lunedì 25 aprile 2011

Gilles Clément “Manifesto del Terzo paesaggio” Quodlibet, 2005


A partire dal problema di recuperare spazi che hanno perso i connotati originari per essere stati oggetto di insediamenti industriali o sfruttati in diversi modo dall’agricoltura, dall’urbanizzazione, e ora abbandonati, Gilles Clément nel suo libro “Manifesto del Terzo paesaggio urbano” Quodlibet, 2005,  affronta la ridefinizione di queste aree proprio attraverso il loro stato indefinito, di scarto che li restituisce, in assenza di ogni decisione umana, alla loro  naturale evoluzione biologica: è esattamente questo il Terzo paesaggio.
“Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana” si scoprono una quantità di spazi privi di funzione. Questi frammenti di paesaggio, privi di alcuna forma, sono tuttavia il luogo rifugio della diversità, spazi in cui, cioè proliferano animali, vegetali, batteri, virus: una diversità scacciata altrove”. Ogni organizzazione razionale del territorio produce un residuo: ”in ambiti rurale saranno i confini dei campi, i bordi delle strade, le siepi; in ambito urbano aree dismesse o in attesa di destinazione”. E’ evidente che rilievi, presenze geografiche che interrompano la sfruttabilità edificatoria o di coltivazione sono terreno principe della diversità. Se le riserve sono insiemi protetti dall’attività umana, i residui non beneficiano mai di uno statuto di protezione, ma accolgono specie primarie a cicli rapidi  fino all’installarsi di una permanenza. Clément ha effettuato un ciclo di lunghe osservazioni sui terreni dismessi, con le quali ha raccolto una serie di dati inerenti all’insediamento e allo sviluppo delle diverse specie viventi, modalità con cui le specie indigene si mescolano alle specie esotiche, in questi che egli definisce sistemi aperti, che di fatto concorrono alla “mescolanza planetaria”. Nelle aree in cui interviene l’essere umano si constata una perdita di diversità di specie stabili, mentre la crescente antropizzazione del pianeta porta a un immenso residuo in cui sono presenti un numero ridotto di specie, in equilibrio con l’attività umana.  E’ in questo senso che la questione del “Terzo paesaggio acquista una dimensione politica”, poiché per il suo mantenimento è necessaria una coscienza collettiva: “Ogni alterazione non reversibile del Terzo paesaggio compromette la possibilità di invenzione biologica, orienta l’evoluzione diminuendo in proporzione il numero di strade possibili”.

La specificità  progettuale indicata in questo libro è che “Solo la moltiplicazione, lungo le maglie, dei residui derivanti dall’organizzazione del territorio permette di predisporre rifugi per la diversità”, ove naturalmente non è possibile prevedere le direttrici di sviluppo di queste aree poiché soggette alla fluttuazione dell’ambiente. In ogni caso, “La modificazione delle forme, la successione delle specie, il meccanismo dell’evoluzione propri del Terzo paesaggio sono incompatibili con la nozione di patrimonio” poiché è proprio il disinteresse per il Terzo paesaggio da parte delle istituzioni a renderlo possibile”. Clément fa sue alcuni elementi mutuati dalla cultura orientale: invocando la necessità del non intervento, del lasciare fare al naturale corso degli eventi, adattandovisi anziché imporre regole dall’esterno, in un inno alla non organizzazione. L’intervento del progettista-non progettista/giardiniere consisterà nell’aumentare le porzioni di terzo paesaggio esistenti, oltre naturalmente ad infoltire gli strumenti adatti allo studio di questi territori indecisi, e a “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica”, “valorizzando la crescita e lo sviluppo biologici, in opposizione alla crescita e lo sviluppo economici”. In questo “rovesciare lo sguardo rivolto al paesaggio in Occidente” Clément ha in mente “altre culture del pianeta, specialmente quelle culture i cui fondamenti poggiano su un legame di fusione tra l’uomo e la natura”.
L’attenzione di Clément è, in questo manifesto, rivolta esclusivamente alle questioni biologiche ed ecologiche. Ma, come già nota Filippo De Pieri nella sua postfazione al libro - in cui cita anche altri libri dell’autore, i quali descrivono le sue esperienze progettuali di giardini - lasciare liberi i giardini di non rispondere a una forma prefissata a priori, vuol dire abbattere il problema della forma. Per Clèment il ruolo del giardiniere è soltanto quello di osservare e di orientare: il giardino, pertanto, esclusivamente come luogo di esperimenti sulle relazioni tra le specie, dove il giardiniere, appunto, ne introduce di nuove e ne studia gli effetti: “il processo attraverso cui il giardino si trasforma è più importante dei suoi stadi”. Naturalmente, il passaggio a un ambito estetico, pure sollevato dallo stesso Clément nel corso delle sue esperienze progettuali, se basato esclusivamente  su considerazioni scientifiche mostre falle e insufficienze: non è sufficiente l’attitudine all’osservazione per insediarsi in un ambito estetico. Non basterà notare che le talpe procurano “in un giardino in movimento preziose forme di land art” o l’apparizione delle piante “vagabonde” “che muoiono in un luogo per rinascere uguali in un altro”. E, d’altronde, la volontà di ottenere una rappresentazione visiva del giardino planetario, esteso a tutta la terra senza soluzione di continuità, disegnando “ciò che sta tra e non ciò che è” se parte dalla necessità di “rinnovare il legame con il processo analogico di lettura dell’universo” in una sola parola, con l’estetico, allo stesso tempo fa apparire come una soluzione calata dall’alto quella da lui proposta di far riferimento alle categorie del sacro, del soprannaturale, del mito, del simbolo. Parrebbe, a noi lettori, che si voglia far entrare dalla finestra ciò che così precisamente si era tenuto fuori per esigenze legate allo studio scientifico degli ambienti in oggetto e con un atto arbitrario, che non fosse cioè motivato da una concettualizzazione inerente al fare artistico. Non basta combinare i simboli con l’equilibrio di un ecosistema per effettuare il salto di scala all’arte dei giardini. Genere, d’altronde, esplicitamente bistrattato da Clément.

