mercoledì 25 gennaio 2017

Mostra “Primae adumbrate - Prime ombre”: pagine incise di Loredana Müller e sculture in porcellana di Michela Torricelli presso Areapangeart di Camorino



Areapangeart - Incontri d’arte a Camorino
dal 6 febbraio al 17 aprile 2017

A prima vista parrebbe non esservi attinenza alcuna tra gli elementi in  ceramica di Michela Torricelli e le incisioni di Loredana Müller, sebbene entrambe le produzioni si possano ascrivere a un raffinato esercizio di variazioni delicatissime che si attuano all'interno della dialettica di ripetizione/variazione, frammento/totalità. Osservando, però, da vicino la materia gessosa eppure serica della ceramista, seguendo dappresso le infinite inclinazioni dei piccoli monoliti, le superfici che sembrano essersi appena riprese da un accartocciamento, e che vanno dispiegando, ora, la grana dei pori, le asperità e le rugosità e, un attimo dopo, gli spigoli e le concavità, si nota che non riusciamo più ad ancorare tale materia a un referente, a una sostanza prelevata dalla realtà, che ci riporti a un'elaborazione che mantenga, cioè, un ancoraggio con le origini. Il materiale appare allunato, ha subito una sorta di metafisica manipolazione che gli ha fatto smarrire le usuali caratteristiche e si presenta come elemento nuovo, totalmente ricreato. Così come la forma, in cui detta sostanza si rapprende, è difficilmente riconducibile a una figura familiare. Potrebbe essere un contenitore, un involucro; vien quasi voglia di romperlo per guardare dentro, com'era il nostro desiderio  infantile dinanzi a un pupazzo che se aveva sembianze umane non si poteva dire vivente.

Il lattiginoso bianco è quasi un simbolo di immacolata purezza, di intangibilità materiale. Ci chiediamo a che cosa rapportare la stele e, osservandola, non ci rendiamo conto che essa penetra ancor di più nella nostra confidente disponibilità. Sorta di selce, utensile preistorico, iceberg, parete scoscesa di ghiacciaio, oggetto ricoperto da un telone, falesia, sono solo alcuni dei rinvenimenti analogici che ci sovvengono ammirando queste superfici impresse, lavorate tramite pressione di altre materie, la cui texture è rimasta intrappolata, quasi una memoria ancestrale oppure la memoria della materia tutta. Seguiamo le incredibili peripezie o spericolate acrobazie della superficie opaca e invitante, morbida e riflettente, scavata - i canaloni in cui l'ombra si rapprende - o le  cascate di luce sulle pareti sbrecciate. Anche la loro aggregazione in gruppi richiede un intervento del fruitore, un suo pronunciamento. Alcuni elementi sembrerebbero addirittura scarti di lavorazione, a cui, grazie al recupero, sia stata concessa un'altra vita. Se ne stanno sul piano, adunati in serie, ma anche separati, pronti a far scattare un ritmo, una ripetizione che è già variazione.

Ora, sia detto con chiarezza,  le trasformazioni della forma, come in musica, non hanno un'importanza secondaria, ma sono presupposto imprescindibile per il contenuto e il significato dell'opera, lì dove il contenuto non si dà attraverso il significato linguistico, ma è, appunto, desunto dalla forma stessa.  Le incessanti metamorfosi del materiale dato, mediante i più diversi processi di trasformazione,  danno vita al ritmo, alle sfumature, alle dinamiche, alle ripetizioni, ai contrasti e  sono rintracciabili esclusivamente  all'interno dello specifico manufatto.  Ecco che, dunque, se vogliamo stringere un laccio fra le opere ceramiche di Michela Torricelli e le incisioni di Loredana Müller non possiamo farlo che sul piano formale e, dunque, materico. 

