venerdì 31 luglio 2020

Mario Fresa “Bestia divina” La scuola di Pitagora editrice, 2020




Sono le frasi appartenenti al dominio quotidiano a procurare lo sconcerto, nel nuovo libro di Mario Fresa Bestia divina, La scuola di Pitagora editrice, 2020, poiché immesse in un tessuto incistato da sconnessure grammaticali, da fratture fra genere e numero, da incongruenze tra sostantivo e aggettivo. Le proposizioni immediatamente riconoscibili, in un testo congegnato in siffatto modo, finiscono col brillare di vivida luce, immesse, come sono, in un terreno fangoso, in una palude manganelliana. Due esempi: “Lo sente piangere e sa pure decifrarlo camminando” e “Quando sviene al millesimo, gli pare quasi di non aver paura”. 
Le proposizioni che appartengono al linguaggio comune, quelle con le quali esprimiamo i nostri stati d’animo, il dolore o il piacere, gli affetti, le percezioni, gli stati fisici, appaiono come una sorta di scatola chiusa, non ulteriormente verificabile. Messe a sfrigolare con l’incongruo, perdono la banalità che deriva loro dall’uso consueto. Se si afferma di avere mal di denti, vuol dire che si è già in grado di associare la frase all’infiammazione e che si sa che colui che ascolta, se ha ricevuto la medesima educazione, è in grado di comprendere il significato della frase. Wittgenstein ha dedicato uno scandaglio senza pari allo studio del funzionamento linguistico e qui, con Fresa, vediamo compiersi un ulteriore avanzamento.
“Quando sviene al millesimo, gli pare quasi
di non aver paura. Dice: pestare notte,
mettere l’ombra a posto; sono mantelli e
piccole sventure. Cadiamo da un odore familiare” 
Nello scrutare quello che accade quando il senso e il non-senso sono accostati, si nota, infatti, una tendenza a ricostruire un senso compiuto, il quale appare comunque bloccato – in conseguenza di un punto che segue ‘perché’, oppure di un verbo che esprime un’azione  che è incongruente con il soggetto – sia grammaticalmente sia semanticamente. Prendiamo pertanto atto che il tentativo di cavarne un significato appare sotto scacco. La valenza semantica ha tuttavia una tale forza da illuminare anche le cose che sembrano giacere inerti. Quel “non avere paura”, intanto, si è arricchito visivamente di ombre, mantelli, odore, notte, stomaco…tutto un insieme di specificazioni che fanno a meno della struttura sintattica, ma che si assiepano fino a corroborare il significato consueto dandogli una fisicità, una caratterizzazione prima inesistenti. La proposizione “quando ho paura” al poeta non è sufficiente ad esprimere alcunché. La mescola di immagini che la costellano, con le nuove inserzioni linguistiche, concorre a delineare un’aureola di sensazioni, e che importa se esse coincidono con frammenti memoriali derivanti dalla letteratura. La casualità è parte del mondo. E nemmeno il lettore desidererà, a questo punto, sovrapporre a siffatto cosmo un ordine che provenga dall’esterno. Il senso, d’altronde, non ha nemmeno bisogno di essere precisato. Esso circonda l’oggetto o la situazione rappresentata, esala come un odore, uno dei sensi di cui Fresa parla con più insistenza. Il disordine totale o l’ordine totale sembrano equivalersi. Non c’è disordine che non divenga ordine a suo modo nella mente del lettore incallito. Nel disordine così come nell’ordine vige un’attenzione autoriale alle analogie e alle differenze, le quali divengono il carbone gettato nel motore del testo. E Fresa sfrutta la capacità di tale avvertito complice per sciogliere i nessi causali, i soggetti, gli oggetti, i precetti e i pensieri come in un acido, badando alla costruzione inflessibile della sua macchina svitante e ricomponente. Si può fare riferimento alla decostruzione derridiana perché restiamo ben lontani da una ricomposizione che trovi un fondamento. Se nel testo non s’individua un significato univoco è perché lo scopo della macchina testuale sembra essere quello di esporre le sue infinite possibilità semantiche, anche mediante il confronto con testi molto distanti, al punto che pare di sentire, leggendo, il piede che affonda nell’acquitrino, il senso che produce stridii e la sensazione di vorticare in una sorta di amalgama, il quale mostra un alto grado di coesione, poiché facente riferimento a una sola materia: quella linguistica.
In ogni caso, non sarebbe corretto sovrapporre qui una lettura psicanalitica del disordine che si oppone all’ordine, dove le immagini allucinatorie che proteggono dai conflitti tra l’io e il mondo, svuotano la realtà e annullano il divenire per indirizzarsi esclusivamente verso il desiderio o la paura. In una scrittura priva di libertà non saremmo più in regime artistico. Invece, sono proprio l’apertura e la trasformazione a innescare in Bestia divina quel procedimento che indirizza verso molteplici prodotti culturali, di cui il testo ci appare sempre più una non celata mappa. La distanza tra l’ossessione dell’identico e della differenza fa concludere a Derrida che follia e sapere scientifico condividono la volontà di determinare il senso, ma, appunto, il testo letterario ha una libertà che sopravanza entrambi. Ed è in questo dominio che Mario Fresa sviluppa il suo testo, sfidando impervie vette e affrontando impavido la sfida posta dal senso: recide, dove ci aspetteremmo continuità, e sutura, dove ci attenderemmo fratture.
In alcune poesie, chiarissimi sono il soggetto e lo svolgimento, come in Rifugio dedicata a Franz Kafka. Ma Merlino, il Servo, la grammatica noiosa, Nievo, il paladino, Fiordiligi, il lupo, Francisco Goya, Veronica, la Maestra, Kurt, Anna, Goffredo, lo spettro, Bach non sono semplici citazioni che si rinvengano nella memoria di qualcuno che ha perso il senno e conseguentemente i nessi logici: ciò che é certa e ben salda è l’operazione ove personaggi e autori hanno la medesima sostanza, il medesimo corpo. 
Non soltanto i nomi di autori letterari, ma anche alcune singole parole fanno scattare serrature e porte nella mente del lettore: “Mio padre è un serraglio” ha tanto di mozartiano, “la bambina” instrada verso Lolita, “l’amante” verso il cinese del testo di Duras. Al lettore è richiesta una decifrazione fulminea oppure perde il treno: tutto dipende dall’ingordigia delle sue precedenti letture. Nè importa che le sue determinazioni coincidano con quelle dell’autore. L’importante è fare il giro in giostra, avvicinandosi in tal modo al modo in cui usiamo il linguaggio e a quello che esso ci consente, compresa l’esplorazione dei suoi limiti, oltre che delle sue possibilità.
Questo per dire che nessuna parola nel testo di Fresa ha più un significato reale, ma ne ha uno esclusivamente letterario, “l’amica è bruna e sedia” fa scivolare verso i ritratti picassiani di Dora Maar, mentre “blatta “ e “commessi viaggiatori”, sono due dei mille modi in cui si dice Kafka. Ecco perché quello di Fresa è un testo metaletterario che non contiene nulla di psicoanalitico.
Anche le note concorrono al testo, non sono apparati esterni, hanno il medesimo piglio pirotecnico della sua scrittura e, a volte, non sono affatto la specificazione di un riferimento testuale. Decifrare non è atto che venga richiesto al lettore: si vuole la sua partecipazione a tutto quello che succede nel testo, senz’altra chiave decrittatoria. Il flusso o scatta o non scatta, questo dipende appunto dalla cultura di colui che legge, come accade nel Finnegan’s Wake di Joyce. La lettura scorre sulla superficie del testo, il quale non ha fondo, non ha una ulteriore profondità.
Il linguaggio lancia, inoltre, una sfida all’immagine, poiché se l’assunto inderogabile è che esso non ne riuscirà mai a venire a capo, pure, le descrizioni di quadri si rincorrono in tutto il poema, tentando di inglobare l’opera visiva nei propri materiali. Eccone una del quadro di David che immortala la morte di Marat nella vasca da bagno.
“La carne ti galleggiava su piuttosto bene.
Si prende in tasca un’esplosione e ancora non lo sa. Lo troveremo al bagno,
quasi più gonfio, pronto a guardare
il mondo con la giusta pietà che si conviene:”
Ancora un esempio: Goya ci appare attraverso l’ecfrasi di un suo celeberrimo quadro: “e ci si ama perfino nel minuto / del fuoco ben tirato sugli occhi”.
Ed, ancora, Nicolas De Staël con la sua pittura a zolle: “La sua è una morte simile ai turisti; lo prende insieme / e ci dipingerà Nicola, l’ambizione, / i nervi sotto. E chi t’incontra è quasi tardi, / e preme; ordina il mondo a scatti, a brandelli:”
Il riferimento al regime iconico, affrontato con una così virulenta affezione linguistica, depone per una lettura che porta in evidenza ciò che non ha un significato direttamente verbale. Quasi una pareidolia, che legga forme distinte, preveggenze e predestinazioni in un ammasso di macchie pigmentali. Se Mario Fresa nel linguaggio insegue anche la descrizione del visibile, è solo per frantumare le immagini nel caleidoscopio linguistico. Le icone restano sul bordo degli eventi, schiacciate dall’irrilevanza che condividono con il reale. C’è una gerarchia valida per colui che scrive e non coincide con quella di colui che dipinge. Non potrebbe altrimenti esserci il meraviglioso amalgama che ritroviamo fra i versi e le lasse di Fresa e il salto di scala che pretendono per situarsi a un ulteriore livello, dove è la struttura a reclamare la posizione centrale. Far vedere con il linguaggio è azione metaforica pari a quella che Dante ha inteso costruire con la sua Divina Commedia.
La “memoria sterminata di quaggiù” è divenuta verbo al quadrato. Più che memoria, infatti, è linguaggio che opera nel linguaggio. E certamente quello che se ne può dire è che mai l’espressione verbale perde senso. Sempre rilancia e sempre mostra la sua metamorfica, mai espugnabile significazione.
Anche il meraviglioso finale “O la finiamo, o diventiamo nulla” è degno di figurare accanto alle paradossali conclusioni dei testi beckettiani. E finché si leggerà si potrà continuare, che è come dire che non si può smettere di scrivere. Inoltre, “stanza vocabolario” o “odore vocabolario” rimandano anche all’ambito spaziale e percettivo in cui la scrittura/lettura si produce, a conferma che il soggetto di questo libro è la lettura effettuata da un lettore. È essa che plasma la vita di ciascuno scrittore: non si scrive che con i libri degli altri, così come non si legge mai un solo libro alla volta.
Una scomposizione e una ricomposizione, pertanto, quella di Mario Fresa, che non intende tracciare un nuovo senso, nuovi percorsi analitici, e che sarebbe riduttivo presentare come valore memoriale, memoria storica letteraria e iconica, essendo un’azione totalmente afferente alla materia linguistica, alla polisemia che scintilla, illuminante la notte nera della consuetudine, per penetrare con coraggio nella materia catramosa e cristallina del linguaggio, potente e ineluttabile.