                                                                                                             Rosa Pierno

sabato 23 aprile 2011

Flavio Ermini “Antlitz” Anterem Edizioni, 1994

Si riparte dalle mani, affidando a esse il compito di traghettare il senso originario, quanto più vicino al corpo, meno distante cioè dall’immanenza del corpo. Ma il compito si rivela subito essere dei più improbabili da portare a termine: “Viene data fin dall’inizio la parola ai fratelli. Poteva essere l’alba o l’ora stessa del crepuscolo quando le acque volsero a loro quietamente. Niente fa pensare al velo”.   L’imprecisione dell’ora o almeno la sua indecidibilità ci fa nascere un sospetto: l’immagine è artificiale, è costruita esclusivamente dal linguaggio. Non c’è un’immagine reale, anche solo mnemonica che si stia descrivendo. A riprova la frase conclusiva della lassa: “Niente fa pensare al velo” che equivale a un avvertimento per i lettori. Altrimenti detto, il testo è costruito attraverso un collage onirico di narrazioni. E’ il mondo così come lo si conosce dalla letteratura. Più nessuna realtà. L’origine allora non sarebbe che un fondamento infisso nella trasmutabilità delle parole, nella loro vibratile presenza, fantasmatica consistenza.

Ci rendiamo conto che disseminate nella geometrica e calmieratissima misura delle lasse ci sono delle istruzioni per l’uso, qualcosa a favore dei naviganti, come un faro che illumini nella notte.  A che cosa servono istruzioni laddove si è appena mostrato che le parole sono mobili come sabbia? “Non è che un modo per deviare dalla strada fino ad ora seguita”. Meta-scrittura che serve ad interpretare la scrittura, a fornire le regole per giocare, che sia un cambio di scala o una presa di distanza, affinché non si venga catturati dall’angoscioso gioco, perché è strano, ma, in ogni caso, il testo sembrerebbe poter essere ascritto al genere della tragedia. Forse, allora, non eravamo stati sollevati dall’esistenza.

E che testo sia sempre da interpretare e che anzi la riuscita dell’interpretazione, perché ce ne sarà pur sempre una maggiormente adeguata, dipenda dalla maggior quantità di testi con cui si costruisce la propria lettura è cosa certa. Eccoci allora ripiombati nell’immanenza dell’esistenza: tema peraltro che costituirà l’oggetto ineludibile di ogni testo di Ermini. Sentiamo risuonare leggende e versetti biblici, testi moralistici e  testi epici. Ma anche film e quadri. “In assenza di luogo, nessuno prestò attenzione all’uomo dei camion al ritorno. Quanto al passato, la figlia stessa si accosta all’acqua. Solo a tarda sera venne data per certa l’innocenza del fratello.”   Al tentativo dell’interpretazione si accompagna anche la fuga in avanti, verso la soluzione, che sia almeno termine: “Avresti preferito incarnare l’uomo dei camion o quello del destino?” E’ possibile ancora una scelta o sugli asfittici specchi fra cui il testo rimbalza una determinazione individuale è impossibile? E tutto è già scritto? E che sia l’autore e non un dio poco differisce. L’universo che il testo impuntura, innalza, è completo e autosufficiente, sicuramente autodeterminato.

