giovedì 29 settembre 2016

Mariarosa Mutti "Monotipi 1988", Pagine d'Arte


Non si può tracciare nulla su un foglio completamente bianco. Dapprima lo si deve rendere familiare: traendolo dalla propria parte, farne un ambiente accogliente, dove si possano coltivare segni come piante. I segni non sono mai uguali uno all'altro. Sono estranei, non si riconoscono all'inizio. Coesistono senza fondersi.

Coltivare il foglio vuol dire dapprima individuare una superficie e poi   sfondarla. Muovere all'attacco di lacune, campire aree strappandole al vuoto, come se lo spazio potesse essere esaurito, fatto proprio.

Agendo su vari livelli, quello dell'inizio, al modo in cui si comincia una storia, del dislocamento dei segni sulla superficie, della loro prolificazione, con la necessaria definizione del sopra e del sotto, e la conseguente definizione del proscenio e del sipario, si osserva una evidente sempre maggiore consanguineità dei segni.

Flebili e delicati nel cominciamento, vanno tracciando scenari immaginari; s'infittiscono fino ad acquisire uno spessore ferreo, nodoso, nella figura in primo piano.

Tuttavia, a volte, è lo sfondo a reclamare il primo piano, sebbene per riquadrare la teatrale scena, per darle una parvenza di unità. Altre, una forma nera galleggia su un fondale istoriato.

Il colore si espande con regole proprie, accampando un'autonomia che  sovrasta tacche e punti, li afferra coartandoli, impone loro il ritmo pur nella dismisura del segno.

Il pigmento ha una sua traiettoria, contorna oppure stigmatizza con lievi tocchi e gocce, piccole accensioni, e morbide, nella tramatura fitta. È quasi la scrittura di larve figurali, colte nello stadio antecedente a quello in cui si osserva  la figura intera.


Scalfitture e tratteggi e strie di colore equivalgono alla lettere di un  alfabeto, a partire dal quale si forma l'illeggibile  identità del tracciante.

Il gesto è quasi l'eco di una tradizione. Esprime l'incoercibile esigenza di marcare e colorare qualcosa che alla fine si palesa come comune storia.

Nei delicati fogli, ove il segno cortesemente assona col colore, pigmento liquido, stilla e brilla. E quando i tratti appaiono corrosi dalla luce, colore s'intensifica per sostenere la veemenza del solcato campo.

Colore campisce tutto il disegno come una conquista definitiva. Sotto, in trasparenza, si vedono nuotare virgole, code, strie. L'inchiostro  e i pigmenti nuotano nel medesimo piano liquido.

                                                                             Rosa Pierno

giovedì 22 settembre 2016

I disegni di Enrico Pulsoni in "Paesaggiornaliero", BuffiArte, 2014





Il disegno, mezzo privilegiato del bellissimo catalogo di Enrico Pulsoni "Paesaggiornaliero", BuffiArte, 2014, è sempre presente nella sua ricerca: con un tratto vigoroso e preciso, che non è schizzo, non prova estemporanea, ma strumento di analisi e verifica, costruzione della figura/forma, egli ci presenta  un iter grafico di assoluto interesse. Il tratteggio,  variegato e stratificato, mostra il modo in cui una forma nasce dall'altra, condividendola parzialmente per formarne un'altra. Quel fenomeno del percolamento del carbonato di calcio, che trasudando dalle pareti forma stalattiti e stalagmiti, assume sulla carta una connotazione organica, subitanea, che si sviluppa sotto gli occhi dell'osservatore.

I volti, le membra, le forme si rincorrono nella raccolta alternandosi a figure geometriche che circoscrivono un oggetto e, replicandosi come mondi incompossibili, riflettono un oggetto trasformato. Il disegno, mezzo duttilissimo, progettuale, realizza una visione concettuale senza l'aggravio di una estromissione delle caratteristiche estetiche. Il tratteggio, in Pulsoni, presenta un'inclinazione sempre variata che ci comunica la pressione fisica, la presenza dell'artista sorpreso nell'atto realizzativo, introducendoci nella fucina ideativa.

