martedì 31 dicembre 2013

“Conchiglie e bicchieri” da “Buio e Blu” di Rosa Pierno, Anterem edizioni, 1993


La conchiglia giace come un fiore aperto, marcescente sulla riva. Un vetro sottile, dal collo lungo, s’impossessa della parte alta del disegno.
Aperta, e nera sui bordi, con alcune chiazze che indicano l’approssimarsi dello stato di putrefazione, nemmeno si gira più nel letto.

Pettini enormi accanto a una conchiglia bivalve.
Il suo corpo gravato da pressioni atmosferiche, da cieli senza colore, ridotto allo spessore d’una lamina, era lì da sempre.

Picchi e vette, cime e punte;  tutti gli oggetti s’ergono, mentre l’altra metà è affondata nella rena.
I capezzoli puntuti,  su dune turgide, fra le onde ricorrenti dei capelli.

Alcune conchiglie sono dotate di ombra. Il mollusco vi si rintana come in uno spazio interiore.
Non ha che mani e braccia e gambe per stringersi. Rimane nuda, preda della luce.

Sono due le linee che separano  i vari livelli della rappresentazione. Sotto la prima, la rena; fra la prima e la seconda, il mare; sopra la seconda, il cielo.
Linee di demarcazione segnano alcune zone del suo corpo. Sotto  la prima, il sesso; fra la prima e la seconda, il cuore; sopra la seconda, il cervello.

Su un vassoio di pietra sono stati disposti rudimentali attrezzi da taglio: cocci di vetro, schegge di conchiglia.
Opera nello spazio cesure mentali. Dice: “Qui c’è qualcosa di diverso con cui non voglio venire in contatto”. Nella restante zona s’immerge.

Conchiglie e bonsai. In questa fase viene evitata la presenza dei pettini.
Nello specchio è vicina e lontana. Piccola e grande. Sempre con lo stesso corpo.

Accanto a un bicchiere pieno d’acqua si sperimenta una composizione realizzata con una piantina grassa e una palla bicolore.
Le mancherà soltanto ciò che più desidera.

E’ sufficiente aggiungere una linea che definisca l’orizzonte per ottenere una metamorfosi dello spazio. Tutti gli oggetti appaiono così poggiati su un piano esterno al quadro.
Rimane sempre estranea a se stessa, se non nell’atto della congiunzione con un altro essere.

Sul proscenio, una conchiglia giace con alghe ancora intrise d’acqua.
Il corpo quasi si solleva dal letto, non vi aderisce per quella particolare qualità che è la giovinezza.

Allargando la schiera degli oggetti sul piano principale, si cela la profondità dello spazio che li accoglie.
Sembra che sia tutta riducibile a quell’unico punto, in basso, fra le gambe.

Conchiglie si srotolano in linee che disegnano nell’aria voli di bandiera. Quando cadono a terra, lasciano solo una piccola impronta sulla sabbia.
Calpestata, gettata lontano e ripresa. Non è altro.

Nascondendo parte del vaso  con un bicchiere e parte del bicchiere con una conchiglia, si può giungere a pensare che l’orizzonte sia un punto, intersezione di due linee formanti  un angolo.
Tutto il suo corpo punta in quell’unica direzione.    

Con l’accostamento di oggetti  disparati si perviene a un assemblaggio coagulato esclusivamente dal luogo che li ospita.
Le membra slegate fra loro, giunte solo nell’atto della copula.

Un campanile posto dinanzi a una bottiglia, ma così piccolo da far pensare a una bottiglia gigantesca.
Apparentemente non si tratta che di avvicinare o di allontanare l’oggetto dei propri desideri.

Valve pulsano grazie a un colore, mentre lo spazio si restringe.
Impallidisce, riduce i movimenti, rallenta il respiro. Attenderà così il suo prossimo arrivo.

Tutti gli oggetti subiscono una deformazione. Lo spazio che li vede raccolti si allarga e si contrae.
Movimenti alterni intorno a un unico centro.

La conchiglia intatta ha  macchie nere, che si ripetono su tutto il guscio.
Dovunque si annidi, ovunque si celi alla luce, si vede sempre addosso quel chiarore implorante.

Dopo la positura degli oggetti nella piccola scenografia, la clessidra non viene più capovolta.
Le sue giornate non scorrono finché non entra in quel luogo.

La scena, a volte, viene volutamente lasciata priva di presenze.
Attività complesse e contraddittorie vengono messe in opera.

Persino cipressi sono posti a recintare l’ombra dei bicchieri, in cui, a intervalli regolari, foglie cadono.
Batte sulla sua pelle come su un tamburo una frase di diniego.