Certo, parrebbe a ogni mossa, a ogni lancio di dado, i quali determinano la presenza di una frase anziché di un’altra (quasi serie intermittenti con presenze diversamente dislocate a seconda del caso) le vie si biforchino e possibilità diverse si profilino all’orizzonte o forse sono solo diverse storie che s’intersecano senza possibilità di distinzione. Ma anche prologo e finale si scambiano di posto. Eppure non si cada nell’errore di leggere simbolicamente questo splendido testo. Tutti i simboli sono intercambiali all’interno delle narrazioni e le cose si tramutano e si trasformano vorticosamente. Ma si noti la quasi totale assenza di aggettivi, come se le cose fossero essenze prive di attributi e, quando ci sono, sono quelle che stanno attaccate alle parole, come se ne rivestissero lo scheletro o le rendessero più riconoscibili, quasi una sorta di cliché: bianche lenzuola, capelli sciolti, la città santa, l’alto poggio, lievi tracce, tarda notte. Alfine, la conclusione sarà impossibile e l’origine confusa nella moltitudine delle storie narrate. Resta il testo che pone il problema e che afferma che la soluzione è solo nel continuare a narrare. 
      

                                                                                                                    Rosa Pierno

giovedì 21 aprile 2011

Marcelo Salvioli "Monumenti e teche"


Con un griglia di segni che intercetta luce accecante e catramosa ombra, Marcelo Salvioli, artista argentino, affronta monumenti antichi grondanti di storia. Ma il pettine di segni con cui l’artista costruisce tali apparizioni  è contemporaneamente anche ciò che rende instabile l’immagine appena riportata alla vista.  In questo incessante battere di un concettuale pendolo tra i due estremi, si situa la particolarità dei disegni a carboncino di Salvioli. Il riferimento alle incisioni di Piranesi, che immediatamente vengono alla memoria, è di fatto subito liquidato da questa forte polarità a cui i disegni danno luogo: liquidità e instabilità che in alcuni fogli è accentuata fino alla colatura, fino alla sparizione: i segni dapprima si sovrappongono e poi effettuano la cancellazione di quelli sottostanti, il disegno pare effettivamente muoversi sotto la pupilla accentuando lo stato di passaggio, quasi si trattasse di due immagine diverse dello stesso monumento di cui sia visibile la sostituzione di un fotogramma dopo l’altro, come in una proiezione filmica. D’altronde, è il monumento stesso che a cagione della sua fragilità si sfalda attraverso il segno, si apre come se il terreno gli smottasse al di sotto, anzi alcuni sono “ripresi” proprio durante il crollo, attraverso la straordinaria capacità del segno in Salvioli di farsi puro moto. Oppure il crollo è immaginato a partire dai gradi di libertà della materia sottoposta a forze motrici. Materia qui, e ritorniamo alla luce e all’ombra, non è più marmo, non sono più le erbacce che sono cresciute sulle trabeazioni, è proiezione fantasmatica.       

Ma anche un altro effetto si può notare in questa serie di disegni: ad esempio, lesene e capitelli in un interno sono tracciati con un grigio illanguidito, mentre colonne e pinnacoli in primo piano stanno crollando e sono resi con un forte tratteggio che riesce a imprimere una percezione volumetrica al disegno. Il che può essere anche un modo per portare in secondo piano gli elementi meno importanti, quelli, cioè, che hanno una funzione percettiva secondaria nell’attenzione, mentre gli elementi tratteggiati col nero acquistano un maggiore peso, a tal punto da far crollare il monumento che li regge: quasi una sottolineatura della funzione preponderante dell’ornamento.  

Salvioli rende il suo intervento sempre più sfigurato, nel tentativo di saggiare la resistenza del monumento nella sua capacità di restare riconoscibile per noi, quasi di essere un archetipo: scolpito nella nostra retina a prescindere. E’ il ruolo della cultura come elemento talmente connaturato da divenire naturale. E per questo siamo indotti a riconoscere nei segni rossi ciò che connota l’organicità del monumento, vene e arterie, le quali vengono alla luce, proprio mentre gli elementi del monumento si spezzano crollando a terra.   Non distanti dai discorsi che siamo venuti intessendo fin ora, sono anche quelli inerenti alla serie di disegni afferenti alle teche, contenitori devozionali in cui venivano racchiusi per preservarli il presepe o la statua del santo. Per Salvioli, non pare interessante individuare il contenuto: vi è un ammasso di coagulati segni che valgono per se stessi, non solo in relazione a presunti oggetti preziosi. Importa solo il simbolo del contenitore, la sua funzione di memoria, equivalente a quella che potrebbe avere una biblioteca, ma in cui, questa volta, sono le immagini gli oggetti da sottoporre a culto. Una teca può contenere a sua volta un intero monumento e garantisce la sua organica persistenza nella nostra mente.