Quanto il geometrico sia distante dal figurativo è infatti la questione centrale di questa sequenza ove le singole opere sono direttamente relazionate, dialoganti l'una con l'altra. Il cerchio è la matrice geometrica da cui si diparte l'attività del tratteggiare (reticolo della percorrenza, dell'insistenza) ma anche le proiezioni, la costruzione per punti, quasi un accertamento, misurazione spaziale atta a prendere possesso della superficie.  Si sottolinea che Enrico Pulsoni è laureato in Architettura e questa forma mentis è rintracciabile in molteplici sfaccettature nelle sue opere (anche quelle plastiche).

All'interno di un cerchio, può trovarsi un ritratto,  spesso autoritratto, privo di lineamenti, importante, dunque, in quanto forma, oggetto fra oggetti, trattato alla stessa stregua. Le pagine si susseguono assumendo l'iter di una narrazione, all'interno del libro d'artista, relativo alle possibili nascite, alle certe sovrapposizioni. Linee si dipartono dal tratteggio per assumere il ruolo di figura, causando un'interconnessione nella percezione tra elementi differenti, che nel disegno diventa precipua. Tuttavia, diremmo ch'esso ha sempre valenza autonoma, figura per se stesso. Delinea come un mondo all'interno di un altro, dove l'autonomia è solo funzione dei livelli percettivi.

Si rintraccia nell'album un dialogo tra profondità e superficie,  ma Pulsoni vi aggiunge la tassellazione, che è un sistema per ricoprire il piano e lo spazio con poliedri adiacenti senza sovrapposizioni e senza lasciare vuoti. Sorta, dunque, di ulteriore struttura che risiede insieme alle altre. Inoltre, il tratteggio non è solo funzione della luce intercettata dagli oggetti, ma rende conto anche della materia, riuscendo a evocare porosità, granularità, scorrevolezza, asperità delle superfici.

La ricostruzione da parte della mente di una figura circolare (elemento preferito da Pulsoni) non è compiuta, è un processo su cui l'artista si sofferma per scandagliarne effetti e dinamiche. Su queste soglie, in tali scollamenti,  l'artista opera per cavarne la trasformazione di cui è alla ricerca. La traslazione, la simmetria, la propagazione del segno da una costruzione  all'altra - effettuata operando con elementi appartenenti a diversi sistemi di rappresentazione - sono registrate nell'album, senza soluzione di continuità. Si tenga conto che anche la resa dell'ombra di un oggetto, pretendendo una diversa restituzione, pone questioni sulla sua interpretabilità. L'ombra appartiene alla realtà, nel disegno è tutt'altra cosa. È disegno al pari dell'oggetto che la procura. Pulsoni agisce anche nell'ambito delle proiezioni ortogonali, sfuggendo alla rappresentazione canonica, evadendo dalle regole che si assumono a scatola chiusa,  puranche quando le si trasporta fuori contesto. Ecco, perché il disegno, in Pulsoni, coincide con ricerca.

                                                               Rosa Pierno

venerdì 16 settembre 2016

Fabio Merlini "Filo di perle" con disegni di Giulia Napoleone, Pagine d'Arte, 2015





Necessità della bellezza scaturente dalla realtà esperita in quanto epifania. Potrebbe mai infatti darsi come epifanica la realtà alla nostra percezione se non attraverso la bellezza, quel viatico senza idea che trapassa nell'essenza dall'essente?
La realtà che si dà come evento è immagine sorprendente che salda le distanze. È lo stesso autore, Fabio Merlini, nella silloge "Filo di perle" con i disegni di Giulia Napoleone, Pagine d'Arte, 2015, a indicare il ruolo privilegiato che tale apparizione ha all'interno della sua scrittura. Con un medesimo movimento Merlini vede la materia divenire forma poetica, nulla a cui poter applicare una teoria che resterebbe eterogenea alla fusione prodottasi. Se la poesia è coincidenza di forma e contenuto, da aristotelico dettato, è anche "verità di sé - secondo un certo sguardo e un certo momento, non già quale verità in sé". Il riferimento non è a una verità propria dell'arte, nel senso di verità autonoma, in quanto la scaturigine della poesia mostra l'inscindibilità di senso e forma, appunto. Ed è immediato ricercarlo nelle splendide, raffinatissime immagini di Giulia Napoleone che fanno da contrappunto al testo poetico di Fabio Merlini, giacché la forma vi appare come distillato di una bellezza non apparsa improvvisamente alla coscienza, ma costruita con intenzione, desunta da una stratificazione percettiva, da una condensazione sedimentata, quasi procedimento opposto a quello epifanico, eppure, anche qui, il senso non si veicola tramite concetto, ma approda alla bellezza in quanto unità di forma e contenuto. Nel doppio passo del poeta e dell'artista si rintraccia dunque una medesima concezione che sussume nella poesia la creazione formale, raggiungendo la sua verità per questa via, escludente pertanto la separatezza e privilegiando l'indissolubilità dell'espressione.






