lunedì 22 marzo 2021

Marco G. Maggi, Né padri né madri, Ladolfi, 2020. Una lettura di Giuseppe Martella

 



Non conoscevo molto di Marco Maggi, allorché ho letto di recente, tutto d’un fiato questo poemetto. L’ho letto d’un fiato senza soffermarmi a riflettere su luoghi che pure richiedevano attenzione. Ascoltando soltanto in sotto fondo la ridda di echi che mi venivano incontro, interpellandomi a ogni nuovo passo – di questa serie di riprese e variazioni sulla condizione di orfani in cui ci troviamo (“Nasciamo orfani senza saperlo/ figli di un tempo glabro e sterminato”:19).  

Questa è poesia epica a pieno titolo, ma è un’epica del presente, in cui passato e futuro convergono, come in quel celebre passo di T.S. Eliot all’inizio de I quattro quartetti: “Tempo presente e tempo passato/sono forse entrambi presenti/ nel tempo futuro e il tempo futuro/ è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo/ è eternamente presente/ tutto il tempo è irredimibile.” E quella di Eliot è una voce che qui si stacca dal coro degli echi, un Eliot attraversato in tutte le sue fasi: dall’amara ironia di Prufrock, agli inganni della storia di Gerontion, dai frammenti della Terra Desolata al meditativo andante con sussulti mistici dei Quattro Quartetti. Ma è un Eliot tradotto, non nella lingua ma nel tempo, spostato in un’epoca, la nostra, in cui “la terra desolata” non è più una metafora, e in cui forse non ci sono più metafore che trattengano la prepotenza del Reale: la “pandemia dell’appiattimento”, il “supplizio dell’omologazione” (23). Perché orfani siamo anche del linguaggio e della lezione dei maestri che si perde nella babele dei media – nella banalità del male quotidiano (“in un mare di speranze infrante, infestato di cadaveri e petroliere”: 24) Le cui immagini ci investono in modo da non farci distinguere quasi i consigli per gli acquisti dai disastri ecologici, i grafici di borsa dall’ultimo naufragio di profughi. Questa è una terra desolata senza l’occhio veggente di Tiresia - un’esperienza di tempo chiuso su uno spazio piatto, dove l’orizzonte degli eventi appare già sempre prescritto da qualche software che supplisce all’assenza di Dio. (32)    Ciò che ho detto per Eliot si potrebbe estendere a tutte le numerose voci di poeti che echeggiano in questo testo, dai maestri del passato ai compagni di strada, specie quelli in cui convivono, nell’onestà del dire, il rovello morale e un certo ironico disincanto del mondo: da Rebora a Betocchi, da Saba a Giudici, per restare fra i nostri. Perché qui si coniuga poesia religiosa e poesia civile. E nella denuncia spassionata traspare come una sorta di teologia negativa, il cui sviluppo è affidato al meditativo andante che scandisce il tempo di quest’opera, facendo tutt’uno col decoro metrico e lessicale, in cui la compatta misura del verso rende magistralmente la prosa del mondo. Perché questa è poesia onesta se mai ce ne furono, che fonde narrazione e meditazione, denuncia spassionata e fede incrollabile, come dichiarato dall’esergo iniziale. 

Il poeta rimane fedele a questo proposito nell’attraversare la sua terra desolata, infondendole un principio speranza che è barlume del senso della storia, così come lo si può cogliere “nell’istante del pericolo” (Benjamin). Ed effettivamente, a prescindere dalla valutazione del testo, che a me sembra molto bello, l’io poetico ci appare qui come la figura del narratore antico, orale, radicato in una tradizione di cui si fa portatore, così come viene tratteggiata da Benjamin in un famoso saggio. E che ora denuncia lo straniamento di un’epoca in cui l’informazione, che può essere consumata istantaneamente, prende il sopravvento sulla narrazione che ha nella durata e nella memorabilità i propri presupposti. Secondo Benjamin, infatti, la figura del narratore sta per scomparire, è costretta a cedere il passo a quella dell’informatore, o, come si potrebbe dire oggi, a quella del conduttore televisivo. Voce frenetica che ci dà notizie da divorare, anche quando le traveste da storie. 