Quanto avevamo detto per le ceramiche della Torricelli, lo ritroviamo anche nelle regole che soggiacciono alle costruzioni incisorie della Müller, non riuscendo ad avere la certezza che il ramo con le foglie lunghe e sottili si trovi invero intrappolato all'interno della stessa carta; facciamo fatica a comprendere se i racemi siano impressi, se traspaiano o se siano fisicamente inglobati nella trama vegetale. I segni rendono la carta simile a una lastra sulla cui lapidea pelle siano incisi, e simili al disegno di una filigrana, le impalpabili ramificazioni delle piante. Ma anche qui potremmo essere di fronte a ciò che resta, un sudario, un erbario fossile in cui il vegetale ha assunto la consistenza della sostanza ospitante, mentre il colore si incarica di alludere alla profondità ed esprimere le varie sovrapposizioni ed è, pertanto, una sorta di indicatore che fa saltare i diversi periodi succedutisi, nella collezione dei segni, poiché a ciascun colore non corrisponde un'univoca datazione. La presenza del colore essendo, peraltro, nella Müller sempre presente e alludente a una chimica che presiede sia all'organico che all'inorganico, intercettando una zona indecidibile. Una distanza incolmabile separa l'oggetto rappresentato dell'oggetto reale: le piantine raccolte, se sono incise sulla carta, stilizzate, raffrenate nel moto e nella crescita, sono anche divenute schema, pianta originaria in una foresta di piante originarie.

Ecco, dunque, che non solo le due artiste svizzere ci sembrano - dopo questa riflessione - accumunate da una equivalente attitudine a tramutare la sostanza, la quale da nota trapassa a sconosciuta o inconsueta, quanto anche contemporaneamente intente a coartare il tempo espungendolo dallo spazio. Che tempo e spazio viaggino insieme è dettato scientifico, esperenziale, ma, si sa, l'arte ha la capacità di rendere estraneo o non credibile proprio ciò che diamo per scontato. Nei monoliti bianchi della Torricelli o nel fossile erbario della Müller, il tempo ha perso la capacità di valere come sistema di misurazione cronologico. 

Tramite la variazione, la quale produce uno slittamento formale, si ha un mutamento infinitesimo, ma costante, il quale è usato da entrambe le artiste come un grimaldello che estrometta il contesto, la totalità, al fine di focalizzare l'attenzione esclusivamente sul dettaglio. Il dettaglio, ciò che è singolare, è insostituibile: entità a cui restare aggrappati, a  meno di non perdere il contenuto stesso di ogni conoscenza, come da dettato kantiano,  è la cifra segreta rispetto alla quale il moto impresso nei monoliti di ceramica o nelle veline stratificate della carta emerge in primo piano. In particolare, il moto, che la posizione vorticante delle foglie e dei virgulti mette in atto, causando la perdita dell'orientamento assieme alla rotazione percettiva del foglio, nelle opere della Müller, mentre nella Torricelli è quello delle superfici azionate dai volumi che si torcono. Lo spazio riemerge senza tempo, perché la variazione è insita nella forma, e cambia incessantemente, senza più riuscire a infiggersi o collocarsi.

Le opere, dissaldando il congegno percettivo dello spazio e del tempo, consentono l'emersione del procedimento di alterazione delle sostanze: le loro forme, ferme e sbilenche sul baratro delle apparenze, provocano una vertigine e affermano che arte non consente la normale percezione della materia. Di fronte alla collocazione di opere ceramiche e incisorie, le quali si susseguono senza soluzione di continuità nello spazio espositivo di Areapangeart, sappiamo che la materia dell'arte è sostanza non esistente in natura.

                                                                            Rosa Pierno









giovedì 19 gennaio 2017

Due poesie inedite di Marco Furia, 2016




Quali fenomeni fisici determina il pronunciamento d'una parola, di una piccola frase: "Il mondo non si scioglie"? Nella parola liquida o aerea, piena o sapida, pare condensarsi, per un attimo che sa d'infinito, l'interiore qualità dell'esistente. Perché certo la parola non risolve l'enigma del senso del mondo. La sintassi con tutti i suoi suadenti e alambiccati stili può persino complicare l'esito della nostra ricezione della realtà. O risolversi totalmente nel singolo vocabolo, il quale dà vita a un ritmo nella trama poetica, costituendone la segreta misura.
Capace di dar luogo a una sonorità che non è musica, ma che attinge a relazioni siderali, metaforicamente concesse a una stella fra le stelle, il canto emerge in ogni caso dalla materia e la materia vi è presente sia astrattamente che concretamente. Il respiro è pieno di particelle acquoree e pare, nella scansione delle sillabe, avere scaglie che barbigliano. Una parola così disossata pare possa restituire il silenzio, come sua forma di metamorfosi estrema. Quel silenzio capace di collegare la parola pronunciata alla vita e alla morte, le quali sono due volatili parole anch'esse, ma nemmeno tramite loro il mondo si scioglie. Anche se appare inevitabilmente trasformato.