                                Rosa Pierno

lunedì 20 luglio 2020

Mimmo Grasso. “La bellezza del mondo”: Bruno Di Pietro da “Colpa del mare” a “Baie” (Oèdipus Ed. 2019)




1 . Il tema proposto qui stasera da Rosanna Bazzano, nel primo evento di poesia “dal vivo” a Napoli dopo la chiusura per la epidemia,   è la bellezza del mondo o, meglio, la bellezza del mondo mediante letture del mondo stesso. “Mondo” è una parola polivalente, per cui, secondo il mio mondo,  ho la necessità di perimetrarne i confini. Tra l’altro, “mondo” e “bellezza” sono quasi sinonimi essendo il “mondo” il “pulito, limpido, visibile”, il luogo rischiarato dal sole, dunque bello. La traduzione corrente di “munditia” è proprio eleganza, bellezza. Affrontammo questo problema (munditia-monnezza) alcuni anni fa, in occasione dell’invasione del pattume a Napoli,producendo,con Ariele D’Ambrosio,  l’antologia “Mundus, poesie per un’etica del rifiuto”. 
Il “mundus”, era, in parallelo con la solarità e la visibilità, un fosso di fondazione nel quale venivano gettate cose deperite e deperibili, avanzi e altro. Il rituale era ctonio. Esso indica,dunque,sia ciò che produce inquietudini, come il sacro, sia il suo superamento mediante un processo razionale di pulizia.  Il “mundus-fosso”, aperto tre volte l’anno -ricordiamo l’espressione “patet mundus”( il mondo si apre”, si rivela) -  ripeteva  la forma dell’occhio e della volta celeste, dunque il “sopra” e il “sotto”, identici secondo la Sophìa e gli gnostici. 

2. Quanto alla bellezza, cercheremo di indagare da quale percezione, la  più antica possibile, nasce il  “bello” e, successivamente, nel contesto individuato, il  mundus di Bruno Di Pietro.  Ritengo che  il “bello” sia il risultato di un contrasto, il giudizio espresso dopo una riperlustrazione dei dati dell’esperienza, e che esso  si identifichi col bene. La percezione dei napoletani è in merito molto chiara: il bello e il bene appaiono come dei ex machina nelle situazioni indecidibili, quando, ad esempio, diciamo “trase uno bello e buono”, cioè all’improvviso, in modo perturbante, e spariglia le nostre carte da gioco. Gli agenti più antichi e importanti del nostro contrasto esistenziale dimorano nella polarità della biologia e della mente che   Kerenji, in Dioniso, ed Agamben, in Homo Sacer, chiamiamo zoè, la vita animale, e bìos, la vita intellettiva. In verità questa è una semplificazione ma mi si consenta di usarla ai fini della comprensibilità immediata. Zoè e bìos si intrecciano come i serpenti agatodemoni raffigurati in molti siti archeologici. Intendo dire che il bello-bene è vissuto, da sempre, come il risultato di una dualità dinamica. 
Qualche conferma la possiamo attingere dall’etimologia. L’etimologia è importante perché ci consente di comprendere le percezioni originarie dei nostri antenati nonché, come in Emile Benveniste, il fondamento delle istituzioni sociali. 
Bello è il latino bellus, dall’antiquato benus per bonus, “buono”, da cui il diminutivo  benulus, benlus, e poi, bellus nel senso di confacente, comodo, adatto. Semerano ci informa che “bello” è termine accadico. 
Lavori  in corso  stanno verificando una eventuale relazione tra “bellum”, scontro,  e “duellum”,  lotta.  “Duellum” implica il due.
 “Buono” ha origine nel latino arcaico “dueno”, sp.bueno. In “dueno”  ricompare il due. Scipione Barbato era un uomo “dueno”,buono, della serie “chillo è uno buono”, cioè “nu figlio ’e ndrocchia”,  uno abile, che sa come comportarsi, un “polytropos”.   Ma andiamo un po’ più a fondo per capire che nasconde il “dueno-buono”. Faccio riferimento a un’antica iscrizione riportata sul “vaso di dueno”  (noto come il vaso dell’artigiano abile).Si tratta di un triplice vaso, molto difficile da elaborare, la cui iscrizione, voluta dall’anonimo vasaio e rivolta alle ragazze che lo avrebbero usato per i momenti rituali, dice “questo vaso è stato costruito da un artigiano “duonoro”, cioè “abilissimo”, per cui, ragazze, quando lo usate prestate molta attenzione e, soprattutto, non invidiatemi per la mia abilità”. “Duonoro” significa, probabilmente, ambidestro. 
La conclusione di questo excursus è  che solo chi è abile, che ha competenza, può produrre un mondo di bello e di buono. 

3. Vediamo, allora, se e come Bruno Di Pietro è “dueno”.  
Penso di essere chi ha più studiato questo poeta e chi ha, probabilmente, scritto di più sulla sua opera, dagli esordi ad oggi; questo perché c’è una sintonia in termini di frequentazioni culturali, in particolare i presocratici e i poeti che scrivevano nei dialetti greci antichi, nonché al comune interrogarsi, ancora oggi e nonostante oggi,  su questioni di metafisica, questioni che, per me, si sono trasformate in azioni di Patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. Conosco Bruno fin da quando con alcuni amici  diede vita all’ “Albero di Porfirio”, un albero così battezzato attorno al quale si riunivano. In quegli anni furono scritti versi come questi (è il primo testo di “Colpa del mare”):

forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione

ma come è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire

cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno

“l’essere del dire del non dire” lo ritroviamo come costante anche in Baie, ed è folgorante in un distico:
difficile il silenzio
dopo un battito d’ali.

