sabato 30 dicembre 2017

“L’alfabeto del fuoco. Piccoli studi sulla lingua” di Silvia Baron Supervielle, Pagine d’Arte, 2010





Fra mare e muro c’è una differenza minima, il mare a volte sembra un muro così  come la partenza è un arrivo su opposta sponda e fra lingue diverse vi è una continuità: inizia in questo modo il viaggio di Silvia Baron Supervielle che ripercorre la rotta in senso inverso a quello percorso dal nonno per ritrovare non un’altra terra, ma i medesimi luoghi, un’origine condivisa, di cui il soggetto è l’unico artefice. Ciò risulta ancora più chiaro quando il mestiere della poetessa sia anche quello di traduttrice: risiedere in qualche modo sulla soglia è dare la stura a metamorfosi e trasformazioni.

È fin da subito evidente che tale spazio di mutamento è possibile solo nel vuoto, quel vuoto che contiene il tutto, la luce senza sole, da cui ogni cosa nasce e in cui ogni cosa rientra. Sorta di piano, superficie riflettente sul quale si svolgono storie ed è possibile proiettare il proprio io, avere un passato e un futuro. Senza questa possibilità di rinnovamento, tutto sarebbe insopportabilmente scolpito e fisso, privo di profondità e di moti. Eccessivamente presente.

Scrivere invece con una lingua diversa da quella materna, quella dell’assenza, consente di risiedere in un luogo estraneo da cui dipartirsi per tracciare linee che non lascino tracce, per inseguire volubili e volatili associazioni, per sentirsi nell’altrove: spazio nel quale il tutto è chiamato alla compresenza massima, il che vuol dire che è convocato assieme al vuoto che lo costituisce. Non esattamente un’alterità, ma, appunto, una modalità costitutiva.

Da questa posizione la scrittura appare libera e fluente, legata al mistero insondabile delle cose, a quell’inesprimibile che i fili del testo intrappolano e che subito dopo rilasciano. Nessuna essenza può in tal modo essere definita come fosse una verità assoluta e questo è il motivo vero della libertà: l’affrancamento dal dogma. Non che questo eluda i binari della necessità, quella forma imperativa a cui il soggetto obbedisce e che funge da guida allo stesso tempo. Forma, pertanto, come qualcosa di tangibile e intangibile al tempo stesso, scopo e movente, mobile come un colore, come il tono della voce, flessibile come il corpo. Vi è una sorta di adesione fisica al testo, come se il testo fosse un vaso che viene formato dalle mani della scrittrice.

“La lingua è la prima finzione della scrittura” e dunque ancor più incredibile appare il suo legame con il pensiero e con il sentire. È come se il sé fosse possibile solo grazie  alla finzione della lingua e, tuttavia, nessun’altra verità appare maggiormente salda. Ma proprio per questo è necessario che la lingua sia una scrittura fluente, in contrapposizione a ciò che è rigido, trascinando e fondendo ciò che incontra sulla sua strada. “Il lavoro della scrittura si forgia con questo desiderio-lingua che palpita nel sangue”.

La lingua - in questo caso, il passaggio dallo spagnolo al francese - è in grado di modificare persino la postura del corpo, oltre che i propri pensieri. E d’altronde ancora la lingua consente quell’estraneità che sembra necessaria per poter ascoltare una voce diversa, quella stessa che cercava Beckett. Colui che scrive ricrea la sua lingua attraverso il suono, ascolta in sé il canto. Il suono è anche uno dei legami tra poesia e prosa: ciascuna scrittura con la propria specifica sonorità. Il suono, legame analogico con la musica, la quale pare  a sua volta essere sinonimo del vuoto generatore.

Dirigersi verso un altro idioma vuol dire abbandonare un sé, come abito dismesso, per ritrovarsi diversi. “Passare da una lingua all’altra significa separarsi da un sé già instaurato, al fine di trovare un universo dove il viaggio non abbia più fine e dove si produca una trasfigurazione di se stessi e delle parole”.