In ogni caso, Marco Furia, intende indagare sull'essenza del fenomeno, ma l'indagine condotta in "S'illumina l'attimo" più che un astrarre sarebbe un approfondire, allargando via via le spire al fine d'inglobare quanti più dettagli possibile, fermarsi cioè alla superficie per effettuare quanto più estesamente la propria perlustrazione. Il senso essendo tutto sparpagliato su un piano, dove la sinestesia mette in collegamento materie differenti che appaiono similari. Gli stessi suoni, colori, luce, silenzio sembrano potersi attribuire così a oggetti distantissimi, ma il piano è quello della pagina: un piano riflettente.



Il mondo non si scioglie

Il mondo non si scioglie
negli stili
del docile linguaggio
ma s’aggruma
nel risveglio improvviso
nella voce
d’una minima, tacita
parola
che illesa mostra l’attimo
infinito
del complicato intreccio
della trama
d’enigmatici ritmi:
indenne il coro
che desto s’azzittisce
è vibrazione
d’inesistente corda
è già armoniosa
non acustica musica:
non eco
del cielo è quella stella
intatto lume
che noncurante brilla:
non dal suono
emerge il canto e l’umido
respiro
solitario riverbero
si muta
in policrome scaglie:
forse vive
nel silenzio il silenzio
o forse muore.







S’illumina l’attimo

S’illumina l’attimo
e svela
la sua lustra indole
stile
d’indenne baleno
pur stasi
del tempo che corre
e che schivo
non parla, ma zitto
colora
di chiari pigmenti
improvvisi
l’effimero, vivido
suono
d’incanto policromo
muto
riverbero splendido
lume
intatta lucerna
che accesa
rifulge istantanea
s’oscura
accenno imprevisto
richiamo
silenzio enigmatico
voce
che già si risveglia
rifiata
spargendo insondabili
echi
di tacite impronte
non buie.

giovedì 12 gennaio 2017

Il segreto dell'Albero della Vita. Considerazioni sulla poesia tra dualismo ebraico e filosofia occidentale di Stefano Iori





“Osanna, sanctus Deus sabaòth”: questo scrisse Dante Alighieri in apertura del canto VII del suo Paradiso. Deus sabaòth, secondo la traduzione di Angela e Giulio Malvani (Arbor Vitae, Edizioni Penne & Papiri, 1998) significa letteralmente “Dio delle opposte schiere”, ossia la divinità che a tutto ha dato vita e origine su base duale.
Il genio fiorentino mostrò dunque preciso interesse per la concezione duale che sta alla base del pensiero ebraico da cui fu affascinato e influenzato, anche grazie alla proficua amicizia con Immanuel ben Solomon ben Jekuthièl, poeta coevo e buon conoscitore della letteratura biblica e talmudica.

Il Dio degli ebrei ha dato vita al femminile e al maschile (Adam, nella Torà, fu creato a immagine di Dio stesso: femmina e maschio). Ha inoltre creato negativo e positivo, tenebre e luce, severità e grazia, freddo e caldo, morte e nascita. HaShem è il creatore degli opposti.

L'Albero della Vita, l'Otz Chiim descritto nella Cabbalà, appare come il trionfo di tale dualità. È  costituito da due rami e da un tronco. Gli elementi opposti, poco sopra riportati, sono evidenziati rispettivamente sul ramo sinistro e su quello destro. In mezzo c'è quello che potremmo definire la conseguenza (sebbene portante) di tale dualità, ovvero il fusto stesso dell'Albero, il tronco su cui sono incisi altri nomi. Tra morte e nascita, per esempio, c'è la parola vita, come tra tutti gli altri opposti viene a trovarsi l'elemento corrispondente in termini di equilibrio: tra freddo e caldo ecco la temperatura mite e tra severità (rigore) e grazia (dolcezza) leggeremo la parola equilibrio, ma anche misericordia e clemenza (vedi ancora Angela e Giulio Malvani, Arbor Vitae, Edizioni Penne & Papiri, 1998).
Come scrisse Isaia (45, 7), non vi può essere manifestazione (vitale) senza la preventiva differenziazione nelle coppie degli opposti: “... formando la luce e creando la tenebra, facendo la pace e scatenando le guerre, io, Geova, faccio tutte queste cose...”. Ciò significa che Egli creò l'Universo mediante il gioco del duale, ovvero tramite la separazione e la combinazione (alchemica) degli opposti.