Rosa Pierno

Le opere di Marcelo Salvioli, insieme a quelle di Simon Edmondson,  si possono ancora vedere presso la galleria Spazio Nuovo, Roma, fino al 30 giugno.

mercoledì 20 aprile 2011

Claudio Adami “Ora, ad allora”

Mostra presso la galleria Patrick Heide Contemporary Art, Londra, dal 20 aprile 2011 al 21 maggio 2011


I supporti sono stati oggetto per Claudio Adami di una ricerca ossessiva quanto lampante.  Il movimento per cui si tende a conservare in tutti i recipienti possibili, la cancellazione operata con la scrittura è un’azione che sfida lo stesso concetto di paradossale. Cosa, infatti è più definibile come tale se di fatto lo si realizza? E da quale punto in poi il paradosso non si riesce più a ravvisare? La pila di contenitori, scatole di cartone e di alluminio, che vengono sovrapposte a formare un muro, avendo sovrimpressa la data iniziale e finale a cui si riferisce la documentazione in esse contenuta, dà, a fronte della disposizione casuale, ovvero determinata dall’incasellamento che le dimensioni consentono nella muraglia, una sensazione di ordine da cui non si può prescindere.  Un ordine senza revoche, senza deroghe,  che il contenuto della documentazione, uguale a parte il supporto su cui viene registrata,  fa risuonare in maniera ancora più trascendente. Una sorta di distacco dall’immanenza ottenuta attraverso una biografia tracciata apponendo segni il cui valore espressivo è la cancellazione. Un ordine che sovrasta e domina. E che non è che intuibile; conoscibile soltanto volontariamente aprendo una per una le scatole e scoprendo al loro interno la modalità organizzativa di tale scrittura, la quale è determinata dal contenitore: fogli sciolti, rotoli, schede, cartelle. Il che vale come un inno documentario, una raccolta pedissequa delle forme su cui si può scrivere e delle date di tale impegno, di tale assertoria dedizione: è in questo modo che un’esistenza viene spesa ed eccoci ritornati nel modo nell’immanenza. Siamo, dunque, all’interno di polarità che sono centrali nella ricerca di Claudio Adami e questa mostra londinese ripercorre le tappe più salienti di un percorso che solo apparentemente è monocorde. L’arte richiede uno sguardo acuto, attento alle più riposte pieghe e soprattutto per lavori come quello di Adami in cui la raffinatezza raggiunge altissima cifra. Oltre che, naturalmente,  farsi strumento di un messaggio che è quello precipuo dell’arte, la quale fa della scrittura un’immagine.

Rosa Pierno
http://www.patrickheide.com/

sabato 16 aprile 2011

Inediti da “Vulnus” di Francesco Marotta

Scavare nella scrittura non può che restituirne i segni più superficiali. Non esiste un fondo della scrittura come pure della necessità di scrivere. Tutti i segni sono gettati sulla tavola, li si può scompigliare e con essi ricostruire un’altra conformazione: resterebbe comunque enigmatica scrittura, con cui eppure si può dire l’intero mondo facendolo risplendere con nuova evidenza. E’ questo il caso paradigmatico esemplificato dagli inediti  versi di Francesco Marotta tratti dall’opera “Vulnus”- ancora in fase di stesura - ove la scrittura si trova contrapposta all’oblio in cui ci troveremmo senza di essa. Il poeta viene alla luce su un foglio di carta e percepisce il nulla attraverso lo scolorire dell’inchiostro.  Mondo è scritto, disegnato, e paesaggio è funzione della luce, ma è foglio che si anima, da cui si leva concreto silenzio, da cui emergono trine di  materie dalle quali originerà il mondo, in un inverso processo.


11.
si perde in sabbiose minuzie
in un vociare stento di clausura
che non basta la vita a definirne
il senso la grammatica visibile
dell’esistente eppure quanta anagrafica
purezza cova l’imperfezione
che rileggi materna lo sghembo
tenace ornamento che ricopre
a malapena la lesione del ventre
la cicatrice sepolta nel bianco
del foglio lo smorire dell’orma
l’inganno senza memoria della riva

14.
un cerchio di umori
il rarefarsi della luna su un paesaggio
di resti cui manca l’afflizione dello sguardo
il permanere nel punto estremo
dove l’ultimo refolo di luce
ammanta la maceria di miracolosi
risvegli sarà questa leggera
vigilia di attimi inudibili
il rovescio che a volte germoglia
da umbratili congiunzioni di polvere

16.
la chimica dei passi
la musica che serra orme in un intrico
di curve e forme in fuga lo spazio
severo incorniciato da pietre
di confine l’ultima possibile nascita
d’indivisa appartenenza
dove si apre il passo e il corpo
è acceso dai suoi mille nomi
resina e respiro in fiamme irreparabili


Francesco Marotta (1954). Tra le sue pubblicazioni in versi: Le Guide del Tramonto (1986); Memoria delle Meridiane (1988); Giorni come pietre (1989); Alfabeti di Esilio (1990);  Il Verbo dei Silenzi (1991); Postludium (2003, Premio “L. Montano”); Per soglie d’increato (2006); Hairesis (E-book 2007); Impronte sull’acqua (2008, Premio "R. Giorgi"). In antologie ha pubblicato le sillogi Creature di rogo (1995), e Notizie della Fenice (1996). Gestisce lo spazio web http://rebstein.wordpress.com/

mercoledì 13 aprile 2011

Claudio Adami "insieme nero....complementare al nero"




Il detto è annerito. L’antefatto non è comunque costituito da un incipit, da un canonico inizio. Unico indizio, il testo cancellato. Mai esistito. In origine il verbo, ma qui vi è soltanto un segno che dice che qualcosa all’inizio c’era.  Bisogna ripartire dalla convenzione, dalla posa arbitraria della prima pietra, dal polso che con fermezza sostiene il movimento occultatorio della mano, dall’inchiostro che ambiguamente riempie/nasconde.