Attraverso l’identità e la differenza, la separazione e la congiunzione, il percorso espositivo della Baron Supervielle si snoda come testimonianza di ricerca personale sulle modalità della scrittura e della traduzione, e su alcuni autori in particolare (Dante, Borges, Ocampo, Yourcenar, Cortázar) insegnandoci a non riposare mai sulle certezze. Nella traduzione è necessario tener conto del silenzio e delle radici.

                                                                                  Rosa Pierno

mercoledì 20 dicembre 2017

Rita Iacomino “Dura verticale” edizioni della Cometa, 1999




Che la realtà sia determinabile attraverso i colori e che il mondo si strugga nell’evidenza di una favola dai riverberi bizantini, è qualcosa che non consegna certo dati affidabili. Vi è maggior consistenza nel pensiero, il quale assegna agli elementi nome e ruolo. La conoscenza, nella silloge “Dura verticale” di Rita Iacomino, del 1999, non si evince dalle cose, ma si possiede a priori.

È il quieto ristagno delle ore
un’ombra avversaria
dal picco lunatico del colle
mi scende a valle;
l’anima non ha due scarpe
ma un solo piede...
il fenicottero sa
dove regna l’altro.

Certo anche qui s’insinua un dubbio: e se le cose avessero “un altro nome”, se i sassi galleggianti fossero in realtà “anemiche meduse”? Ma il linguaggio è un approdo e si conosce pur senza sapere come, pur con uno strumento che appaia lacunoso. Comunque sia, la funzione del ricordo, in tal modo, è salva: restituisce vivide certezze. Tuttavia, certe idee, solo doppiate dal reale,  sono più salde nello splendore della propria evidenza, quando esse non siano ancora  espresse tramite parole. Le immagini hanno questo pregio inimitabile, più vicine al simbolo, si mostrano come incapsulate in un senso che non si altera.

Restammo attoniti
respirandoci l’un l’altra incogniti;
ferma era la primavera 
più ferma la ragione,
ma la Madonna di Piero
sperduta fra i campi
a San Sepolcro,
non attraversava la soglia del dolore.
Le gocce di sudore dall’intonaco
sono cadute a sconvolgerla
la geometria della croce.

All’interno di una wunderkammer dove l’autrice raccoglie le sue icone, come carte da gioco aventi un significato preciso e immutabile, pur se inespresso, ogni poesia che le registri appare frutto di un cesello e ha un riverbero smaltato. Ma la stanza ha un ulteriore scopo:  consente l’eliminazione dell’attesa: il gesto vi appare sospeso “come un giglio dipinto”: la pittura ha dunque parte essenziale nella sistemazione del mondo personale della Iacomino. È la pittura che sottrae il contingente ed eleva la realtà, sottraendola al divenire, “nell’immobilità del fare”; quella pittura che “senza mai essere vento,/ fino a qui, / senza mai essere vento”.

E dammela questa scrittura.
Lei sola, che perfori,
tagli, isoli e sconnetta.
Dammela di guardia
a questo affresco discialbato 
che maturi lentamente 
e il colore furoreggi.

Alla scrittura resta affidato il compito di tagliare, sconnettere, isolare, quasi  rinverdire il senso, consentendo ai colori di ravvivarsi e di sfuggire alla perfezione di ciò che è statico, di ciò che pure è stato così a lungo perseguito, che è stato gestito con metodo: “ devi avere pazienza “, “devi aspettare “, “dovrà passare tanta polvere”, quasi, a tratti, un rituale alchemico che saldi morte e vita. Sembra necessario, dopo avere fissato la perfezione nel quadro, ridonargli la parola.

Cerchi un riposo
un riparo da tutte le lingue
da tutte le righe
dal campo sterminato di parole;
chiudi gli occhi di tutte le immagini 
di tutte le finestre in cui
si consuma e dibatte
l’uomo e il suo cane.
Un riparo, un nervo sano
un punto non toccato dall’ariete.

Non una parola consueta, ma una parola distillata dalla pittura.