Gershom Sholem nel suo libro La stella di David: storia di un simbolo (Giuntina, 2013), spiega come il principale simbolo dell'ebraismo sia divenuto tale solo passando dal crogiolo della storia. Tuttavia il Magen David (ovvero, correttamente, il carapace o lo scudo di Davide), altro non è che l'intreccio di due triangoli i cui vertici puntano in direzioni opposte, in alto e in basso. Un unicum che protegge, ma che nasce dagli opposti.

Tra i due rami dell'Albero della Vita, scrivevo poc'anzi, c'è dunque un terzo elemento: il tronco. Che non è Dio. Egli sta sopra l'Albero, oltre le tre nubi dell'Ain (il nulla), dell'Ain Soph  (senza fine, l'infinito) e dell'Ain Soph Aur (luce senza fine). Il Dio degli ebrei rimane immanifesto, dietro tali nubi, poiché è anteriore alle sue stesse opere, ovvero a ciò che Egli creò per offrire agli umani una via (l'Albero) per giungere il più vicino possibile alla Sua conoscenza.
Il tronco, in buona sostanza, siamo noi: gli uomini e le donne. Per elevarci, per raggiungere la sapienza e la luce, dobbiamo conoscere gli opposti (e qui serve lo studio) e poi trovare un equilibrio tra questi (e qui serve il fare – ovvero la poesia).
“Esegui e agisci più di quanto studi” o secondo altra traduzione “studiare a scopo di eseguire” è uno dei quarantotto requisiti per acquisire la Torà (Pirké Avòt, cap. VI-5). L'armonia va dunque cercata nel farsi del nostro comportamento, come pure nel farsi della poesia, intesa come lingua originaria, aurorale (originata dal bene e dal male e quindi dal fare-scrivere tra gli opposti). Lingua da inventare, come venne creato l'ebraico nei quarant'anni della peregrinazione nel deserto, dopo il  Kriat Yam Suph, il passaggio del Mar Rosso.

Per gli ebrei la lingua è il luogo in cui risiedono sia la fede che la sapienza. Le parole celebrano, ma hanno pure il potere di separare: dividono la quotidianità profana dal trascendente offrendo un “riparo” in cui “proteggere” il divino. Nella lingua ebraica lo straniamento mistico trova ristoro, prima di spingere l'uomo e la donna nell'oltre-misura della sapienza.

Della lingua della Torà, bisogna conoscere ogni parola e ogni lettera, ma anche i silenzi che vivono negli spazi vuoti tra le parole stesse e poi ancora tra una lettera e l'altra, dice un motto della tradizione. Un altro aforisma, attribuito a Rabbi Mendel, esprime una precisazione diversa (e quasi minacciosa) ma in linea con la precedente massima: “Ogni parola è una figura perfetta e chi getta ai demoni gli accenti della parola si comporta verso di essa come chi si solleva contro il suo prossimo”. In un  Midrash è poi scritto che “Questa nazione (quella dei giudei) combatte attraverso le parole”.

Parole e silenzi da conoscere e trattare con rispetto, ricerca della (im) possibile perfezione, lotta per la conoscenza. Non sono forse ricette ben più che adeguate per un poeta?

È dunque possibile, partendo dal seme più intimo dell'ebraismo, dire della poesia come fare-scrivere tra gli opposti e come lingua di fatto “nuova”?