4. Per un sistema di lettura di Bruno Di Pietro, che con la seconda edizione di “Colpa del mare”(2018, ampliata con l’inclusione di altri lavori)  si pone ai vertici dell’attuale espressività poetica italiana, mi riferirei al “Pensiero Meridiano”  di Franco Cassano e ai suoi allegati. La copertina di Baie, ad esempio è - non so quanto consapevolmente- la sintesi di un passo celebre del libro di Cassano: Chi è l’uomo che, a Elea,  guarda il mare? Non si sa se quest’uomo, il poeta, sta per riprendere la navigazione o tornerà indietro. In “Impero” (Oèdipus, 2017)  Adriano esorta i poeti a imbarcarsi di nuovo sulle navi, ad assumere il rischio dell’estremamente mobile. Il passo di Cassano cui mi riferisco è quello dei trenta tiranni che fecero rimuovere le statue del Pireo che guardavano verso il mare. Il messaggio era: basta avventura e desiderio di conoscenza, stiamo con i piedi per terra, torniamo alla terraferma dell’essere, dimentichiamo il mare degli enti. Vediamo cosa ci dice Di Pietro in merito:

In limine
non ci sono più siepi
ad escludere lo sguardo
e l’ultimo orizzonte
è ai tuoi piedi
                (siedi
e guarda per terra)

C’è, evidentissimo, il senso di un fallimento, preannunciato. Fallire è indurre in errore: pensavamo l’infinito come orizzonte e, falliti, lo vediamo per terra, calpestato dalle impronte delle nostre scarpe. Eppure, il vuoto nella sua preliminare vuotezza ha il proprio compimento, genera la bellezza, il fiore si Roberto Sanesi, in esergo a Baie
Se allora fosse il fiore il fallimento,
questa, diremmo, è la bellezza del mondo,
la sua esperienza visibile.

Il tema del limen e del confine, del non plus ultra per cui rimane solo il ritorno, lo troviamo anche  in questo testo, il primo di Baie, secondo la costante di porre all’inizio il testo più denso di ogni raccolta:
in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza 

noi ci ritroveremo

allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire

.
5. Questo testo continua con naturalezza nel successivo, dove il dire è sfinito nella e dalla inedia o saudade o spleen. Questo dire, subito dopo, si trasforma nelle lallazioni e nel grido di bambini paternamente guardati a vista da un sorridente Parmenide, sotto l’emblema della Porta Rosa di Elea. Ricordiamo che il tema del bambino che gioca (in questo caso col  guscio di una tartaruga)  fu caro  anche ad Eraclito, il pensatore del pòlemos, lo scontro, come costitutivo  del divenire. Il dire, e il suo correlato, il taciuto, appaiono in quasi tutti i testi di Baie perché la dimensione esistenziale di “voler avere qualcosa da dire”, che costringe al silenzio,  è generata dall’impulso di voler  “avere per detto tutto il dire”, nella condizione quasi teologica del  non ancora-già. Leggiamo qualcosa da Baie, in particolare  i brevi testi, quasi frammenti,  che riguardano un argomento nuovo nella poetica di Di Pietro,l’amore:


di notte
a volte accade
di avere paura
che la luce illumini
la tua assenza

ho inventato 
per gli occhi
un sorriso
(tu potresti apparire
all’improvviso)

l’orizzonte che sembrò vicino
in fondo un deserto il destino

ma cosa si può dire a occhi stranieri
per non ripetere il dettato usuale
dell’uguale a se stesso sempre uguale


a volte
accade
che anche l’ombra
si senta
sola

Ciò che abbiamo trascritto sembra un unico testo, quasi che la struttura del poetare di Di Pietro sia una spirale che si muove in alto e  in basso ma sempre attorno allo stesso asse e anche qui ritroviamo, nascosto, lo spirito  greco, in questo caso Democrito: “a volte accade (un cadere di atomi) e ,insieme con me,  anche l’ombra ha un saper-sentire di solitudine”. L’ombra esiste se c’è il sole, una fonte di luce, e se c’è un corpo solido. In Baie il sole declina, è declinato, e tramonta ad oriente: 
come se il sole
calasse ad Oriente
guardo tutto con la schiena
impaziente

6. Il tema dell’amore, un amore denso di grazia, si rivela come il fiore di Sanesi, già-non ancora sfiorito:

le api dormono
fra i noccioli
essiccati 
delle pesche

quasi un ronzio, un fiore che lascia polline sulle dita ed inclina a una sensibilità vulnerabile. Le dinamiche del nascondino, tipiche dell’amore, sono tutte racchiuse in:

chi ama non dispera
dimmi una bugia
ma che sia vera

Abbiamo parlato prima degli agatodemoni come simbolo psichico diffuso. Credo sia evidente che il loro intrecciarsi, contrastandosi , sia l’elemento che caratterizza il  “mundus” di Bruno Di Pietro in cui un testo ne origina altri. 
Vediamo questo fenomeno in azione, rileggendo il testo iniziale di Baie:
A
in un altrove aereo o marino
forse nell’ultimo lembo di terra
al confine di ogni pensabile destino
ai margini sconfinati di un deserto
nell’incerto che inclina alla speranza 

noi ci ritroveremo

allora sarà detta la parola giusta
quella che fugge la noia dell’indicibile
daremo altro nome a tutte le cose
liberi dalla paura di morire,
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire

.B
esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire
liberi dalla paura di morire
daremo altro nome a tutte le cose
quella che fugge la noia dell’indicibile
allora sarà detta la parola giusta

noi ci ritroveremo

nell’incerto che inclina alla speranza
ai margini sconfinati di un deserto
al confine di ogni pensabile destino
forse nell’ultimo lembo di terra
in un altrove aereo o marino

I singoli versi si intrecciano tra loro, è possibile cambiargli posizione senza che il senso generale vanga modificato. Qualcuno certamente sospetterà che si tratti di un caso. Gli sottoponiamo, allora, un altro testo, il primo che abbiamo letto:
forse l’indisciplina degli eventi
forse l’incerto dire inesistenti
l’identico la trama la ragione
concedono alle volte un’occasione

ma come è disadorno il divenire:
gettati alle correnti senz’appiglio
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
dell’essere del dire del non dire

cosa accadrebbe poi se il maestrale
venisse a dirti al termine del giorno
che il sentiero in fondo è sempre uguale
e non c’è altra via che del ritorno

che diventa, dal basso verso l’alto:
e non c’è altra via che del ritorno
che il sentiero in fondo sempre uguale
venisse a dirti al termine del giorno
cosa accadrebbe poi se il maestrale

dell’essere del dire del non dire
nei rumori dell’acqua sempre al ciglio
gettati alle correnti senza appiglio
ma come è disadorno il divenire.

Concedono alle volte un’occasione
l’identico la trama la ragione
forse l’incerto dire inesistenti
forse l’indisciplina degli eventi.

Questa modalità  permutativa è frequente in musica (p.es. le forme auto replicanti di Bach) ed è un  fenomeno  che si riscontra essenzialmente nei poeti d’ispirazione, quelli, cioè, orientati all’ascolto, che scrivono obbedendo a un ritmo neuromotorio.  Questo aspetto meriterebbe un lavoro a sé.
Non so se ho colto l’obiettivo iniziale, se ho dimostrato se e come il comporre di Di Pietro sia “bello-buono”. Abbiamo, comunque, la certezza che è un artigiano abile, che sa gestire un “mundus” cogliendone il vuoto, visibile fiore di Sanesi. 