Breve nota biografica di Rita Iacomino 

Nel 1989 vince il Premio Montale con la silloge inedita Luoghi impraticabili nella memoria (Scheiwiller, 1990). Nel 1999 pubblica la raccolta Dura Verticale (Edizioni della Cometa, 2000), nel 2005 pubblica il racconto Gallina Albas(Derive e Approdi), nel 2010 vince il Premio Logos con la raccolta Amore di Silvia e Atlante (Giulio Perrone, 2010). Vince nel 2010 il Premio di poesia Quaderni di Lìnfera con la raccolta Poemetto tra i denti (Progetto Cultura, 2011). Con Poemetto tra i denti è finalista, nel 2012, al Premio Internazionale di Poesia Mario Luzi. Nel 2016 partecipa con l’operetta Ariadna Rewind al Festival Pépète Lumière di Lione.

domenica 10 dicembre 2017

“Impero” di Bruno Di Pietro, Œdipus, 2017




Sebbene intento di Bruno Di Pietro sia quello di attuare un confronto tra Impero Romano e società contemporanea al fine di trarne alcune considerazioni che dovrebbero aiutarci nella costruzione di quell’Europa per il tramite di una costituzione europea che la renda un soggetto unico, pure sono altre le cose che ci preme mettere in luce. A maggior ragione, considerando che la silloge - pur tessuta con l’intervento di diverse personae, imperatori, cittadini, militari, in cui ciascun individuo è visto sul fondale  contraddittorio e contraddicente degli eventi storici - evidenzia anche altre piani, i quali concorrono a inficiare, o perlomeno a complicare, il dichiarato assunto autoriale. 

Proprio sul potere si apre il baratro a mala pena paludato nelle pagine di “Impero” di Bruno Di Pietro: esso è una fiera dalle cento teste, rispetto al quale le forme istituzionali non sono che strumenti di gestione ineludibili, necessari e tuttavia non sufficienti. Il potere è qualcosa che si costruisce anche col linguaggio e il poeta appunta la sua ricerca sulle formule linguistiche con le quali esso si descrive. Seguiamo il sogno dell’impero di Augusto oltre il quale “non vi saranno che flutti e scogli”, desiderio illimitato che si sostanzia con le metafore del limitato a cui si contrappone. Tanto più il potere si vuole  grande e senza confronti e tanto più deve fare i conti con innumerevoli risorse contingentate, quali quelle del governo di una città alle prese con i suoi concreti problemi: dalla mancanza d’igiene alla disorganizzazione, dal sistema sanitario agli interessi personali. Tutto sembra marciare nell’apposta direzione dell’ideale, dove appunto veleggiano i principi dell’ordine statale.

Con una profusione di versi liberi, di endecasillabi,  e settenari e ottonari affiancati a due a due,  Di Pietro costruisce le sue arringhe, discorsi, memorie espressi da personaggi coinvolti a vario titolo nel progetto dell’Impero. E ancora a versi di misura tradizionale affida il commento ironico,  il quale scorre via veloce poiché vi si s’incastonano rime facili, vero e proprio segnale della presenza autoriale, la quale denuncia comunque la vacuità dell’avvicinamento tra astrazione e realtà. Spesso le poesie terminano con una voce fuori scena, coro a tutti gli effetti, in cui il passato viene letto alla luce degli eventi futuri. Tuttavia, anche qui rileviamo che la funzione del coro, viene svuotata dall’interno per il fatto che i personaggi storici mostrano di essere già consapevoli della situazione e delle conseguenze dei loro atti, eppure hanno continuato ad agire come volevano, come potevano. Vedere in anticipo la sciagura non aiuta a evitarla. Ecco l’amara verità che Di Pietro non lesina di consegnarci e, per questo, la vena malinconica a volte emerge, assieme a quella, ma non assume mai il valore di un’assunzione pessimistica: nel computo della storia il negativo trova una sponda proprio grazie alla spinta propulsiva offerta dall’ideale.

