domenica 25 agosto 2013

“L’Oggetto” di Rosa Pierno, dal n. 49 di Anterem, II semestre del 1994

Due strisce nere. Le gambe oppure il fianco destro e il fianco sinistro. Semicoperti dalla stoffa. Adagiati su una carta da parato che mima intrecci di paglia.

E grandi cerchi. La testa o la zona di interesse focale.

Asole fanno prevedere una spoliazione.

Adagia un sesso caldo su fondo rosa.

Il colore si sta sciogliendo, riga il corpo bianco.

Riecheggiano nella stanza parole comuni: “Ti amo”.

La pelle coincide con l’estensione della tela.

Fa caldo. L’aria ribolle, il corpo è immerso nella luce. Gli unici recinti che restano sono quelli fra i colori.

Dice “ti amo” come se volesse imprimere sulla pelle un marchio a fuoco.

Si serve di radiografie. Proietta la mandibola. Vi accosta l’ingombro del fegato. Dice: “Questo è il collage del corpo”.

Gratta la tela con una lametta. Vi attacca con la colla un ciuffo di peli neri.

Dice: “Corpo “ e spennella ocra.

Ha infagottato gli amanti. Li ha impacchettati e legati insieme.

Li ha distesi l’uno accanto all’altro in una sequenza fotografica. Non si distingue il sesso.

Distribuisce la colla lungo le linee delle membra. Pressando con le mani ottiene superfici unificate.

È carta di riso. Attraverso, si legge il fondo. Il fondo nero del consunto amore.

Ai piedi del letto lei s’inchina nel togliersi dalla testa il vestito. Appare del colore del fuoco.

La copre con tende o coperte troppo piccole o pezzi di nastro adesivo colorato.

Correda le inanimate membra di stanze. Vi mette il necessario: vasche, specchi ovali, tende, paraventi, porte, colori accesi.

I seni, le mani, il triangolo del pube, l’ovale dell’utero, la carta decorata a mano. Tutto viene assemblato, stratificato, trasformato in un oggetto analogo.

L’unione fisica come innesto di due forme rigide.

Scrive “ti amo” in nero sul corpo giallo e rosso.

Gli amanti si fondono nella notte. Divengono di pece.

Le orme che lasciano nel letto non scoloriscono alla luce.

Figure dialogano contro una striscia d’azzurro.

Avvinghiati si tuffano nell’acqua.

Si schianta sul foglio. Lo inonda di inchiostro blu.

Dispone garofani neri intorno a un inerte oggetto bianco.


 

                                                                                 Rosa Pierno

lunedì 19 agosto 2013

NOTE SULLA RICERCA LETTERARIA DI “ANTEREM”, QUARTA SERIE DELLA RIVISTA: 1993-2001



Figure della duplicità


Il nome “Anterem”
Il nome “Anterem” nasce porgendo attenzione al valore originario della parola, chiamata a essere il luogo di raccordo tra sensibilità e percezione. Questa espressione fa cenno all’«= 0» hölderliniano (Il significato delle tragedie e Mnemosyne) che – evocando l’«uguale a zero» di Sofocle (Edipo re) – richiama quel «procedimento dello spirito poetico» che impone all’essere e all’esistere di presentarsi privi di separazione, indivisi, e tuttavia reciprocamente distinti.
Altri riferimenti si trovano nelle «archai» che Nietzsche colloca nel «sottosuolo della storia» (Umano, troppo umano) e che Deleuze e Guattari affidano a quella parola rizomatica (Rizoma) a cui è dedicata la prima serie della rivista (1976-78).
Ma l’opera su cui esplicitamente fa presa il nome “Anterem” è la Scienza nuova di Vico, dove leggiamo: «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso, ed è propietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti».
Sarà lo stesso Vico a citare a questo proposito una riflessione di Spinoza: «La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio».