Mimmo Grasso




lunedì 6 luglio 2020

“Spazio letterario e ciberspazio” di Giuseppe Martella




Premessa

Nell’ultima parte della mia carriera di docente e di criticocioè grosso modo nell’ultimo ventennio, ho potuto constatare che molti giovani e valenti intellettuali italiani (narratori epoeti, filosofi e saggisti) non hanno ancora maturato una adeguata consapevolezza dell’ambiente in cui operano e perciò, nel momento in cui producono contenuti e forme di comunicazioneper lo più si studiano di manipolare i generi letterari: di ibridarli, riformarlio rifunzionalizzarli. Ma il loro apparato concettuale e immaginativo rimansaldamente imperniato sucardini della scrittura come pratica speculativa e artistica sostanzialmente immutata rispetto al passato, e del libro a stampa come feticcio della memoria culturale. Ciò li consegna in partenza a quel logocentrismo che Jacques Derrida aveva a suo tempo denunciato ma di cui egli stesso era rimasto poi preda, continuando a ragionare in termini dlogica predicativa ignorando l’apporto di quella matematica, cioè delle funzioni numeriche, alla produzione del pensiero e della prassi strumentale e artistica. Un apporto tanto più decisivo oggi, dopo l’avvento del digitale che oramai regge in sottotraccia tutte le forme dell’espressione e della comunicazione umana.      
Le note che seguono intendono porre invece in evidenza la forte discontinuità rispetto al passato che è intervenuta con la diffusione del digitale (ossia del numerico) all’interno della stessa letteratura, proiettandoci in uno spazio simbolico ricco di possibilità ma disorientante e inedito, dove la crisi dell’editoria è solo un epifenomeno di un terremoto ontologico, le cui conseguenze saranno irreversibili e di lunga durata.        
Molti intellettuali d’avanguardia operano già da diverse generazioni sui margini dei generie delle funzioni tradizionali del discorso (tra prosa e verso, tra romanzo e saggio, tra descrizione e suggestionetra calligramma e notazione musicale) e perciò amano definirsi “scrittori” senza ulteriori qualificheevitando di interrogarsi sull’atto materiale dello scrivere, come se questo fosse rimasto il medesimo di cinquanta anni fa. Ma quando ciascuno di noi oggi “scrive” qualcosa non fa altro che transitare dagli appunti sul quaderno, alla loro trascrizione sul computer (previo utilizzo di Google e banche dati)passando eventualmente anche attraverso strumenti di riconoscimento vocalico. Chi fa scrittura sperimentale oggi perciò, nel mentre crede di manipolare intenzionalmente i generi letterari, sta di fatto preterintenzionalmente facendo interagire diversi strumenti e media. Chi scrive un romanzo per esempio, non lo fa già più certo nel modo lineare e progressivo di qualche tempo fa, ma spostando e inserendoscomponendo e ricomponendograndi blocchi di testo predisposti, come in un gioco a incastro o un lego,estrema e ironica declinazione del légein/logos dei greci: tale gioco non lascia infatti invariati i processi del pensiero, della memoria e dell’invenzione. L’opera “letterariarisulta oggi pertanto più simile che mai aaltri generi di composizione artistica (a partire dalla pittura e dalla musica) e come quelli può essere a sua volta scomposta e ricomposta in una miriade di copie e di varianti digitalizzate. Essa ha in parte perduto dunque la propria specificità e il proprio privilegio culturale, guadagnando però in compenso una miriade di possibilità di riscrittura e di riuso, che vengono infatti ampiamente sfruttate, senza però essere teoreticamente ricondotte alla matrice di rimediazione che tutte le contiene. 
Ciò che Walter Benjamin a suo tempo, riferendosi agli effetti della fotografia e del cinema, chiamò la perdita dell’aura, cioè della singolarità dell’opera d’arte per effetto della sua riproducibilità tecnica, è ora diventato un processo endemico e capillare che oltrepassa le barriere della materia manipolabile per entrare nei gangli della forma pensabile. Ha permeato, cioè, l’intero ordine del simbolico che, per la convertibilità al digitale di ogni altro codice, mostra ora per la prima volta in modo evidente la preminenza del numero (algoritmo) sulla parola nei processi di percezione e di espressione. Quella che in termini di ontologia ermeneutica si potrebbe definire la “numericità” piuttosto che “linguisticità” dell’esserciDopo tutto noi veniamo al mondo pulsando e (fra battere e levare) fra le pieghe del verso, del discorso e della storia, continuiamo a pulsare fino alla fine.  
Rivoluzioni epocali di questo genere non avvengono però dal giorno alla notte: per quanto riguarda la trasmissione culturale, vivremo infatti ancora per decenni in un regime misto fra carta stampata e file digitali, e per diverse generazioni rimarremo in ultima istanza fedeli alla religione del Libro che è stata per la cultura ciò che l’anima è nei confronti degli oggetti che incontra: “forma delle forme” (Aristotele). Le note che seguono, cercano di rintracciare solo qualche filo conduttore nella fittissima trama di rapporti che legano e distinguono (storicamente e idealmente) lo spazio letterario e quello digitale. In un’epoca,taglio e orizzonte (Riss e Umrissdi transizione dove anche le metafore poetiche sono già sottese da caratteri numerici e generano “significati” attraverso combinatorie che ancora per lo più non siamo in grado né di comprendere né tantomeno di dominare. Di questo passaggio epocale mi sembra comunque auspicabile una minima presa di coscienza che ci preservi sia dalla idolatria che dalla demonizzazione della tecnica, e ci addestri a quel principio di cautela indispensabile per chi si muove in terra incognita
Sull’argomento di cui tratto, da ultimo mi è capitato di imbattermi in un questionario vario e interessante promosso da Giorgio Maria Cornelio di recente su alcuni numeri consecutivi di Nazione indiana, sulla legittimità della scrittura, ossia non solo sul come si scrive, ma sullo scrivere stesso, malgrado le storture.” Dibattito orientato metaforicamente a partire dal suo stesso titolo “La radice dell’inchiostro. Dialoghi sulla poesia.” Cornelio qui non esprime tanto una propria posizione ma si fa portavoce delle istanze, dei quesiti e dei disagi di diverse generazioni di scrittori d’avanguardia. Per questo motivo la questione di fondo che pone, risulta sintomatica di una temperie culturale e perciò assolutamente pertinente alla mia indagine. Tale questione a me pare in partenza significativamente pregiudicata e dunque, dal mio punto di vista, fuorviante, in quanto non si dovrebbe trattare in primo luogo di come si scrive ma di dove si scrive, perché il come dipende dal dove. Ci si dovrebbe cioè interrogare anzitutto sulla mutazione dello spazio globale dello scrivere, perché dovunque e comunque si scriva, in biblioteca, al bar, in una cameretta; col computer, col riconoscimento vocalico, colla propria biro o matita, questo atto risulterà irrevocabilmente mutato rispetto a prima dell’avvento del digitale e della Rete. Anzitutto saranno ovviamente mutate le competenze acquisite e l’enciclopedia cui attinge l’autore, ma soprattutto sarà mutato il suo valore di posizione nel reticolo mediale, cioè l’orizzonte della sua ricezione e la storia virtuale dei suoi effetti, che diverrà parte integrante del suo significato. Si potrebbe dunque osservare che in indagini di questo tipo, che hanno caratterizzato per lo meno gli ultimi venti anni, si antepone surrettiziamente l’epistemologia, all’ontologia della scrittura e della traccia in generale. Ciò fa sì che si possano tranquillamente scambiare e ibridare i concetti di composizione (poiesise di scrittura che andrebbero invece a mio parere tenuti distinti proprio per poter instaurare un dialogo proficuo non tanto sulla legittimità quanto sulla natura e sulla fenomenologia dello scrivere oggi. Sicché anche quando Andrea Inglese, in uno dei più lucidi contributi di questa ricognizione, sposta opportunamente la questione sul versante della ricezione dei testi, sullo “spazio di ascolto” - rilevando che ad essere in crisi oggi non è tanto la scrittura quanto piuttosto la lettura (anche fra gli addetti ai lavori) in quanto requisito di quel dialogo “platonico” che solo potrebbe produrre “consapevolezza storica e formale” – anche lui, secondo le premesse della discussione, non può far altro che auspicare questo salutare “attrito della lettura” solo in alcuni “gruppi ristretti”, in luoghi di elezione e in una cerchia di eletti, cioè, in pratica, in una sorta di utopica cittadella post-letteraria o postuma. Come effetto dell’impostazione generale del dibattito, mi occorre poi di osservare in svariati contributi una deliberata confusione tra forma logica e forma poetica, che a mio parere andrebbero sempre tenute distinte, proprio per poter risultare proficuamente complementari, in quel dia/logo mai concluso che solo può sottrarci “alla solitudine della forma” nella sua disperata resistenza al flusso della vita. 