La poesia, cui non può mai mancare la sincerità (sarebbe folle scrivere versi bugiardi) ha come punto di forza l'emozione di chi scrive e quella di chi legge (ancora un “due”) e questa non viene incisa nero su bianco nella lingua della comunicazione, che serve per intendersi su argomenti semplici o trasmettere informazioni, ma viene in luce (in voce) nel contesto dell'esplorazione di ciò che è ignoto e che può scriversi (solo) tramite la lingua poetica.  L'inconnu è d'altronde a portata di mano. Nella verità di ogni giorno, se vissuto con la grazia del pensiero e del dubbio (C'è qui, sull'orlo di chi siamo, un impensato da capire? - Yves Bonnefoy).
Ogni giorno l'uomo e la donna devono decidere se agire in un modo o nell'altro, se dire una cosa o il suo contrario. Dal dubbio viene la sapienza. Non a caso, tornando alla cultura ebraica, ogni paragrafo del Talmud nasce da un quesito cui si risponde nella dialettica.
In estrema sintesi, la poesia (sincera per antonomasia), ovvero il farsi della conoscenza, viene dal dubbio (dagli opposti) e lo supera con la scienza-arte dell'invenzione lirica, l'unica con cui è possibile sondare l'ignoto, ovvero ciò che ancora non si conosce e che viene a scriversi “per la prima volta”.

Circa l'elemento della novità (della originaria virginalità) della poesia non posso che ricordare come questa sia considerata da Martin Heidegger l’arte per eccellenza: tale superiorità le deriva dall’uso della parola in senso, appunto, inaugurale (originario) e quindi dalla creazione di un particolare linguaggio. Alternativo rispetto a quello teso a rendere semplicemente comprensibili i pensieri di chi dice o scrive. Alternativo nel senso, nel significato e nei significanti. Alternativo, perciò necessario.
Proseguendo lungo il percorso tracciato da Heidegger, di fatto, in poesia, la parola non è importante per ciò che esprime, bensì per il preciso coinvolgimento emotivo che realizza; mentre il linguaggio quotidiano si limita a rimandare agli oggetti semplicemente presenti, nella poesia la parola ha una propria unicità e un proprio valore: “è come se accadesse per la prima volta”, scriveva il grande filosofo tedesco.
Cogliendo e affermando il primato della poesia rispetto alla filosofia, Heidegger sostiene di fatto che in poesia il senso non ha bisogno di difese (ricordo il precedente accenno alla sincerità della poesia). La poesia fonda il senso. Poesia è la parola che istituisce, nomina lo spazio-tempo unico del decidersi iniziale.

L'ebraismo, dunque, ci insegna come la vitalità poetica nasca dagli opposti e come il dubbio stia alla base della sapienza. Heidegger ci offre poi come lascito intellettuale il dato che la sapienza stessa  non può che trarre forza e fine al tempo stesso dalla propria intrinseca auroralità: per andare oltre il conosciuto c'è bisogno di una lingua nuova. Dal due del dubbio al tre in divenire della sapienza.

Dai due rami dell'Otz Chiim nasce il terzo elemento, il tronco, e non il contrario, come potrebbe apparire da una semplice lettura in termini botanici. L'Albero della Vita è purissima invenzione simbolica e l'intrinseco insegnamento suo va percepito oltre il senso comune delle cose.

Nella cultura ebraica la poesia è, di fatto, la lingua propria delle Scritture, misteriose, da esplorare, da talmudiare e interpretare. Non a caso Il Cantico dei cantici, da molti ritenuto il più grande testo poetico d'amore di tutte le letterature, è parte integrante della Torà, sebbene uno degli ultimi testi accolti nel canone del Tanakh. Ed è un testo da molti ritenuto “incomprensibile”, o addirittura “vuoto”, come ad esempio sostenne Guido Ceronetti nelle edizioni del Cantico da lui curate per Adelphi, con varie date di pubblicazione. La magia del cantico starebbe dunque in un segreto ancora inconoscibile.
Quando a Giuseppe Ungaretti, in un'intervista televisiva, fu chiesto cosa facesse di uno scritto una poesia, il poeta  rispose che la poesia è tale se “contiene un segreto”. Ed ecco un'autorevole conferma di quanto prima riportato, alludendo a Ceronetti, circa il Cantico.