Figure della duplicità
La quarta serie della rivista (1993-2001) è dedicata alle Figure della duplicità.
In queste pagine viene, sì, ribadito che nell’alleanza tra parola poetica e parola cognitiva sta la strada percorribile per l’esperienza di pensiero del poeta; ma si annuncia altresì che ulteriori e decisivi spostamenti vanno compiuti. Utili a introdurci in una tonalità poetica ancor più complessa e rischiosa. In una pratica della scrittura di cui non è agevole immaginare i contorni e gli esiti. Uno scrivere che della parola sconvolga i margini, alteri i limiti e mostri le irrisolte contraddizioni. Uno scrivere che si volga alla produzione di segni di nascondimento, dove la parola produca i termini del silenzio da cui trae origine.
Diciamo subito che il cammino di pensiero che cerca di esporsi da se stesso sull’orlo dell’enigmaticità, e di corrispondere all’evento della risposta come evento sempre originario, è ancora lungo.
Ma cominciamo intanto a prendere distanza da una fisica del puro sentire e del mero pensare. Con l’auspicio che non vada confusa la kantiana “assenza di finalità” della letteratura con l’assenza di “responsabilità”.
Responsabilità che va cercata nell’altrimenti di una scrittura che non proceda pietrificando le cose nei concetti e nelle idee. E che si faccia carico di un compito non più solo estetico, ma anche etico. Che concepisca la duplicità – quell’inaugurale, arcaica convertibilità di presenza e assenza, essere e nulla, bene e male, che è la libertà – senza la sopraffazione di un potere. Ed elabori un pensiero che oltre il potere sia pensabile, e sia rivolto alla verità dell’uomo, del suo essere al mondo, del mondo stesso.
Ogni opera milita sempre per una certa parte: prende partito, insomma.
In generale, la poesia è un’obiezione contro questa realtà.
Come “Anterem” intenda la duplicità viene messo in rilievo nel numero dedicato all’Endiadi (n. 59, dicembre 1999).
Endiadi, hén diá dyóin, uno per mezzo di due: non una generica ambiguità, ma l’“endiadi”, la vera e propria irriducibile compresenza del due-in-uno.
S’impone, con questa figura della duplicità, la controversa questione sul senso che nel testo si articola quando nella parola viene ripristinata l’inaugurale coappartenenza tra voce e silenzio, mantenendo ferma la differenza che il mondo, costituendosi in categorie, sopprime.
Ciò che gli esseri umani non intendono è il coincidere degli opposti. Eraclito è esplicito a questo proposito: «Non intendono come da sé discordando con sé concordi». Per gli uomini ciò che diverge non può nel medesimo tempo convergere... In realtà, la parola poetica concorda con se stessa proprio mentre da se stessa discorda. E ce lo dimostra conducendoci proprio dove i contrari sono complementari e gli opposti si richiamano. Dove l’uno contiene in sé anche il suo contrario ed è un’endiadi.
Portarsi all’origine di questa lacerazione significa esattamente cogliere la coscienza umana al suo sorgere, il formarsi dell’essere come custode della differenza. Fino a riconoscere l’Altro da sé e mantenerlo nella sua alterità, ottenendo dall’opposizione un accordo.
Ma com’è pensabile l’armonia dei differenti? e, insieme, il doppio sguardo che implica il loro confinare?
Oggi la poesia è assenso all’essere attraversato dal silenzio. E proprio di quel silenzio – in cammino verso il senso – costituisce una rivelazione.
La sua avventura si svolge tra gli estremi di un pendolo, la cui aporeticità è data dal richiamo dell’uno all’altro, suo volto speculare, confine di un dualismo costitutivo e massima distanza. Per questo implica un rispondere e un corrispondere: chi ascolta è chiamato.