Spazio naturale e spazio simbolico

Ogni spazio simbolico si innesta sullo spazio materiale della percezione ma questo a sua volta si radica sempre in uno spazio simbolico sotteso, in quelle sue declinazioni che la tecno-scienza e la tradizione culturale ci rendono di volta in volta disponibili. Lo spazio geometrico, in quanto simulazione schematica di relazioni oggettuali (di forma, grandezza, distanza) a partire da una intuizione organica iniziale, ci offre il migliore esempio di questo mutuo parassitismo. Tra lo spazio naturale e quello culturale, di cui il simbolico è la matrice, vi è una relazione di simbiosi che, una volta stabilitasi, non può più essere sciolta, se non per qualche mutazione della fisiologia umana o per una rivoluzione tecnologica epocale. Proprio da un tale tipo di rivoluzione nacque a suo tempo lo spazio geometrico: puro, vuoto, isotropo, atemporaledisponibile a ogni sorta di operazione. Tale spazio geometrico che (in quanto suscettibile di calcolo) è altresì matematico, non è pura astrazione ma il convergere di spazio percepito e spazio simbolico, se è vero che la geometria nasce dalla pratica tutta concreta della agrimensura, intrisa di sudore e di passioni, radicata nella terra che ci sostenta, per poi elevarsi alle misurazioni del cielo, attraverso i passi intermedi delle triangolazioni trigonometriche e delle cartografie regionali. Concettualmente la geometria si situa sulla linea d’orizzonte fra il cielo e la terra, l’astratto e il concreto: disegna la congiunzione mobile e illusoria fra il dentro e il fuori, contorni dell’esperienza – così come del resto fa la retorica con le figure del linguaggio verbale, che sono fossili di memorie gusci d’immaginazione. Oggi più che mai, nell’epoca della conversione al digitale di tutti i media, ossia della codifica numerica di tutti gli spazi simbolici, è necessario riflettere sull’omologia tra figure geometriche e figure del discorso, enunciati verbali e numerici
Lo spazio vissuto e abitato dai nostrcorpi, quello in cui già sempre ci troviamo, lo spazioorganico, la casa dell’anima, dove “il nostro inconscio è ‘alloggiato’”, è come un edificio le cui componenti appartengono a varie epoche (una rosetta romanica, un campanile gotico, una volta rinascimentale, un fregio barocco): un insieme di tracce, una costellazione di oggetti-eventi-narrazioni asincrone, un cronotopo denso, dove convivono epoche e livelli di realtà diversi. 
La casa dell’essere, quella che comprende il linguaggio ma non si esaurisce in esso, è dunque composita, articolata, spuria, impropria. Nel senso che è sempre predisposta dai due simbolismi fondamentali della nostra cultura: lettere e numeri; schemi geometrici e schemi retorici. L’orizzonte epocale degli eventi che ci toccano è dunque da sempre a memoria d’uomo est-eticamente inautentico e tecno-logicamente rimediato. Su questo dobbiamo essere chiari, per evitare miraggi nel deserto del reale e non indulgere in mistificazioni consolatorie.
Se lo spazio dell’esperienza si schiude per noi nella singolarità e nella contingenza dei vissuti individuali, allora ogni inaugurazione di spazi simbolici, ogni poesia degna di questo nome, sarà pensiero occasionale, nato sotto una dominante psicotecnica epocale; e in questo senso sì ogni poetica dello spazio dovrà ‹‹nascere  e rinascere in occasione di un verso dominante, nella totale adesione a un’immagine, precisamente nell’estasi stessa provocata dalla novità dell’ immagine.›› Tale verso dominante, cifra del senso globale o versione del mondo fittizio, non è mai solo un artificio retorico o mnemotecnico: l’artificio linguistico tradisce quello del nostro stare al mondo, è la trasmutazione simbolica della manipolazione ambientale in cui già sempre ci troviamo catturati. Solo in questo senso, impuro e artigianale, la poesia è praxis téleias, modello d’azione che contiene i propri fini; sul polo opposto dell’ispirazione, dell’énthousiasmos, del pathos, essa non può che essere invece assoluto abbandono allo spirito del tempo e al destino che ci è preparato.  
E’ per questa dimensione ‘impura’ dell’esserci che la quint’essenza del poetico si può cogliere nel retentissment (ritenzione, risonanza, evocazione, appello, orizzonte di suono-senso, auralità, contraccolpo). Dunque nel risentimento, piuttosto che nel sentimento, del trovarci qui ed ora provvisoriamente insieme; nel risentimento come risonanza psichica della manipolazione tecnica dell’essere insieme ad altri nel mondo (Umwelt). Da tale risentimento-risonanza nasce la poesia in quanto incipiente sillabazione di protesta (Dichtung: articolazione sonora dell’atto di imputazione, come dal greco deìknumi), il ricorso dlamentele e preghiereil verso della via crucis dell’esserci: di cui la poesia è il farmaco, o rimedio-veleno, simbolico. 
Il risentimento psichico, come condizione po-etica individuale, ha poi un equivalente nell’effetto di narcosi sociale prodotto dall’avvento di un nuovo medium di massa, che si presenta allora come condizione del tenore metaforico e del ventaglio dei messaggi possibili di una data epoca. Di essa i media costituiscono i tratti dominanti o informanti, disegnando vincoli e possibilità, orizzonti di esperienza e di esperimento; scandiscono il ritmo della storia, le sue discontinuità e dislivelli, i suoi stili, le sue figure e pause, omissioni e silenzi: le modalità del visibile e dell’udibile, insommadella leggibilità e intelligibilità del mondo. Così lo spazio-tempo naturale trapassa (o è già sempre trapassato) inesorabilmente in quello artificiale o culturale, e solo per questo trasporto – che è la radice di ogni metaforica – fa sì che nelle comunità si costituiscano lieux  memoire e forme di testimonianza, sia pure di unineludibile solitudine, dell’unicità della traiettoria di ciascun essere destinato alla morte. 
Per questo miracolo della condivisione del destino singolare, si può convenire con Bachelard che ‹‹la poesia mette il linguaggio in stato di emergenza››, o meglio dà voce, trasportandolo nella dimensione del simbolo, a quel contraccolpo dello strumento sull’organo che l’impiega (cioè a quel traumatico incremento tecnico dell’evoluzione naturale), in cui consiste quella dis-continuità, o epocalità, del nostro essere al mondo nel tempo, che è il presupposto della tradizione culturale. 