Disvelamento e occultamento, è una vecchia storia, quasi lo svolgersi scontato di un evento con suspence; decorso indiziario di cui l’unica certezza che ci resta fra le mani è un illeggibile libro.

Si rileva la presenza di una scrittura che non consente alcuna decodifica, eppure scrittura, eppure traccia che annera l’orizzonte, emanante luce che stiletta il nero; lo fende. Carta testimonia di un caso da svelare. Di un finale che vuole emergere. Di una verità sepolta da una rappresentazione che ha cancellato qualsiasi traccia di rosso.

Scrittura inventata, acuminata e con poche variazioni ricorsive, priva di alfabeto, nessun codice da decrittare. Non si rileva significato: nessuna lingua. Creata, formata dal fondo sul quale riluce. Il segno si capovolge. E’ il nero che, ora, balza all’evidenza.  E’ il nero la traccia, il vero segno.  Incantevole rivoltare di carte sul tavolo. Ci si sente giocati da una parvenza, da un illusorio gioco di mano.

L’inizio vi appare non coincidente con la fine. Ciò che ha inizio non può proseguire né svolgersi, è figura. E’ rapporto con quanto resta della pagina intonsa, non percorsa dalla pervasività del segno. E’ pura immagine. Del verbo non sa che farsene. E’ questa la soluzione del giallo.

                                                                                                              Rosa Pierno

lunedì 11 aprile 2011

Gabriella Drudi “Motherwall” dalla rivista “Appia Antica”

Con questo testo, e con altri che seguiranno a breve,  vorrei rendere presente Gabriella Drudi, il suo magistero nella critica d’arte. Nome che non è ricorrente, né citato né studiato, mentre è invece stata una voce straordinaria in campo critico e letterario.




Gabriella Drudi, in questa sua nota critica su Robert Motherwall apparsa nella rivista “Appia Antica” (priva di data) parte da una descrizione come fosse un la da cui debba scaturire un’intera sinfonia. Partirsi cioè dalla descrizione soltanto per accostarsi all’oggetto, introiettarlo, e ascoltare la risposta scaturita nell’io. In questo caso è la descrizione del quadro di Motherwall “Spanish elegy”, 1954, visto nella galleria della 69 strada. A una descrizione accurata del quadro succedono lacerti di una conversazione avuta con l’artista, il quale afferma che attraverso il rifiuto  e il contatto stabilisce ciò che sente e ciò che crede. Nel libero gioco delle variazioni si sventagliano scoperte e conferme e attraverso il dubbio e l’ambiguità la consapevolezza etica. Ma eccola, finalmente, la zampata di Gabriella: “Il dilagare eccessivo delle forme nere rispetto al fondo è in parte giustificato dall’impasto opaco del colore che – per quanto diluito con l’olio – rimane sordo alla luce come un bitume. In questo caso l’olio ha agito piuttosto al modo di una linfa untuosa e mantiene spesso e cedevole come una carne quel nero senza riflessi”. La Drudi legge di rincalzo cancellature, scolature, sovrapposizioni come innescanti il concetto di azione annullatrice. Tutto il testo costruito dalla Drudi, la quale non perita di inserire nel brano ripetizioni dello stesso come accadrebbe in un’azione filmica che  a partire da un’immagine ripresa per intero riparta da un suo dettaglio per meglio esprimere o ridire, per focalizzare il punto originario, per mostrarlo in altri modi, non perde mai di vista l’oggetto  da cui si dovrà desumere o cavare il senso delle sue ragioni d’essere. A questo punto è come avere immagini diverse dello stesso oggetto: sia che si tratti di brani di conversazioni con l’artista sia che si tratti di  descrizioni di altri quadri in altre mostre del medesimo artista, a cui peraltro sempre  un letto o un divano o una scala impediscono l’arretramento necessario per vederlo da una posizione maggiormente distante, per afferrarlo finalmente in una totalità impossibile. Consiste in questo lo straordinario metodo  usato in questo caso da Gabriella per avvicinarsi ai quadri, al loro nucleo essenziale, al significato che letteralmente essi scatenano in lei. Critica d’arte, dunque, come sintesi intellettiva, culturale, percettiva del singolo che si fa strumento di ascolto e di analisi. Nessuna sensibilità da sola sarebbe sufficiente per restituire qualcosa dell’arte, nessun metodo solamente formale sarebbe esaustivo. E’ tutto l’essere e tutta la cultura che vengono richiamati per dire qualcosa dell’oggetto d’arte: “Quanto la scritta serva per riscoprire il fondo o quanto viceversa essa si disponga in forma di sbarratura per porre meglio in rilievo ed eccitare le precedenti zone colorate, si sarebbe potuto forse stabilire esaminando più da vicino, nel loro processo, i rapporti reciproci e successivi delle pennellate. Ma il grande letto, collocato sotto il quadro per tutta la sua larghezza, impedisce di avvicinarsi. Un’azione per essere morale può ancora, in questo senso, rivelarsi come processo attivo di negazione”.