Pharmacos

Puoi rimestare a lungo il pensiero nell'accaduto
ma se vedi anche solo
un'esile lingua di mare 
tra i due cipressi nel giardino del mulino di Spetses
la bellezza è più forte
e ti strattona lontano
come la cima con la vela
nella virata repentina.


Le cose

Allontanati
guarda
di qui si vede il bambino che gioca
non sa come è tanto
più vicino alle cose
di noi così tanto
dalle cose
allontanati


www.padinedarte.ch

domenica 11 settembre 2016

Alessandro Dall'Olio "Il senso di questo stare" L.S. Gruppo editoriale, 2012




La domanda posta in esergo da Alessandro Dall'Olio nel libro "Il senso di questo stare", L.S. Gruppo editoriale, 2012, "Ti hanno mai amato come meriti, / per tutta la durata di una amore?" sembrerebbe potersi volgere in questa: in che modo dire l'amore? Dove la forma del dire è allo stesso tempo anche il significato che si dà all'amore. Ci colpisce subito il richiamo a quell'acutezza  chiamata a dar conto del polimorfismo dell'amore: "L'acutezza è un esercizio, / l'amore detesta l'abitudine". Ritroviamo in tal modo i capisaldi dello svolgimento poetico del libro, ove vengono presentati i rapporti sottili e ambigui esistenti tra le cose, i      sentimenti e il pensiero, rivelando le disarmonie del reale, ma anche il collegamento concettuale tra elementi appartenenti a campi diversi e opposti con effetto, qui, più che di meraviglia, di stridore. E si può dire che, appunto, la versificazione del poeta bolognese rivolga insistentemente lo sguardo a un dispiegamento discorsivo che concateni tutte le facce di un medesimo fenomeno, più che alla sintesi.

Il polimorfismo innanzitutto riguarda i segni lasciati dall'amato, le tracce del suo passaggio, i labili e mobili affetti: "un odore", la "riga di sapone", i quali valgono come una scrittura del corpo. Tali segni indicano l'amore, lo testimoniano, quasi lo causano, anziché esserne la causa, e questo ci dice quanto il terreno sia scivoloso, incerta la preda, instabile lo stato anche dell'atto riflessivo. Si è "totalmente altri da prima"  senza sapere che cosa si sia esattamente divenuti. Persino la scansione temporale subisce uno scarto dal significato originario: ore, sere, albe, indicano un tempo deviato in quanto, anche se l'amore termina, esse durano, anzi si protraggono, significando il tempo protratto dalla passione. Tutto si carica, dunque, di un senso ulteriore, eccedente  e  non esauribile durante lo stato dell'amore. Tuttavia questo è anche, contemporaneamente, un libro sulla sua intermittenza, ove si palesano i momenti più consueti, quotidiani, banali. L'altro, il partner, è visibile solo in una inquadratura parziale, assimilabile quasi sempre a qualcosa di segreto, parziale, scritto. L'amore non riesce a equilibrare la conta di ciò che c'è e di ciò che manca.Dall'Olio ne parla in maniera non enfatica, mai assolutistica: è un amore imbastardito dai mille piccoli incidenti quotidiani dell'io, occupato a vivere la sua giornata, ma è, allo stesso tempo, esso che fa combaciare l'io con l'altro, costruendo nella memoria i ricordi che valgono a definire l'esistenza.

Da una parte, assistiamo  a una spietata critica del complesso sentimento:

L'amore pavido vive di sopite menzogne.
Senza sosta parla di frattaglie
per il gusto di vuotarsi la bocca,
evitando di urlare le cose più vere
per il timore di riempirsi il petto.