Il libro del mondo 

Il mondo della vita, dunque, lo spazio vissuto, scivola inavvertitamente da sempre in quello artificiale e simbolico, dove si formano gli archivi della memoria e dell’immaginario, dove si producono tracce reperibili, in materiali e media di volta in volta diversi. È la strumentazione tecnica, dunque, fra tutte le basi materiali della cultura, a decidere in primo luogo sulle forme simboliche, sulle metafore guida e sulle grammatiche della creazione di un’epoca. La nostra civiltà si è sviluppata a lungo nell’orbita della metafora radicale del libro-del-mondo, in cui si istituisce di fatto l’equivalenza tra leggibilità e sperimentabilità del reale. Già in Platone e Aristotele si trovano passi in cui alla natura e all’anima ci si riferisce come a spazi di iscrizione, e Stephen Dedalus a distanza di millenni risponde loro, nell’Ulisse di Joyce, facendo il verso al linguaggio dell’idealismo filosofico moderno: “Ineluttabile modalità del visibile: almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi. Sono qui per leggere le segnature di tutte le cose, uova di pesce e marame, la marea avanzante, quella scarpa rugginosa. Verdemoccioazzurargento, ruggine: segni colorati. Limiti del diafano.” In questa parodia di ogni estetica trascendentale, si può cogliere quel sentimento del tramonto della civiltà di cui parla il maggior critico letterario del secondo Novecento. Ma per quanto almeno dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento (da Flaubert a Spengler, diciamotale percezione del tramonto della civiltà occidentale, letteraria e umanistica, fosse assai diffusa fra gli intellettuali, è pur sempre la pratica della scrittura-lettura su supporto materiale ad averesegnato la strada alla cultura d’élite fino quasi ai giorni  nostri. Ora qualcosa è irreversibilmente cambiato.
Nella lettura del libro del mondo, attraverso i secoli, è stato proprio il variare del rapporto fra veicolo (libro) e tenore (mondo) della metafora a scandire l’evoluzione della civiltà europea, il cui stesso concetto etimologicamente rivela le sue radici nello svolgersi di un rotolo (volumen) in cui man mano si leggono i capitoli successivi della storia del mondo (evolutio), supposta continua, progressiva e sensata. Nella sua duplice versione, sacra e profana, prescrittiva e descrittiva, bibbia ed enciclopedia, il libro-del-mondo comunque traduce lo sdoppiamento fra essere e coscienza: si presenta come ‘figura’ della coscienza collettiva nella sua traditio, nella coincidenza effettuale tra volontà di potenza e volontà di forma. Il libro è stato allora non solo strumento ma modello princeps dell’evoluzione culturale. Questa duplice funzione, strumentale e modellizzante, che caratterizza l’oggettotecnico in generale, si esalta nel caso del libro in quanto, sia istituzionalmente che immaginativamente, esso ha costituito la casa della memoria e della cultura. 
E come aggirandoci per le stanze di codesta memoria, non andiamo forse ancora a spulciare copertine, pagine e capitoli di libri pesantemente annotati, quando vogliamo riannodare i pensieri e le nozioni acquisite? Ecco che allora basta porre a confronto la poetica dello spazio con i suoi luoghi dell’anima privilegiati (case, camere, angoli), con la metaforica del libro con i suoi indici, capitoli e sottolineature, le sue pagine e copertine che tengono in forma il volume dell’esperienza che si dispiega sotto i nostri occhi, per comprendere tutto il valore ‘poetico’ dello strumento-modello del libro, in quanto custode di una totalità di senso che esso impartisce per analogia alla natura. Sebbene codesta, poi, nel suo essere scritta in cifre e formule matematiche (come voleva Galilei), che di per sé costituiscono ipotesi da sottoporsi a verifica, si presenti di fatto come libro in fieri, o opera aperta, suscettibile di essere riscritta e scompaginata. Ma questa contingenza irriducibiledella natura e della storia è stata a lungo messa in parentesi, neutralizzata, regolata e relegata tra le copertine del libro. E’ stata proprio la compiutezza materiale dell’oggetto-libro a costituire la base di una tradizione acquisibile e tramandabile gradualmente, per pagine e capitoli, cioè a tenere a freno la provocazione rivoluzionaria dell’esperimento scientifico nei confronti della naturaE’ stata proprio la presenza del volume, rilegato e conchiuso per materia e pensiero, a tenere in forma l’epoca moderna, o post-rinascimentale, nel corso dell’evoluzione culturale. I volumi delle nostre biblioteche sono infatti anche i capitoli della nostra storia intellettuale e affettiva, gli archivi della nostra memoria collettiva. Essi costituiscono l’humus della nostra tradizione culturale: ma è proprio questo terreno che comincia a mancarci nel momento che i caratteri e i testi che abbiamo a lungo compulsato transitano sul supporto elettronico, si smembrano in ologrammi della ragnatela globale, divengono costellazioni di dati indefinitamente riproducibili in quell’ ‹‹allucinazione consensuale›› che è il ciberspazio

Il libro si svuota

In uno scritto che ha avuto una certa notorietà, Maurice Blanchot sviscera le pieghe più riposte dello spazio letterario in rapporto all’atto della scrittura, che egli sgancia completamente dal medium che la produce, sia esso penna, macchina da scrivere o computer. Tutto la sua tesi si basa su questo assunto di fondo: l’identità di scrittura e letteratura, che esclude ogni mediazione strumentale, affermando la purezza e il valore dell’opera presa per se stessa, nell’autonomia di uno spazio artistico separato dalle vicende della storia e del tempo, e pertanto ineffabile, per quanto ricalcato su quello vissuto. 
La concezione dello spazio letterario che ne scaturisce risulta così atopica e atemporale, consegnata all’incanto (o alla presunzione) dell’ucronia (‹‹scrivere è consegnarsi al fascino dell’assenza di tempo››) e di una essenziale utopia dove ‹‹il qui è talmente nessun luogo che ogni cosa si ritrae nella sua immagine e l’io che noi siamo si riconosce inabissandosi nella neutralità di un ‘Egli’ senza volto.›› Sono parole suggestive che accennano all’ideale dello spazio letterario come proiezione impersonale sublimata di quello corporeo, come vuoto sempre disponibile alle imprese di un’immagin-azione iperbolica che si identifica nella magia del contatto a distanza, ove si esercitano il narcisismo e il solipsismo di una volontà di forma che, per lunga abitudine all’egemonia tra le arti, ha messo fuori gioco i vincoli della propria base materiale. 
Di qui uno spazio letterario (e di un mondo, quello del libro) che paradossalmente si presenta a un tempo sia come specchio mimetico di quello vissuto che come spazio poetico assolutamente separato e autonomo, per l’esercizio di un’immaginazione trascendentale che imita non più la natura ma direttamente il creatore, divenendo la provincia del genio che “dà la regola all’arte.
Questo rivolgimento dalla prima alla terza persona, che per Blanchot costituisce la mossa fondante dell’esperienza letteraria, è il perno di una sublimazione iperbolica per cui la fiction (poiesis) diviene romanticamente un analogo della divina creazione. La terza persona, che tecnicamente è oggetto della descrizione, diviene soggetto letterario, ossia quella posizione vuota, quell’amministratore in absentia delle regole del gioco, quel guardiano della inscrutabile legge del Castello di carte, del Tempio delle Sacre Scritture, dei cui dettami l’autore si fa umile e orgoglioso scrivano, esecutore testamentario, spogliandosi del proprio io, le cui vicende relega semmai nei diari; spersonalizzandosi, liberandosi della prigione del corpo, per poter entrare nel ciclo psicotecnico delle reincarnazioni, di cui la scrittura si è completamente appropriata. Lo scrittore si abbandona allora all’incanto della pagina bianca, dello spazio assolutamente disponibile e tuttavia già dissodato, mappato, sicuro e canonico, regolato e rilegato, della Legge del libro vuoto divino, che custodisce la chance di una seconda imperitura creazione: sicché si può ben consentire con Blanchot che scrivere è consegnarsi al fascino dell’assenza di tempo […] Il tempo in cui niente comincia, in cui l’iniziativa non è possibile, in cui, prima dell’affermazione, c’è già il ritorno dell’affermazione […e] il qui è talmente nessun luogo che ogni cosa si ritrae nella sua immagine e l’ “io” che noi siamo si riconosce inabissandosi nella neutralità di un “egli” senza volto.