Se dovessi aggiungere tre parole agli elenchi dell'Otz Chiim, scriverei “segreto” e “svelamento” su due opposti rami e in corrispondenza, sul tronco, scriverei “poesia”.
La poesia rivela l'irrilevabile, accoglie ciò che è velato nel dire comune. L'esito di tale operazione sugli opposti vive di vita propria in quanto anelito dell'uomo verso il mondo superiore. E un mondo superiore può essere solo quello di una umanità che inventa una nuova lingua transpersonale. Proprio come la lingua ebraica, l'unica inventata, l'unica ad arte costruita per dire del Divino e, di fatto, per dare intima identità alla comunità prescelta.

"Il Creatore vuole dall'uomo la realizzazione della sua singolare irripetibilità, non l'adeguamento a uno schema collettivo prestabilito". Così scriveva Roberto Della Rocca nel suo libro Con lo sguardo alla luna (La Giuntina, 2015). E se l'essere umano è singolarmente irripetibile, sarà anche, di fatto, perfetto, in quanto unico.
La poesia non può che essere lo specchio di tale luminosa, singolare perfezione: una lingua nuova che non può adeguarsi allo schema prestabilito della comunicazione. La poesia ha quindi il compito (ineludibile) di crearsi procedendo per invenzione. Unica lingua dell'uomo e della donna “irripetibili”.

                                                                                                Stefano Iori

mercoledì 4 gennaio 2017

Giuseppe Appella “Il libro d’artista, ovvero l’arte del libro” presso la Fondazione Tito Balestra




Quattro capolavori con incisioni e litografie originali di Matisse, Picasso, Mirò e Calder
a cura di Giuseppe Appella, Flaminio Balestra, Massimo Balestra
in collaborazione con il MIG.Museo Internazionale della Grafica di Castronuovo di Sant’Andrea (PZ)

