d’umiliarsi a te,
la vanità si nasconde davanti alla tua gloria,
la voglia si tramuta in timido pudore,
la mia sconfitta esulta della tua vittoria,
la ricchezza è beata di farsi, per te, povera,
e peccato e perdono, ansia e riposo,
sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia. 

Ma vogliamo ricollegarci al nostro spunto iniziale: non si dà mai, almeno in queste poesie, una Morante che non sia consapevole che la realtà è sempre proiezione personale, così come della sua particolare dote, talento immaginifico, (rendendola al contempo un essere tra i più soli al mondo) che le fa creare cosmogonie e gliele le fa disfare: “L’ago è rovente, la tela è fumo.  / Consunta fra i suoi cerchi d’oro / giace la vanesia mano / pur se al gioco di m’ama non m’ama / la risposta celeste / mi fingo”, il che non equivale mai a un voler uscire dal gioco. Anzi, s’intenda bene a qual punto la consapevolezza del proprio talento la renda diversa, mai succube nemmeno del suo più appassionato amore. Siamo di fronte ad Avventura, dedicata a Luchino Visconti. La poesia utilizza i topos della favola, ma solo per mostrare, rispetto a tali lussureggianti tappe, lo zoccolo duro della inalienabile percezione di sé. L’amore, anche il  più potente, è frutto di chi lo prova e non di colui verso il quale è diretto!    

Con un salto cronologico si balza ad Alibi poesia del 1955. E’ qui manifesta l’alterità tra il ragazzo, mitico personaggio appartenente alle sue mille trame, suo alter ego o ideale che si avvale di molteplici sembianti e l’autrice. Quasi il simbolo di sé, il vero volto dell’autrice. Inafferrabile e prismatico, ma irriducibile a ogni altra realtà che da quella interiore si discosti. Ora lo sappiamo, il teatro di cui avevamo parlato all’inizio coincide con la stanza di Elsa: al suo interno si succedono paesaggi ed epoche e sono tutte creazioni letterarie, ma con un unico comune denominatore: l’appartenenza alla creazione, dove figlio e madre battono con il cuore tutto il tempo del mondo. Però non vogliamo concludere così, bensì in altro modo. Con quel verso tratto dalla poesia L’isola di Arturo, che riporta tutto a più terracqueo mondo: “fuori del limbo non v’è eliso”.   

                                                             Rosa Pierno