Il soggetto letterario, appunto, quel Dio che detta le tavole sia della legge morale che della educazione estetica del genere umano. Scrivere, il gesto che costituisce lo spazioletterario, è dunque un’ipostasi metastorica quasi-mistica del discorso, che ha dimenticato le condizioni tecnologiche del proprio esercizio e la contingenza del proprio esserci, per ergersi a donazione assoluta di senso, apertura epocale, scaturigine essenziale ed infinita di ogni disvelamento e verità: ‹‹il poema – la letteratura – sembra legato ad una parola che non può interrompersi, in quanto essa non parla, essa è.››
Lo spazio letterario, in quanto spazio elettivo di una creazione seconda, omologa a quella divina, diventa perciò il luogo dove la cura dell’artigiano della parola custodisce l’angoscia del mortale che ha preso il posto del Dio che crea dal nulla; sicché Mallarmé aveva già potuto confessare: ‹‹ho sentito sintomi molto inquietanti, causati dal solo atto di scrivere […]  sviscerando il verso a tal punto, ho incontrato due abissi che mi gettano nella disperazione. L’uno è il Nulla, […] l’altro è la morte.››
Squisitamente con Mallarmé la metafora del libro del mondo si fa infatti catacresi, metafora assoluta, designazione letterale della letterarietà, e la religione del libro si fa laica, puramente letteraria: non si dà ormai più senso dell’esperienza che non sia quello esprimibile dalla scrittura; non si dà ordine del reale che non sia quello rilegabile tra le copertine di un libro. Tutto ciò è racchiuso nel celeberrimo detto per cui ‹‹tutto il mondo esiste per costruire un libro››, cui risponderà a distanza di parecchi decenni il ‹‹non v’è nulla fuori del testo›› di Jacques DerridaQuesta è la linea della stilizzazione assoluta dell’esperienza che, dal Petrarca in avanti, si sviluppa in parallelo quella del realismo occidentale (così ben descritta da Auerbach) che tiene invece ancora separati, nella rappresentazione artistica, il veicolo e il tenore (il libro e il mondo) della metafora fondante della nostra civiltà. 
L’esperienza poetica di Mallarmé si svolge allora tutta all’interno dello spazio della scrittura che assimila completamente quello della poesia (o fiction), e specialmente di quello regolato tra le copertine di un volume la cui rilegatura, supporto tangibile della religione del Libro, separa assolutamente lo spazio simbolico da quello fenomenico e assolve il vissuto (Erlebnis) dalla propria contingenza, rivendicandolo al regno dei fini.   
È proprio il concetto di rilegatura, come analogo materiale della religioche costituisce infatti il fulcro della poetica di Mallarmé, una autentica secolarizzazione della religione del LibroÈ in questa parabola di secolarizzazione umanistica della sacralità della Scrittura e delle sue figure (che inizia col Petrarca e si compie con Mallarmé) che si articola storicamente la linea più pura della tradizione letteraria, o della letterarietà della nostra visione del mondo. 
Specialmente istruttivi a questo proposito sono i saggi di Mallarmé, Quanto al libro e sul Libro come strumento spirituale. Qui si vede chiaro l’istituirsi dell’equivalenza fra i concetti di poesia, scrittura e libro, e icompiersi della coscienza letteraria nello Spirito, cioè come autocoscienza. E’ una vera dialettica dello Spirito Assoluto che, nel pervenire alla autotrasparenza, tradisce però la propria base materiale nello spazio di carta. 
Ogni decisione esistenziale, ogni atto degno di questo nome, per Mallarmé, si risolve ora infatti in un atto di scrittura: ‹‹il tuo atto sempre si applica a della carta; infatti, meditare, senza tracce, diventa evanescente››: è proprio questa evanescenza che bisogna esorcizzare, abbandonandosi ad essa, spersonalizzandosi, sì da poterla fissare sulla carta, da poter vergare col ‹‹calamaio, cristallo come una coscienza››, ‹‹l’alfabeto degli astri››, testo, scrittura siderale, ‹‹questa piega di oscuro merletto che trattiene l’infinito››, e infine aprire il libro del cielo, in cui solo può vivere ‹‹lo spirito soddisfatto››. Il libro, ‹‹tra gli accessori umani è unico; fatto, esistente››, dove ‹‹il senso sepolto si muove e si dispone nei fogli in coro.›› L’angoscia della sottile canna pensante-scrivente che è l’uomo, trova allora sollievo tra le copertine del libro. 
È nella integrità del libro come oggetto materiale, nel suo ordine o religio intesa come messa in forma e chiusura di un mondo fittizio, che la pratica della scrittura e la vita che l’ha ispirata trovano entrambe un senso compiuto e una legittimazione. Mallarmé infatti oppone esplicitamente la chiusura del libro alla impaginazione provvisoria e volgare del giornale, che ‹‹svolazza [aperto in mezzo all’aiola››, lembo esposto al vento della novità, all’improvvisazione, all’irruzione del quotidiano, ‹‹all’incoerenza di gridainarticolate››sfoggiando uno ‹‹sfolgorante e volgare vantaggio›› sul ‹‹libro, supremo››, sacro, atemporale, eterno. Nella cui rilegatura e spessore materiale si s-chiudono il senso della la storia, la legge del cosmo e lo scrigno della psiche: ‹‹la piegatura è, in rapporto al grande foglio stampato, un indizio quasi religioso; che non colpisce quanto il suo accumularsi in spessore, che offre, certo, la minuscola tomba dell’anima.›› È qui che si compie il gioco della finzione, la poesia come gioco assoluto del mondo; nell’atto della lettura come esecuzione di una partitura che detta il ritmo spirituale dell’esserci che, abbandonandosi alla contingenza della dizione-ostensione (Dichtung-deiknumisillabare-indicare), della singola frase, si affranca dalla insignificanza dell’evento vissuto: ‹‹nulla di fortuito là dove sembra che un caso catturi l’idea […] Immemorialmente il poeta seppe il posto di quel verso, nel sonetto che si iscrive per lo spirito o su spazio puro.›› Partitura dello spirito, che prende vita nell’atto di lettura come esecuzione musicale, nel ‹‹va e vieni successivo, incessante dello sguardo, finita una riga alla seguente, per poi ricominciare […] esecuzione attiva, come di brani sulla tastiera, misurata dalle pagine.›› Musica muta,‹‹un solitario, tacito concerto›› che incarna e custodisce l’idea, a partire comunque dalla ferita inaugurale inferta all’oggetto materiale, alla ‹‹piegatura vergine del libro››, dal tagliacartependant della penna o stilo, che riapre lo spazio letterario, in cui il tempo e lo stile di lettura si incontrano con quelli di scrittura, istituendo quel fragile effimero ferreo patto tra parole e mondo che è l’opera come oggetto-evento le cui ‹‹pieghe perpetueranno un sigillo, intatto, che invita ad aprire, a chiudere la pagina, secondo il maestro.››
Solo in base al presupposto tecnologico, alla piega materiale, si istituisce allora l’ipotesi di quella semantica, che consente di de-costruire infinitamente il senso del testo senza più ormai uscire da esso, dal libro-del-mondo (‹‹il n’y a pas de hors texte››, suona l’aforisma di Derrida). Ogni decostruzione avvenire è già qui consapevolmente racchiusa, nella declinazione mallarmeana della metafora radicale della civiltà letteraria. Nella presa d’atto della rilegatura e dell’artificio tipografico come ultima origine dello spazio artistico, e d’ogni evento di verità (l’Ereignis di Heidegger) nell’orizzonte della civiltà letteraria. E’questa oltraggiosa consapevolezza della implicazione materiale fra pensiero e scrittura che costituisce la cifra dell’opera di Mallarmé e ne giustifica il vasto influsso esercitato supoeti e scrittori del Novecento (Eliot, Valery, Rilke, lo stesso Joyce), per altri versi molto più grandi di lui. È un’opera, la sua, che si costruisce per piani, come un vero e proprio castello di carta, a partire dal verso come artificio tipografico, dalla frase dominante ‹‹perseguita, in carattere grande››, dalla spaziatura, ‹‹una riga per pagina››; essa trova il suo compimento esemplare in quel Colpo di dadi, che più che un atto costituisce un’ipotesi poetica, in cui, nel segno del come se, caso e necessità si incontrano in via di principio. È qui che si realizza, prospetticamente, anche l’assoluta equivalenza di poesia e scrittura, di partitura e disegno, viene disseminato l’artificio della versificazione come equivalente della scansione ritmica del suono e del senso. Qui vengono mostrate nella ‹‹visione simultanea della pagina›› le ‹‹suddivisioni prismatiche dell’Idea […] in una messa in scena spirituale esatta››, che si sviluppa ‹‹attorno a pause frammentarie di una frase capitale introdotta fin dal titolo e sviluppata››. Quanto a dire che nel segno di una dominante visiva (riduzione prospettica della musica di ideesi istituisce l’ordine tipografico del testo come base di quello tipologico o figurale che ha avviato (già fin dalle Sacre Scritture)l’evoluzione del sistema letterario in quanto ripartizione e ricorso di tratti dominanti in uno spazio presuntivamente autonomo, assoluto ed assolto dai suoi debiti mondani, del tutto auto legittimato
Nella scansione grafica della pagina del Colpo di Dadi si trova la quint’essenza dello spazio letterario come spazio simbolico egemone, luogo di una possibile donazione di senso all’esistenza effimera. Ma anche luogo in cui, nella esibizione dell’artificio grafico come presupposto della convocazione di suono e senso, della loro poetica coincidenza, si denuncia il contingente tecnologico che la fonda e si annuncia l’incrinatura stessa della sua tenuta, l’apertura di possibili spazi simbolici alternativi, basati su nuove tecnologie dell’informazione. Nella imitazione grafica, sulla pagina, della disseminazione statistica degli eventi nel tempo, dell’azzardo ineliminabile dal colpo di dadi, vi è il segno premonitore della rottura del patto vigente fra parole e cose nella tarda civiltà della Scrittura, e si avverte il presagio di un nuovo ordinamento probabilistico dell’esperienza e delle sue simulazioni, di un inedito spazio dello scrivere, del ciberspazio come ultima quasi-mistica allucinazione consensuale.