L’estraneità e la non appartenenza campeggiano sulle pagine di “Impero”, poiché il pensiero lo pretende. A maggior ragione il pensiero sulla storia, sulle possibilità effettive di poter incidere pur avendo consapevolezza dello scacco costante: dialogo tra entità inconciliabili (potere, individuo, società) da cui però trarre piccoli avanzamenti. Anche il dialogo tra individuo e massa sembra condividere il medesimo assetto inconciliabile. È l’idea stessa dell’impero a far salire sul palco, il “niente”. È come se proprio ciò che dovesse durare in eterno risvegliasse l’indefinitezza e, in fondo, l’insensatezza dello scorrere del tempo. Ogni legge o persona, imperatore o Impero, può essere letto, compreso solo sullo sfondo della quotidianità. Esclusivamente l’assolutizzazione può rendere pericolosi i concetti e falsi. D’altronde, lo stesso intrecciarsi delle diverse voci e dei registri poetici crea un tessuto rado ove quella che traspare è proprio l’inconsistenza del potere, se mai il potere si dichiari potente ed efficace al di sopra di qualsiasi cosa: un singolo, pure accade, può opporvisi.

Un assedio, quello condotto da Bruno Di Pietro, non privo di note giocose legate al racconto popolare, che se mette alla berlina il potere non lo fa da una posizione moralistica, ma dall’interno, scarnificandone lo scheletro, mostrando che il re è nudo, e lo dichiara su uno sgangherato palco nella piazza  del mercato con un ritmo in finale da chiusa favolistica.
Caligola, Nerone, Augusto, i quali hanno avuto nelle loro mani pieno potere, non hanno ottenuto quanto volevano nella lettura del poeta. C’è sempre uno scarto, un resto irriducibile, una solitudine costante, e forse, a tratti almeno, risultano più soddisfacenti le esistenze di personaggi più comuni.
Il potere non è che una collisione tra istanze diverse e spesso opposte, a cui persino i potenti debbono piegarsi. Affermazione poco consolatoria, invero, ma Bruno Di Pietro riesce  a fornirci una restituzione che non abbandona mai la complessità  in favore di  letture lineari, né di quelle che invitano all’accettazione dello status quo.

                                                                               Rosa Pierno 



II.    Il sogno di Augusto

Tante quante sono le lucciole al loro tempo
sorgeranno città magnifiche sulla terra e sulla costa
piene di fontane, templi, manifatture e ginnasi.

Le strade progettate condurranno ricchezze 
              la posta viaggerà alla stessa velocità degli scambi.
I mari solcati da navi cariche di mercanzie
stoffe di Babilonia,  spezie di oriente,  grano d’Egitto.

Nelle province finiranno i contrasti tribali
le perenni liti parentali.

Le campagne sicure saranno deliziosi giardini:
e il fumo avrà il profumo del pane cotto sulla legna.

Tutto il mondo sembrerà uno solo principio e fine
così tutto sarà ordinatamente al suo posto.
Conquisteremo tutto o saremo perduti.

Deperite le istituzioni di una Repubblica morente
Roma governerà l’intero continente
Dal Baltico all’Egeo.

Lo chiameranno Impero
                                        questo ordine austero.
Ma oltre di noi non vi saranno che flutti e scogli.

Dove solo le aquile
dove solo le mie aquile
                                    potranno.



XXVIII.   Nerva 

Fin quando la forza non prevarrà sul diritto
sarà solo il Senato a farsi inquisitore
di un senatore accusato di lesa maestà.

Io Nerva questa vorrei fosse norma perenne
per moderare forza e tirannia
( per quanto oggi la maestà sia mia).

La modestia si accompagna alla autorità del Senato
ora che il principato sembra essere un’idea del passato.

Vespasiano aveva ragione:
quale filiazione,  quale adozione, quale legione
 l’Impero necessita di una Costituzione.



XLIV. “L’Impero deve diventare adulto” 

L’Impero deve diventare adulto:
è un insulto all’intelligenza (e alle casse dello Stato)
la guerra di aggressione e di conquista
di inutili e indifendibili territori.
C’è troppa resistenza fra i senatori
che con la guerra ci fanno affari:
cambierà la tendenza solo una sana immissione
di uomini delle province nel Senato:
questa infantile ideologia del confine
resterà infine un’idea del passato.
Così il Vallo resterà il confine permanente
fra la Britannia e il resto del continente.






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