Secondo Benjamin, l’antica arte di narrare si avvia al tramonto perché viene meno il giusto tempo, la sintonia fra parola e ascolto. Essa si perde nella fame di notizie, nel consumo della storia come pura notizia, nel prevalere, nell’atto stesso di narrare, del valore di novità su quello di formazione, che Benjamin chiama di “consiglio”. Nella sua figura tradizionale, infatti, scrive Benjamin, “il narratore è persona di ‘consiglio’ per chi lo ascolta […e] consiglio, cucito nella stoffa della vita vissuta, è saggezza.” Ma la voce di questo narratore diviene sempre più fievole nel frastuono dei media sì che “l’arte di narrare volge al tramonto perché il lato epico della verità, la saggezza, vien meno.” 

Sull’antico narratore, Benjamin aggiunge infine che “il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo. Il narratore è quello che potrebbe lasciar consumare fino in fondo il lucignolo della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto.” Ma che questa fiamma sia misurata significa che la sua narrazione implica ritmi, intonazioni e gestualità di una performance orale molto vicina a quella poetica. Lo story teller tradizionale di cui parla Benjamin è un cantastorie popolare che assomiglia molto ancora a un rapsodo omerico, a un cantore provenzale o criolle, o a un puparo siciliano come Mimmo Cuticchio. Queste figure appaiono iscritte in palinsesto in quella dell’autore di questo poemetto, dove il tirocinio letterario e la scuola della vita, per sua stessa ammissione, si fondono inestricabilmente e felicemente. E la ricerca della misura riguarda tanto la parola quanto l’azione, bellezza e verità, etica ed estetica.

L’impressione con cui si esce da questa lettura, nonostante la denuncia dei disastri della nostra civiltà che essa contiene, è quella di un senso di sollievo per avere avuto il privilegio di ascoltare una voce onesta, nel timbro e nei contenuti, accanto alla sensazione di avere acquisito una nuova saggezza, benché forse solo risolta nel raggio di speranza gettato sull’avvenire, speranza che nasce dalla fede: “Credere nell’impossibile, provarci sempre” – così come nell’esergo posto a inizio del testo. Il “puro atto di fede/ di chi compie con dignità una missione/ e crede ancora in un gesto d’amore.” (35). Fede che si traduce in una preghiera poetica, perché “Si possono distinguere parole unite/ che recitate diventano preghiere…..e s’inseguono in un’ordalia di sillabe/ attaccate, ad una ad una (39-40).  Ma spesso “rimangono inascoltate/ quasi fossero tolte dalla voce/ di colui che gridava nel deserto.” (40) 

Tocca dunque a noi ora rispondere a questa interpellanza con la dovuta cura dell’ascolto, che sappia rivivificare nell’atto di lettura, la parola e il gesto incarnati del poeta epico che si fa tramite di una devozione francescana e di un messaggio evangelico: “Riappropriamoci di questa verità,/ che ci parla del valore del poco…. recuperiamola nel nostro racconto/ prima di ritrovarci disperati e soli/ sulla via del non ritorno.” (41) E che si compie con la finale esortazione, ancora con eco eliotiana, ad andare avanti e dipingere “il mondo con nuove tinte         per allontanare la morte/ per esorcizzare la notte.” (41)  

                                                                                  Giuseppe Martella



Parte I

Nasciamo orfani senza saperlo 

figli di un tempo glabro e sterminato, 

predestinati a compiere lo stesso viaggio

 con appresso un bagaglio fragile 

di rimpianti e di illusioni 

attendiamo la resurrezione

nel re-incanto del nuovo mondo.


Adesso che le stagioni assalgono 

con la furia delle Erinni

dentro si ridesta un ricordo 

quello in apparenza più futile

le piastrelle verde-pallido di un bagno,

 profumato di sapone a poco prezzo, 

una tranche de vie di vite semplici

dove tutto bastava a stesso:

le sedie fuori dalla soglia di casa 

quasi fossero il proscenio

del teatro aperto sulla via


……….