                                                                                                           Rosa Pierno

venerdì 8 aprile 2011

Ida Travi “Tà. Poesie dello spiraglio e della neve” Moretti & Vitali, 2011


La scena disegnata dal libro di poesia di Ida Travi “Tà. Poesie dello spiraglio e della neve” Moretti & Vitali, 2011, è affollata da oggetti e parole, entrambi utensili, eppure con una pala non si può scavare un’anima. Pare un ostacolo ineludibile. Una di quelle evidenze tragiche, come un  mare separato in due. Né basterà togliere il cappotto per mostrare le spirito. E’ dichiarata guerra, è mostrato il taglio non rimarginabile, l’assurdo (richiamato anche nel breve antefatto in cui si fa riferimento all’attesa beckettiana di non si sa di chi) compito che siamo chiamati a dirimere semplicemente perché esistiamo.
Eppure non peritano, le cose, in un subdolo trasformismo, di assumere le sembianze dell’immateriale.  Musica sarà gesso che picchia in testa.  Neve diventa muro. E tutto questo determina  anche la sensazione che i simboli siano rivoltati o ipertrofici: troppi significati stratificati, fra i quali non si può più selezionarne uno trainante, che abbia il valore, appunto, di un simbolo. Il passo è breve: immediatamente essi assumono una sinistra autonomia: “Come poteva il sole brillare così / sulla nuca nera, sulla schiena nera?”.  Le immagini, innescate da tale proliferazione semantica, vengono infilzate  come perle per comporre collane di storie: “ Ci vuole un tamburo tale / da mettere i sassi in cammino. // Tu cerca nella neve la briciola smagliante // Segui il polso infantile, seguilo / fino alla fiamma, fino al colletto bianco”. Storie scompaginate, brandelli di storie, o meglio, nuclei da cui può partire un intero racconto, una saga. L’innocenza del racconto, riposando su un suolo infido. Saranno ancora quegli stessi simboli a mostrare la doppia faccia di ogni medaglia, l’altro  aspetto delle cose, quello raccapricciante: che slega e fora. Inutilmente si farà riferimento al sonno come elemento riparatore, che solleva da tale stressante realtà. Non sarà che il sonno procura gli stessi deliri presenti nel linguaggio? La trappola è perfettamente delineata nei suoi meccanismi, nelle cesure che causa, negli impedimenti che determina. “Olin ti sbendo. Tu guarda / dall’altra parte, guarda / se per caso è fiorito il braccio/ come è semplice la testa adesso”. La desiderata pacificazione può darsi sia solo desiderio di una convivenza possibile. E comunque non è detto che l’incubo non svanisca. Potrebbe diventare sogno. Anche se è più probabile che visioni serene e incubi non siano separabili, che mescidino i loro regni. Probabilmente una possibile via  d’uscita consiste nello spezzare gli oggetti, nello svelarne i meccanismi di funzionamento: “Chi è stato?! / Chi ha spezzato il ramo? / Era la legge / Resisteva, come un abete / E adesso? / Si vede l’età / Si vedono i morti attraverso i secoli”.
Lì dove niente è come sembra, mantenere la calma è  azione eroica. Ritornare in sé, pare una strategia sufficiente: limitare l’uso delle parole sembra certo azione paradossale in un poeta. Ma non pare ci sia scelta: “non puoi discutere con le rose / hanno sempre ragione loro”. La coscienza è assediata e nello stesso tempo si sa che è lei che produce le proprie catene. Il poeta attua una strenua resistenza e denuncia lo stato di fatto. Sono continui gli incitamenti che i personaggi sulla scena poetica si rivolgono per tenere tutto sotto controllo: “Sii te stessa, per favore, lascia stare / il fantasma, metti via / quella stupida pala argentata”. L’intero poema appare come una fabbrica di immagini visionarie le quali vengono prodotte e rifiutate, affiorano e si allontanano. Dicevamo che la scena teatrale in cui i personaggi sono messi in dialogo è la scatola a cui il teatro contemporaneo ha affidato il compito di esprimere la gabbia esistenziale dell’epoca attuale, in cui il tempo è però un elastico: consente di passare attraverso i secoli, di ottenerne la compresenza, di sentire le voci dei morti, e proprio mentre la scatola diventa il meccanismo che intrappola, mostra sulle pareti interne dinamiche metamorfiche, paesaggi innevati, cieli inondati di luce. E anche il soggetto, in questo contesto ambientale, diviene oggetto, effettua la medesima metamorfosi delle cose: “Sono forse un martello io? Sono forse / un dannato martello colpevole di qualche cosa?”. Non estranea in Ida Travi anche l’eredità kafkiana, poiché ella descrive un’umanità che dalla  ferrea legge è resa colpevole.  Se a legge verrà opposto amore c’è da credere che non sarà atto risolutivo. La richiesta di essere sbendati, di vedere finalmente come stanno realmente le cose, di svellere il potere delle idee, forse esprimerà l’esigenza di restare aderenti alla pelle delle cose: “quello è il tuo osso, Attè / quello è il tuo fondamento”. Una soluzione può essere, dunque, quella di trasformare le parole in oggetti o è quella di far intervenire qualcuno, di cui l’attesa è segno. Favole crudeli si succedono senza interruzioni di continuità, favole disseminate di oggetti: sassi, fragole, alberi, neve, foglie, pane. Ma non sarà proprio la capacità della poesia a donare la possibilità di non essere banali, di  non abituarsi a nulla, di non accettare niente come dato e tutto ricreare? Non è che retorica domanda. Parola è trappola e liberazione insieme.