Dall'altra, osserviamo l'amore risiedere nell'esistenza al pari di una pietra preziosa. Esso ha il suo dominio nel corpo, il corpo trova la sua parola nel gesto. Il problema dell'amore è sempre anche il problema della determinatezza di sé, il quale non trova approdo, non raggiunge stasi. L'unione, per la maggior parte del tempo, si configura come malanimo, insoddisfazione, incertezza, ma sovente accade un miracolo: i corpi uniti e stretti riescono a isolarsi dalla palude e a spiccare il volo (si guardi alla presenza degli uccelli in tutta la raccolta, i quali equivalgono all'anelito alla naturalezza degli istinti e dei comportamenti contro la gabbia delle convenzioni). Il corpo appare come la risposta a una vita oppressa da doveri indotti, da sistemi economici stritolanti: esso soltanto può essere il mezzo per trascorrere dal sopravvivere al vivere. Nella realtà disamorata, consumistica, alienata, il corpo ha il potere di reintrodurre l'amore.

La sparizione del sentimento, anzi, ė segno certo del veleno che ci è stato inoculato. Giorno dopo giorno si affievolisce il febbrile stato, l'amorevole unione. Nella raccolta sono rari i momenti effusivi, teneri rispetto a un'estesa casistica di dubbi e insoddisfazioni, nondimeno tale sentimento, analizzato non in quanto essenza, se da una parte restituisce un equilibrio fra pulsioni negative e positive, dall'altra è il motore che produce libertà. Infatti insufficienza, incapacità, paura rientrano a pieno titolo nella totalità dell'amore, ma rilanciano una valenza positiva nel dirigere, nel fornire coscienza. Non tutto il bene, non tutto il bello, ci racconta Dall'Olio, dell'amore, e in questa teatrale, e pensiamo al teatro lulliano, complessa, definizione, la scrittura non ha luogo di poco momento:

Si disegnano i tormenti perenni.
Più nero che bianco
sul foglio rigato da una mano
che non sa tenere la matita.

La scrittura è capace, più di ogni altra cosa, "di controllare la misura e l'esito" dell'esperienza umana. È la scrittura che consente di tenere il conto, di incasellare giustamente ciò che va sommato o detratto. Scrittura è presente ovunque: "Nel risvolto delle labbra / stanno versi senza alfabeto". E addirittura "le parole contano / più dei fatti". La scrittura, pertanto, come strumento necessario giacché proprio lo stato dell'amore (come d'altronde, la condizione più generale dell'esistenza) impedisce la perfetta visibilità della totalità, quando vi si è immersi): "Quando mi avrai perduto / mi riconoscerai". La riflessione consentita dalla scrittura consente, appunto, di afferrare e tenere fermi i molteplici capi dell'ingrovigliata questione:

La perfezione non nasce dal ventre
a cercarla si fanno solo morire le emozioni
al capolinea di tutte le menzogne
che passano veloci come sono venute,
per trovare ragione solo avendo torto.

Anzi, parrebbe che in Dall'Olio se c'è l'amore dei corpi non c'è parola, ma scrittura c'è sempre, come attitudine riflessiva, attività fondante dell'esperienza e della comprensione. Una sorta di chiasmo a più nodi presenta, pertanto, la compresenza di ragione e passione, verità e menzogna come inscindibili, rispetto al quale si palesa necessaria una restituzione che stia maggiormente dappresso alla realtà del vivere. D'altronde, l'amore non fa perdere ritrovando e ritrovare perdendo? "Chissà se senti il frastuono / che fa la mia scrittura".


                                                                                Rosa Pierno

lunedì 5 settembre 2016

Farhad Ostovani "Variazioni Goldberg", prefazione di Yves Bonnefoy, Pagine d'Arte, 2009




In questo particolarissimo libro,  Variazioni Goldberg, edito da Pagine d'Arte, ma più che libro catalogo di disegni, due voci, quella di Yves Bonnefoy e di Farhad Ostevani, tentano di spiegare il rapporto fra opere visive e musica, dove la riflessione insegue l'opera e  quest'ultima sfugge a se stessa.