 I quattro libri d’artista selezionati per questa esposizione intendono testimoniare l’immagine significativa dell’intelligenza creativa di alcuni dei maggiori artisti, che hanno aperto il XX secolo o lo hanno attraversato infondendo quel grande appagamento visivo che scaturisce da segni e figure distribuiti a fianco delle parole. La consonanza di parola e immagine, dunque, nell’azzardo creativo di opere grafiche che vogliono rimeditare e riplasmare quanto viene riconosciuto come duraturo annullando la generalizzazione della lingua; la possibilità di “leggere” l’evoluzione di talenti diversissimi in forme originali che sfuggono alla semplice illustrazione, tracciando un panorama, piccolo ma prezioso, dell’attività editoriale europea in riferimento ad opere destinate agli amatori del “libro d’artista” che si fa “arte del libro”; un viaggio attraverso l’immaginazione degli artisti che spesso hanno lasciato più tenace memoria del loro lavoro nelle pagine di libri divenuti catalizzatori di ricerche e di studi che permettono di conoscere un secolo.
La mostra è dedicata a Tito Balestra (1923-1976) che amò i libri e l’arte con la medesima intensità e realizzò lui stesso i suoi libri d’artista insieme agli amici Mino Maccari e Alberto Sughi: Se hai una montagna di neve tienila all’ombra, con sei acqueforti di Mino Maccari (L’Arco Edizioni d’Arte, Roma 1974) e Oggetto: la via Emilia, con quattro acqueforti di Alberto Sughi (L’Arco Edizioni d’Arte, Roma 1976).
Henri Matisse, Poèmes de Charles d’Orléans, con cento litografie a colori realizzate sotto la direzione dell’artista nell’atelier Mourlot Frères per le edizioni Tériade, a Parigi nel 1950. Matisse è attratto dalla figura di Charles d’Orléans (Parigi 24 novembre 1394 - Amboise 5 gennaio 1465), dalla vita di questo duca d’Orléans figlio di Luigi I, fratello del re di Francia Carlo I, e di Valentina Visconti, figlia del Duca di Milano. Le rivalità familiari, i matrimoni, le eredità (alla morte della madre riceverà la contea di Asti e alcune terre in Lombardia), le sconfitte in guerra e la lunga prigionia in Inghilterra durante la quale scrive i suoi poemi, opere considerevoli comprendenti 131 canzoni, 102 ballate, 7 compianti e più di 400 rondò, lo incuriosiscono e lo sollecitano alla lettura. Tra tutti questi componimenti lirici, Matisse compie una scelta oculata, con una preferenza per il rondò, strofe di sei o otto versi cantati su uno schema musicale precostituito il cui movimento conclusivo è costruito su un tema principale ripetuto e alternato con altri temi da esso derivati, proprio come la sua pittura, tutta temi e varianti. Comincia a lavorare al libro nel 1943, a Nizza, ricopiando ad inchiostro, su ampi fogli, rondò e canzoni contornate, a pastello, da ripetuti gigli di Francia e volti di donne, ma non soddisfatto delle prove litografiche di Martin Fabiani, sette anni più tardi ne affida la stampa a Tériade che riesce a raggiungere ciò che Matisse sosteneva necessario in ogni libro d’artista: “Il pittore e lo scrittore devono agire insieme, senza confusione, ma in parallelo. Il disegno deve essere un equivalente plastico del poema”. Sarà il disegno, infatti, a consentirgli ciò che lo separa dagli Impressionisti: rendere lo splendore della luce, che non avvolge gli oggetti o sfuma le forme ma esalta i toni, rafforza i contorni, semplifica le forme.
Jean Cocteau, Picasso de 1916 à 1961, con 24 litografie di Picasso, stampate da Mourlot - Éditions Du Rocher, a Parigi nel 1962. Il libro, pubblicato in occasione degli ottant’anni di Picasso e dedicato “avec ma tendresse fidèle” a Jaqueline, raccoglie una scelta di testi, in prosa e in versi, di Jean Cocteau pubblicati tra il 1916 e il 1961. Le litografie sono un esempio lampante del cambiamento di stile operato da Picasso negli ultimi anni, tesi alla reinterpretazione dei maestri (Velázquez, Goya, Poussin, Manet, Courbet, Delacroix) attraverso una rielaborazione di segni che sembrano una miscela di stili e invece sono ancora una volta innovatori. Al tempo stesso, sono uno specchio dell’originalità e della capacità espressiva di un personaggio poliedrico come Cocteau che fu poeta, saggista, drammaturgo, sceneggiatore, disegnatore, scrittore, librettista, regista ed attore.
Joan Mirò, Les essències de la terra, Edicion Poligrafa, Barcellona 1968, con litografie a colori che inneggiano a una terra fertilissima che per secoli è stata il sostegno di chi l’ha coltivata, e ripercorrono i gesti e segni della quotidianità compiuti da millenni dagli uomini intenti a estrarne le sue essenze. Il campo di grano, il solco dell’aratro, l’orto e i suoi frutti colorati, la vigna, l’acino d’uva spremuto, il volo delle api, lo splendore degli alberi in autunno, un ciliegio e un mandorlo in fiore, tessono lo scorrere delle stagioni e le gioie, le speranze e le delusioni di intere generazioni ritornate polvere di una terra che hanno visto sorgere o hanno inventato con amore, pazienza, lavoro e fantasia.
Alexander Calder, Santa Claus, nove incisioni e un racconto di E. E. Cummings, stampato a Parigi per le Editions de l’Herne nel 1974. Santa Claus di Cummings è una commedia-allegoria del capitalismo, rappresentata in un unico atto di cinque scene. Ispirata dalla figlia Nancy, con la quale il poeta si riunì nel 1946, dopo un lungo periodo di separazione, ha tra i suoi principali personaggi Santa Claus, la sua famiglia (una donna e un bambino), la Morte e la Folla. La famiglia, disgregata, riesce a ritrovare l’unione attraverso la fede di Santa Claus, nell’amore e nel rifiuto di ogni materialismo.
A integrazione dei quattro libri d’artista, due esempi di una rivista celebre contenente grafiche originali, “Derrière le Miroir” di Aimé Maeght: Stabiles di Alexander Calder, Parigi 1963, e Peintures sur papier. Dessins di Joan Mirò, Parigi 1971.
Giuseppe Appella

FONDAZIONE TITO BALESTRA ONLUS
Galleria d’arte moderna e contemporanea
Castello Malatestiano di Longiano (FC)
27 novembre 2016 - 31 gennaio 2017