Parte II

La rammento, l’adolescenza,

un chiodo arrugginito e ormai corroso

 la sigaretta fumata d’un fiato,

in una coltre di fumo azzurrognola,

per poi essere gettata come un mozzicone, 

spenta come si raggela la passione,

come si spegne l’innocenza.


Eppure, è nella memoria di quei prati,

 nell’acqua gelida di quei fossi,

che ci possiamo liberare dall’arsura

 prima di sprofondare nel baratro, 

nel deserto delle sensazioni,

perché solo catturando quegli attimi, 

trattenendoli ancora dentro di noi,

potremo coltivare l’indispensabilità assoluta 

di perseguire la speranza.



note:

1) E poi, oltre ai maestri stranieri citati nei ringraziamenti, tutti gli esponenti della cosiddetta "poesia  civile": da Pasolini a Fortini, da Pagliarani a Di Ruscio, fino a Ilaria Grasso, autrice di una recente, pregevole, "Epica quotidiana" (2020)

2) W. Benjamin, "Il narratore", in Angelus Novus, Einaudi, 1976, pp. 235-60, 260.

3) "Not fare well / but fare forward passengers" (Four Quartets, III, The dry Salvages).

giovedì 4 marzo 2021

Matilde Serao “Bozzetti dal vero” Pagine d’arte, 2020


 

Matilde Serao ha sempre accordato al tema della posizione sociale della donna un ruolo centrale fra i numerosi temi sviluppati in oltre quarant’anni di carriera giornalistica e di attività letteraria. Pagine d’arte accende un nuovo fiammifero nell’omonima collana con la riedizione di alcuni racconti brevi dell’autrice: Bozzetti dal vero, 2020, in cui si assiste, rispetto al resoconto giornalistico, a una restituzione impernata sul versante opposto: pare, in questi testi, che non ci sia nessun fatto, ma solo la fissazione con spilli di sensazioni impalpabili, che si raggrumano intorno a una frase banale, appena un segnale, da interpretare non si sa in quale modo, mentre la narrazione si dispiega e, svolgendosi, delinea un percorso attraverso il quale Matilde Serao costruisce  nell’animo del lettore un’impressione salda. L’esistenza, che si declina fra piacevolezze e disagi, incertezze e delusioni, è sussunta  nel sentimento, conquista preziosa nel flusso delle sensazioni. Dalla scrittrice, dal suo modo di vedere e sentire, scaturiscono, quasi innescati da una miccia, i risvegli emotivi del lettore. Una cosa si può affermare con certezza, Serao non può soffrire l’indifferenza, dovunque essa si annidi. La vitalità dell’autrice imprime al testo uno stile franto, sintatticamente smosso, repentino e saltellante. Il periodo aspira ad articolarsi e a stratificarsi nella figura retorica dell’accumulo: ella si diparte da una definizione istantanea e poi vi ritorna per specificarne e dettagliarne gli elementi implicati. Quasi un non mollare la presa, un tenere desta e vigile la ricettività, spesso attizzando la fiamma dell’interesse col paradosso, come accade, ad esempio, in La moglie di un grand’uomo, con il riferimento a certe pratiche, usi, cure che vengono pregiudizialmente considerate come precipuamente femminili e che invece appartengono anche alle abitudini maschili: è il marito,  ironicamente e irresistibilmente descritto, che resta in bagno per ore a curare il suo aspetto. La lotta contro la soggezione femminile passa anche per la lotta contro i luoghi comuni. Ceti sociali e tipi umani sono i bersagli centrati appieno dalla sua fulminante penna, che, come la punta della spada di Zorro, lascia la sua firma sul ceto borghese napoletano, provinciale e ottuso, o sull’ineleganza che è la porta dell’ignoranza anche morale, estraendone profili marchianti. L’attenzione estetica è, inoltre, via di fuga, ricerca di nuovi modi di vivere e affrontare la vita. Si veda nel racconto Casa nuova, come la voglia di cambiare abitazione sia motivata dalla necessità del bello che influisce sui pensieri e sui sentimenti, funzionando come un  meccanismo di reazione alle abitudini mentali: ci si adagia troppo spesso, mentalmente producendo guasti nella propria esistenza e in quella altrui.