Nella prefazione, Yves Bonnefoy affronta l'affermazione del pittore, il quale dichiara di disegnare sempre ascoltando Bach e di lasciarsi penetrare da ciò che accade nelle forme musicali quando egli elabora le sue, constatando una parentela, se non un'identità di fondo, fra i due modi di percepire i dati dei sensi e di iscrivere il fatto umano in pittura e in musica.

"E perché no?" c'é altro, se non la musica, se non la pittura: esperienze dell'unità nelle quali si confondono tutte le voci che provengono dal mondo delle apparenze? Se nella cultura orientale si intendono rumori e suoni contemporaneamente, in occidente, dal tempo dei greci, si è inteso privilegiare la forma a dispetto di tutto ciò che ne resta escluso. La pittura per Bonnefoy riesce a preservare la complessità delle cose, trasgredendo le rappresentazioni semplificate che il pensiero produce.

Ostevani si rivolge alla musica, non come fa Tiziano, con figure allegoriche, poiché la si ritrova nel suo gesto stesso di pittore. Egli è cosciente dell'infinito presente in tutte le cose e ne é più cosciente di quanto lo siano altri pittori della nostra epoca. E lo è grazie alla memoria dei luoghi e degli esseri della sua infanzia, molto vivi in lui. Risiederebbe nei ricordi la memoria dell'infinito, per Bonnefoy, la sostanza dell'Uno. Tuttavia,  se il ricordo conosce l'infinito, non ne sa percorrere i meandri. In Ostevani il tutto delle cose è presente, ma non si lascia vedere in dettaglio.

Il poeta francese trova che la pittura del pittore israeliano sia meno incline alla figurazione e più alla metafisica, rimarcando che tutta una tradizione iraniana nata dal platonismo greco, ha riconosciuto il valore centrale, per la coscienza dell'essere, di esperienze simili a quelle in cui la filosofia abborda la realtà tramite la mediazione dell'archetipo, in quanto rappresentazione schematica, generalità del concetto.  L'archetipo è la maniera di ricondurre all'universale.

È ciò che lega la memoria all'essere, che aggancia la presenza ben più dell'apparenza. Per questa via gli oggetti divengono una cifra dell'invisibile, che fa del quadro un'icona, non un'immagine. Se Ostevani vede spontaneamente l'archetipo nelle cose è perché s'interessa alla musica per guardare la vita quotidiana e i ricordi: un'esperienza dell'essere nel seno stesso della contraddizione.

A sua volta, Ostevani cerca di spiegare a se stesso che cosa accade quando ascolta per ore la musica, mentre lavora senza pensare di mettere in rapporto ciò che ascolta distrattamente, e la pittura. Nessun dubbio che un misto di esistenziale  e di intemporale agisca nelle sue opere. Come per le Variazioni di Goldberg la ripresa d'un tema, dunque di una forma, dei diversi modi o dell'intervento del caso sono importanti nella meditazione dell'esistenza. Egli riconosce che la musica parla delle stesse intuizioni profonde che vivono nei suoi ricordi e si chiede come far apparire il caso in pittura, non quello delle macchie su una tela, ma degli avvenimenti della vita.

Scopre che è delle foglie che aveva bisogno per fare corpo con la musica. Perché una foglia sembra un'epifania e, gettata al caso dal vento, significa la separazione dall'unità, un caso che metaforizza la nostra condizione umana. Guardare una foglia macchiata aumenta l'enigma della sua bellezza nella finitezza. Nei disegni evoca il turbinio dei  movimenti nella luce, nell'aria: ciò equivale alla dissipazione della materialità della tela, alla frammentazione dello sguardo. Percorrere la foglia come un'esistenza, col proprio sguardo interiore diviene prescienza d'un invisibile. A questo punto la pittura non è solamente un rapporto di forme, ella ha così messo la bellezza a distanza, un vero mistero da apprendere e meditare. Dove l'Uno ha una vera esistenza, è presenza e non immagine, poiché nella realtà particolare e nella  differenza infinita, eppure, si lascia intravedere.

                                                                           Rosa Pierno


Il libro comprende 40 studi del 2007: acquarelli, collage, disegni. Litografie su carta Népal, 42x30 cm