                                                                                                                  Rosa Pierno

martedì 5 aprile 2011

Susanne Kessler in mostra a Roma


“Vortice” mostra presso la galleria Monty & Company  in via della Madonna dei Monti 69, Roma, dal 22 marzo al 21 aprile 2011

L’installazione presentata da Susanne Kessler avvolge la colonna centrale dello spazio della galleria Monty & Company (che con il suo sapore antico è perfetta cornice) con i suoi nastri e creando un moto a spirale, vorticoso, appunto. L’invasione dello spazio che la Kessler ottiene con le sua struttura è una sorta di azzeramento dello stesso. Non si rimane estranei o non coinvolti di fronte a questa presenza mobile e invadente, strana materia attribuibile sia all’organico sia all’inorganico: ed è questo, a nostro avviso, il punto essenziale. Organico e inorganico quanto sono separati fra di loro e da che cosa? La vita può costituire la differenza? E se fosse morto organismo, in via di mineralizzazione, noi, al di là delle categorizzazioni scientifiche, che cosa potremmo pensarne, quanto varierebbe la nostra riflessione? E mentre la guardiamo, la struttura, la quale si serve di una rete metallica per acquistare volume e contemporaneamente rampare nello spazio, avvinghiandosi e avvoltolandosi su se stessa e su quello che incontra sul suo percorso,  riattivando molteplici percezioni sensoriali, a tratti ci provoca epidermiche vibrazioni, a tratti fascinoso rapimento. Non lontane dagli studi di W. Thomson D’Arcy, raccolti in “Crescita e forma”, queste opere sembrano affrontare il problema della costruzione della forma in natura: non solo di quelle che presentino progressione numerica (Fibonacci) ma soprattutto quelle casuali, a cui però non può non riconoscersi un’insistenza che si agglomera comunque in una forma.

Ad accentuare la sensazione del materiale incongruo eppure in espansione, inerte eppure pulsante – si guardino le teche di plexigas che contengono quello che è possibile definire come un vero e proprio museo delle mirabilie cinquecentesche e seicentesche – è ciò che di quelle forme resta una volta che con la carta si siano rintracciate le direttrici di sviluppo delle forme, le membrane, i vasi sanguigni. Ma anche sorta  di stadi che precedono quello fossile, schemi che servono per individuare le relazioni, gli sviluppi, le trasformazioni della materia. Modellini in ferro e carta come una volta erano di spago e cera (si pensi ai modelli dei vasi sanguigni nella cappella Sansevero a Napoli). Certo, avere scelto la carta ha un valenza particolare, poiché i segni rossi e neri che accompagnano le volute delle strisce ritagliate appartengono al regno dell’artificio, della cultura, inevitabilmente connesso con il mondo dello studio della natura.

Il disagio fisico per la rimembranza tattile di mollezze verminee e di cartagilinei scheletri  che esala dalle installazioni e dai disegni di Susanne Kessler è anche quello relativo a qualcosa che ci circonda e che spesso non vediamo, al mondo dei batteri o degli insetti o anche appartenente al regno del mastodontico: non pare forse anche un’immensa foresta quella che si ramifica ricoprendo la colonna centrale della galleria? C’è dunque, dicevamo, disagio, ma anche meraviglia per il lussureggiante moto di una vegetazione inscenata dalle strisce di carta o di tela che voltolano col vento o col respiro del fruitore, fluttuano nell’aria ma che intanto poggiano su una struttura rigida, non eludibile, e che sono concorrenziali nell’uso del medesimo pavimento e aria e soffitto,  di fatto condividendo con noi il nostro spazio esistenziale. Vicinissimi a noi, già penetrati nella nostra interiorità.