Flavio Ermini

giovedì 8 agosto 2013

Angela Giannitrapani su “Corpi” di Rosa Pierno, Anterem Edizioni, 1991

Masse di parole in movimento all’interno di brevi zone, o limitati circuiti che dall’uno all’altro propagano il ritmo ondulatorio di piccole  - non sempre avvertibili -  maree, motivi ripetuti e ripetute cadenze e pause, varianti entro perimetri  fin quando l superficie si altera, anche se di poco, per poi tornare apparentemente intatta, con una sua severità, materia verbale a cui il personaggio sembra doversi o volersi arrendere. Perché ecco il basilare carattere dei tre racconti che formano il volume di Rosa Pierno – “Il ragazzo”, “Il corpo di lei”, “Fruttiera con limoni” -: la resa, talora fittizia, del personaggio all’impasto materico come insegna certa pittura novecentesca, la più innovatrice e rivoluzionaria. L’intento figurale forse mero pretesto per la distribuzione del colore sulla tavola o sulla tela.
Ma almeno nel primo racconto l’intento arriva a identificarsi con la distribuzione, personaggio e paesaggio non di rado si scambiano i ruoli, il ragazzo (coscienza, filtro) spia e controlla e assorbe, la natura tutt’altro che passiva calàmita l’occhio, invade la rètina, sveglia nel ragazzo il potere fantastico, emula il “paesaggio interiore”. L’attività dello sguardo procede a blocchi, diremmo strofe, e gli intervalli hanno il sapore del silenzio come per un riposo mentale, indicano un’assenza temporanea, sono spazi vuoti ma non inutili, il loro bianco (alla maniera del lontano Cézanne) elemento integrante del testo.
Nel successivo racconto essi invece frantumano la pagina, accompagnando o mimando la frantumazione del “corpo di lei”, della donna il cui il ritorno l’uomo  aspetta. Vi si giocano due partite, entrambe a distanza. Quella vitale su una scacchiera immaginaria muove qua e là “i pezzi” (segmenti) del corpo femminile per ricostruirne l’insieme; il ricordo scompone e ricompone, separa e unisce; un dettaglio empie la fantasia, lo raggiungono altri dettagli; minimi indizi o interezza, bisogna cavarne un significato. Ancora l’attività dello sguardo, volto però soprattutto all’interno: “È con gli sguardi che costruisce ponti rampanti, che si aggetta fino al corpo di quella donna, che vi si lega con più nodi”. La seconda partita, a scacchi, risulta legata alla prima “con più nodi”: appunto perché va avanti per corrispondenza, “Gli sarebbe (…) potuto capitare di non sapere se stava aspettando lei o la prossima mossa. (…) L’attesa, raddoppiandosi, avrebbe figliato mille attese, rifrangendo l’inizio, facendoglielo perdere di vista. Alfine non avrebbe più saputo cosa attendere. Allora avrebbe avuto il presente intero”. I parallelismi, l’intersecarsi di impegni immediati (la sfida agli scacchi, la realtà intorno) e di memorie portate a recitare nell’oggi, il rimando dalle piastre del pavimento alle caselle della scacchiera mischiano le due attese, le due sfide: “Gioca a scacchi per pensare a lei. Vuole ridurla a un denominatore comune, attraverso confronti di situazioni analoghe, verifiche su spostamenti”; “Tutte le possibili combinazioni che lui può generare, spostandola sulla scacchiera, facendola parlare, ricordandosela”. La prosa frantumata supera la frantumazione; i vuoti si mutano in “ponti rampanti”, da ponte a ponte la materia verbale ripristina l’altalena fra passato e presente per piegare il futuro.
Ma la partita più grossa, più aspra, exacting, è giocata in “Fruttiera con limoni”. Qui lo sguardo non basta, deve diventare azione concreta traducendosi in superficie di colore, in spessore di materia , in vertigine di ritagli dal vero, e tutto come sfida della parola a consegnare pittura, mentre la coscienza centrale (l’artista) suggerisce l’uso della terza o prima persona indifferentemente e le strofe impongono il salto dei vuoti simili alle “ampie chiazze di bianco” nel cielo che si squarcia “sotto il peso dell’osservazione”. Il giallo domina i blocchi, le strofe, ma ci sono anche azzurri violenti, e il rosso fuoco, e il verde. Il programma si rivela audace. “Il limone diviene intoccabile. Forzato della sua natura, tolto al reale, reso parola o forma impropria”; “Niente a cui appigliarsi, da cui partire, per dar luogo al movimento lineare del pensiero”. Così Rosa Pierno stende la parola imitando il pittore, assediandolo, ripetendone i gesti, rapinandogli lo sguardo, ritagliando limoni.   Il giallo si trasferisce nella parola scritta, dilaga blocco dopo blocco, luci e penombre e altri colori lo attenuano o incendiano. “Elidere la profondità, ridurre tutto a superficie, una superficie che fosse apparizione da poco ridestata alla coscienza, su cui galleggiasse il giallo, un giallo che si desse come limone”: è il compito della scrittura che vuole “darsi “ come pittura, quindi superficie, senza radici, senza profondità, solo rettangoli di tela, “zolla disseccata”, un “selciato” al quale l’artista aggiunge “bagliori d’oro”.
Le strofe, nel volume, fanno pensare a costellazioni d’isolotti, arcipelaghi, anche perché il ribattere sugli stessi temi ha la forza di un prolungamento della voce, voce marina, quella dell’onda ch e inesausta torna ad assalire la terraferma.  


                                                                      Angela Giannitrapani