Una distanza incolmabile conflagra nelle pagine freschissime di Serao tra immobilismo e progresso, tra indifferenza e vivacità mentale. E l’ironia si palesa come uno strumento scardinante, che non solo fissa per sempre un carattere, ma ne mostra l’inane pretenziosità: “il sigaro di Giustino, microscopico riflesso della eruzione; la criniera arruffata di Bruno, un poeta dal troppo grande e facile successo” oppure si pronuncia sulle disillusioni che il primo amore procura: “Amore languido, pallido, roseo, annacquato, sciroppo d’orzata”. Ma ci sembrano pregevoli quei ‘non detto’, i quali s’installano in una conversazione come asole e che, dapprima intervalli tra le figure, divengono figure anch’esse. Il senso può dunque assumere pienezza solo in virtù delle zone vuote. Il riferimento è al bellissimo dialogo che si svolge tra giovani su una terrazza assolata in Viottole e che porge la parte impalpabile di una personalità complessa e variegata, qual è quella della scrittrice. In Notte d’agosto, quasi una resa dei conti tra coniugi, la forza e i sentimenti del personaggio femminile inclinano il piano verso la conclusione che ella imprime al mondo intero e a cui l’uomo non può opporsi. Nell’alternanza di emozione e pensiero, è il secondo a segnare la perdita, poiché innalza l’essere umano a livelli insperati per poi fargli avvistare un baratro, mentre fa certamente trascurare le cose semplici e soavi, piccole e quotidiane, il cui recupero è , al contrario, curativo: quelle “fugaci e dolci impressioni, pensieri indistinti e sfumati, sorrisi lievi della natura, pause dell’anima, apparizioni momentanee, angoli freschi e riposati dove si cheta la fantasia: godervi è forse la felicità” (Mosaico). La vita è venata da queste “impressioni leggiadre”, dalla tenerezza, dal diletto, che invece una errata scala valutativa rischia di farci perdere, mentre “la riflessione analizza, distrugge e sogghigna” (Apparenze).


Lo stile mobilissimo, veloce al punto da essere incurante delle inesattezze, ripetizioni o ridondanze, come indica compiutamente Patricia Bianchi nell’introduzione, mi pare sia da addurre, vera e propria cresta d’onda che si abbatta sulla riva, a quella forma che la stessa Serao vuole conservare in quanto nasce in quel modo e in quel modo deve raggiungere il lettore. Nella distanza così raccorciata tra lei e coloro che leggono avviene quel medesimo passaggio emotivo che si istituisce fra lei e il mondo e che in quanto tale è già valore. Così, se intemperanze e mancate correzioni disseminano alcuni testi, dovuti in parte alla discontinuità negli studi e in parte a una mancanza di revisione, sull’altro piatto della bilancia, si oppone ad esse una sorta di attivazione della voce, che equivale a un ‘ascolto’, come se per il lettore si trattasse di una conversazione, un dialogo familiare e senza veli con l’autrice, la quale non vuole certo fare a meno dei suoi gesti e della sua espressività nel far giungere la sua visione. La diversità stilistica è estraibile anche dal diverso trattamento dei temi sociali, come accade nella breve dissertazione La canzone popolare, ove ben si vede il movimento che insinua nella convenzionalità del pensiero dominante, composto sia da luoghi comuni sia da prese di posizione professionali ineccepibili, l’inserzione di qualche leva al fine di  sollevare il piano sentimentale e di restituire attenzione a verità non accette, quali quelle del popolo privo di mezzi di sussistenza e di accesso alla produzione culturale. Con tali avvolgenti spirali che afferrano, stringendoli, elementi positivi e negativi, Serao invita alla riflessione, senza abusare della inflessibilità della ragione critica, inducendo i suoi lettori a un riesame della questione, come a dire mediante punture di cui non si avverta il pizzico. 


                                                                  Rosa Pierno