                                                                                                                Rosa Pierno
http://www.montyecompany.com/

venerdì 1 aprile 2011

Cesare Segre “Pittura, linguaggio e tempo” Università degli Studi di Parma, 2006

Cesare Segre, nel suo “Pittura, linguaggio e tempo”, Università degli Studi di Parma, 2006, partendo dall’assunto che nelle opere d’arte viene spesso esposta una vicenda che si potrebbe anche raccontare verbalmente,  opera tra l’ambito del verbale e l’ambito del visivo  una equivalenza, che ha come obiettivo dichiarato l’ideale di una “omologazione dei discorsi visivi e verbali”, anche se egli si avvede che c’è da superare il periglioso scoglio relativo al fatto che non tutte le arti presentano il medesimo portato informativo:  la musica non “fornisce nessuna informazione, salvo che su se stessa”. E anche la pittura astratta si trova nelle medesime condizioni. Egli vuole comunque  considerare anche le “codificazioni parziali come gli stili, gli ordini” e le “tradizioni figurative e rappresentative” elementi comunicativi, affermando che “queste configurazioni non sono linguaggi in senso proprio, ma codificazioni dei materiali e di situazioni rappresentabili che puntano verso l’informazione, perciò verso il linguaggio” senza prendere in considerazione che tutti i tentativi di definire, ad esempio, la musica e l’architettura come assimilabili al linguaggio hanno collezionato esiti deludenti o fallimentari. Segre, di fronte alla difficoltà di descrivere verbalmente, in un tentativo di codifica elementi quali: luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito moto e quiete, pensa che sarebbero meglio identificati dalla bravura di un Longhi, dimenticando che gli elementi formali non sono né univocamente definibili, né definibili astoricamente, e ancor meno estraibili in maniera oggettiva da un’opera per essere considerati uguali in un’altra.

Inoltre, la più eccelsa descrizione di Cesare Longhi potrà mai essere per noi equivalente alla contemplazione diretta dell’opera, mentre l’interesse di tali descrizioni risiede, invece, nell’interpretazione dell’opera che per definizione non è mai esaustiva o definitiva e nel valore letterario della stessa, oltre che nell’analisi di tutte le componenti - da quelle storiche a quelle psicologiche, da quelle formali a quelle simboliche, oltreché storiche - che migliorano in maniera irrinunciabile la nostra capacità di comprendere culturalmente il fenomeno artistico, ma, appunto, non lo esauriscono. Se Longhi ha parlato di “equivalenze verbali”, non vi è dubbio che lo ha fatto tenendo ben presente l’intraducibilità di una forma all’altra.

Anche le numerosissime metafore che Segre indica a riprova di una supposta sostanziale coincidenza tra arti e linguaggio, non sono altro che attestazioni del concetto contrario, e cioè che la metafora viene usata proprio quando siffatta coincidenza o trasparente traducibilità non c’è.  Il fatto che si usi una metafora tra due campi distanti non vuol dire che essi per il solo fatto di essere avvicinati linguisticamente condividano la medesima origine o abbiano la medesima sostanza. Segre ci pare voler ridurre l’arte alla sola componente iconologica e giustifica la sua presa di posizione col fatto che gli aspetti informativi per l’interpretazione sono altrettanto importanti di quelli formali. Eppure, non sembra necessaria la difesa della lettura iconologica poiché nessuno  osa mettere in discussione i fondamentali apporti di tale scuola,  i quali tuttavia non sono da considerarsi sufficienti per esaurire la complessità del fenomeno artistico. Come già rilevava il Riegl, i problemi iconologici cominciano col passaggio dal “che cosa” al “come”. L’enigmaticità dell’arte non si risolve col ridurla a una sola delle sue componenti (i significati provenienti da sistemi filosofici, letterari, simbolici, storici): essa appare, anzi, più evidente proprio nei tentativi di traduzione in altra forma.

Ancora, Segre nega la differenza che Lessing aveva istituito tra letteratura che si svolgerebbe nella temporalità e pittura che si esplicherebbe nella spazialità solo per abbattere la divaricazione tra visivo e verbale, anziché per divellere, come io credo sia necessario, categorie che non reggono ad analisi approfondite né alla varietà dei casi e che, se nascono come griglie d’inquadramento dei fenomeni, non devono essere però assunte come dogmi, come precetti che blocchino in una morsa proprio la ricchezza interpretativa a cui le opere d’arte possono dar luogo. E’ innegabile che soltanto il discorso verbale dispieghi la ricchezza quasi inesauribile del messaggio, e che nelle arti figurative“ il discorso del critico va incontro al non verbale e al non lineare”, ma dissolvere il fatto artistico nel discorso verbale, mostra solo ciò che il linguaggio può fare (non quello che può fare l’opera d’arte).  
                                                                                                                Rosa Pierno