Scrittura e lettura 

Nello spazio letterario, scrittura e lettura si corrispondono come due poli o due istanze di quella ripetizione differente che è la messa in opera di uno schema del mondo. Non che si attui un dialogo fra due soggetti animati dalla buona volontà di mettersi d’accordo sulla cosa di cui è questione; non che il lettore debba necessariamente venire incontro all’intenzione artistica dello scrittore. Egli piuttosto può prendere una qualsiasi strada perversa leggere nel più profondo distacco, noncuranza e distrazione: la sua mancanza di attenzione e di rispetto hanno da mettersi in conto nel gioco delle parti che si svolge nello spazio letterario che, in quanto orizzonte egemone dell’esperienza, deve pertanto essere in grado di contenerne gli aspetti più disparati e imprevisti. 
Scrittura e lettura sono due iniziazioni simmetriche e, ciascuna a suo modo, ugualmente rischiose. Leggere ha una sua difficoltà intrinseca, sebbene di ordine molto diverso da quello dello scrivere, e nonostante l’apparente naturalezza dell’atto ormai consueto. Per noi alfabetizzati, leggere è la cosa più naturale di questo mondo e, per lunga consuetudine, si identifica con gli atti dell’apprendere e del comprendere. Per l’organismo culturale, leggere è naturale come il respiro. Per ascoltare della musica ci vuole orecchio e per guardare un quadro occorre un occhio coltivato, comunque uninclinazione, un dono speciale. In virtù della alfabetizzazione diffusa, sembra invece che la scrittura-lettura sia l’atto più scontato e democratico che esista. Leggere sembra far ‹‹giustizia di qualsiasi ricorso a un privilegio naturale››. Tutto ciò a causa della presunta naturalezza del linguaggio e financo della scrittura amanuense. 
Ma in effetti l’atto di lettura, come presupposto materiale-organico di ogni comprensione e interpretazione, ha una sua singolarità e violenza intrinseche, che sole possono forzare lo scrigno del libro, riaprire a forza l’orizzonte di senso in esso custodito, squarciare il velo opaco della scrittura, mettendola effettivamente in opera. Leggere trae dal libro l’opera che custodisce, lasciando che essa impersonalmente si reincarni: infatti che cos’è un libro che non viene letto? Qualche cosa che non è ancora scritto. Leggere sarebbe dunque non scrivere di nuovo il libro, ma far sì che il libro si scriva o sia scritto, - questa volta senza l’intervento dello scrittore, senza nessuno che lo scriva. Il lettore non si aggiunge al libro ma tende prima di tutto a liberarlo da un qualsiasi autore.
E’ nell’atto di lettura che si compie allora, come per gioco (per una sorta di infedeltà costitutiva della tradizione), il processo serio e faticoso di spersonalizzazione dell’autore che fonda la dimensione della fiction, la purificazione del materiale biografico, la trasmutazione alchemica del vissuto singolare nell’idea dell’opera: l’apparenza di una cosa superflua ed anche la poca attenzione, lo scarso interesse, tutto il possibile arbitrio del lettore affermano la leggerezza nuova del libro, divenuto un libro senza autore, senza la serietà, il lavoro, le gravose angosce, il peso di tutta una vita che vi si è riversata, esperienza a volte terribile, sempre temibile, che il lettore cancella e, nella sua incuria provvidenziale, considera come niente.

L’atto di lettura restituisce dunque ‹‹l’opera a se stessa, alla sua anonima presenza, all’affermazione violenta, impersonale, che essa esiste. Il lettore è egli stesso sempre fondamentalmente anonimo, è un lettore qualsiasi, unico, ma trasparente.›› Vi è perciò una profonda dissimmetria fra l’atto della lettura e quello della scrittura nello spazio letterario e proprio tale dissimmetria ne costituisce la caratura, la cifra che lo caratterizza in quanto spazio simbolico, la sua dis-misura di fondo rispetto a quello reale. Ora è proprio questa dis-misura costitutiva, che viene meno negli ipertesti interattivi elettronici, nel ciberspazio, dove il lettore diventa a tutti gli effetti coautore, azzerando, almeno idealmente, la distanza che lo separa dall’altro ma nello stesso tempo annullando quel tipo di differenziale po-etico, di violenza inaugurale che erano propri dello spazio e dell’opera letteraria; assimilando perciò la messa in opera di una intenzione artistica non più tanto a un processo di spersonalizzazione  quanto a uno di cooperazione ideale; non più tanto alla lotta violenta con l’ ‘angelo necessario’ della storia inventata, con l’autore antagonista, con l’autorità personificata nel s/oggetto letterario, quanto alla distribuzione variabile dei ruoli e delle parti, dei moduli e delle gerarchie, dei linguaggi, dei livelli e dei gradi di libertà fungibili nedisegni d’interfaccia e nelle applicazioni disponibili; che comunque vanno implementate all’occasione e consensualmente, secondo una competenza tecnica che è ancora lungi dall’essere naturalizzata e che dunque non può facilmente scomparire nell’artefatto, come è nel caso della scrittura letteraria, o essere innocentemente violentata nella pacata consuetudine di un gesto acquisitivo (quello indicale) o di una funzione (quella fonatoria) che omologano ogni alterità in nome di un presunto diritto naturale di dar nome alle cose. Con tutta la libertà di scelte che lo caratterizza, non rimane più alcuna innocenza nell’atto del lettore ipertestuale che non può mai dimenticare le prefigurazioni, le opportunità e i vincoli offerti dall’interfaccia in uso, il processo di rimediazionemateriale sottostante al testo digitale che egli può ‘riscrivere’, o al ciberspazio in cui egli può ‘liberamente’ immergersi e a piacimento navigare. Proprio per l’apertura infinita e per l’infinita s-componibilità dell’ipertesto digitale in rete, non può più sussistere alcuna illusione o presunzione di assolutezza e autonomia del nuovo spazio simbolico egemone, del ciberspazio che si presenta pertanto come spazio di simulazione illimitata, matrice culturale e ideologica, allucinazione consensuale produttiva delle nostre condizioni di esistenza reali.
La dis-misura (tra scrittura e lettura) caratteristica dello spazio letterario è cosa trapassata: la violenta trasmutazione in opera, quasi per un processo naturale, del testo durante l’atto singolare e anonimo della lettura muta, che decifra ‹‹le ineludibili modalità del dicibile e dell’udibile”››, le ‹‹segnature di tutte le cose››, è cosa già desueta per le giovani generazioni che, come spesso con disappunto ripetiamo, non sanno più né leggere né scrivere. Né lo sapranno mai più: almeno non secondo i canoni, i modi e gli atteggiamentipsicosomatici che ci sono consueti e che associamo ‘naturalmente al culto e al privilegio della tradizione letterariaLe cose ora non stanno più così: i mezzi i canali dellatrasmissione culturale sono irreversibilmente mutati. Si tratta allora di concepire una nuova teoria della produzione, archiviazione e trasmissione del senso; e al suo interno ridefinire il ruolo della letteratura, i limiti dello spazio letterario e le nuove figure che in esso possono albergare. Soltanto al prezzo di questa negazione radicale di ciò che siamo sempre stati (soggetti letterari) e di ciò di cui siamo sempre stati competenti (oggetti letterari), soltanto a tale prezzo sarà possibile trasmettere ai più giovani il patrimonio della letteratura, seppure con una funzione più sobria e modesta di prima, e tuttavia di vitale importanza per mantenere un minimo di continuità col passato nel bel mezzo della cesura epocale in cui siamo capitati. Il nostro è il compito dell’esule che suo malgrado deve dare testimonianza di un mondo desueto, di colui che non condivide più con le nuove generazioni né patria né lingua, e tuttavia è chiamato a mettere a rischio la propria identità umana e professionaleper poter tenere aperto l’orizzonte di un dialogo, su cui altri potranno costruire untradizione nuova
È in questo sacrificio dei ruoli istituzionali e delle competenze disciplinari faticosamente acquisite nel corso di una vita, che consiste la chance di ciò che ci piace chiamare ciber-ermeneutica, cioè di una teoria della produzione e della ricezione del senso, sotto condizioni e presupposti tecno-logici radicalmente mutati, nel momento in cui ci tocca di rinunciare per sempre alla presunzione di autonomia ed assolutezza dello spazio letterario, in quanto spazio egemone e per lungo tempo consueto della trasmissione culturale.




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Giuseppe Martella