Non c’è inizio né fine nel mettere e togliere dal palcoscenico.
E’ un rapporto iniziato in un albergo. Deve necessariamente finire lì.

Molluschi, carnosi, varianti continuamente la propria forma, giacciono contro un fondale immodificabile.
Sarà così che andrà avanti la storia.

Si possono aggiungere persino cavatappi e soldatini di piombo in questa zona del racconto.
Potrebbe far entrare dalla porta un elemento nuovo che muterebbe la loro posizione.

Lo spazio che si crea come un vuoto cilindrico intorno a una bottiglia con bicchiere può essere ulteriormente trasformato con l’inserimento di una pianta fiorita. 
Lei esiste soltanto intorno a un irraggiungibile pensiero.

La palla che giace accanto alla conchiglia si va aprendo come un corollario. I grani di sabbia sono grossi come ghiandole e rendono umido il foglio. Sulla palla e sulla conchiglia pesa, come un’asserzione conclusiva, una forma frastagliata, a picco sul mare. Polena o pettine?

Si giungerà al finale della storia quando la donna verrà disegnata in riva al mare.

venerdì 27 dicembre 2013

Flavio Ermini per Sequenze di vento di Giorgio Bonacini, Le voci della luna Edizioni, Sasso Marconi, 2011

 (Pubblicato su EQUIPèCO n. 35 – 2013)

DALLA  PARTE  DELLE  COSE

Sequenze di vento si costituisce come un vero e proprio poema. In esso Giorgio Bonacini registra cosa accade quando viene ceduta la parola alla natura delle cose.
Prima che il pensiero pensi, avverte Bonacini, le cose arrivano a noi senza nome. Sono “vere”, intatte. Senza nome, le cose vivono di una loro insondabile verità, che, instancabili, non cessano di esibire volgendosi a noi. La loro voce è un soffio, sotto il quale improvvisa l’aria si ravviva. Non possiamo ignorare questo soffio, che parla dal profondo della physis e che impone di rispondere. Questo soffio ci obbliga alla ricerca di un’attività coscienziale che non sia sempre e comunque riflessiva, ma anche e soprattutto pre-riflessiva. Questo soffio ci obbliga a fare esperienza dell’essere umano: dell’umano in carne e ossa, spogliato di tutte le difese, fatto cosa tra le cose. Le quali, ci avverte Bonacini, non sono uno sterminato cimitero di esangui reperti, come vorrebbe la rassicurante visione del mondo cui ci ha abituati la nostra civiltà tecnologica.
Un pensiero che pensa alla verità dell’essere – così come fa il pensiero al quale Bonacini si affida – esige qualcosa di più di quanto ci offre la categorizzante vetrina delle scienze.
Bonacini instaura un rapporto con le cose e pensa alla verità ponendosi dalla loro parte, al loro interno, lasciandosi andare nella loro essenza (ovvero in ciò che le fa essere cose vere), liberandosi dagli idoli e dalle opinioni.

Il fare poetico annuncia che, dov’era il privo-di-parola, la parola avviene, se è l’esperienza poetica ad agire. 
...

Tra un albero e l’altro c’è un varco
una perdita pura, essenziale - un distacco
di foglie a un’altezza discreta. E’ così
 il denutrirsi del corpo - il colore che piega
nei minimi oggetti è un ricordo possibile
raro, dovunque sottratto. E’ probabile
allora che sia la dolcezza e in assenza di vento
la voce. Da un albero all’altro è il supporto
dell’aria, la prontezza dei rami o il disporsi.
Un aspetto fra i tanti d’intelligenza e candore.


...

Un dolore sconosciuto vieta la tristezza
e l’infelicità si apparta. Sarebbe
una tristezza immotivata, un’infelicità
insicura, l’illusione di un dolore sconosciuto -
una tristezza irragionevole nell’infelicità
mancante. Si tenta allora di correggere
il silenzio - di condurne l’evidenza
dentro l’alveo disseccato del dolore.
E si è convinti di conoscerlo ugualmente.



...

E’ il sospetto di non vivere nell’aria
che ci aiuta. Non la trama di un paesaggio
o l’occhio finto, non la recita banale 
che un’immagine d’inverno ci procura.
Articoliamo gesti assurdi, voci inutili
figure ricreate per errore ma inadatte
alla stagione in cui viviamo. Poi di colpo
cambia il genere - gli incontri si avvicendano
si mischiano, raggrumano in un gelo
di ovvietà. Senza un accenno di calore.

___________________________________________________


Wind Sequence

(traduzione di Dominic Siracusa)


...

Between one tree and another there’s a gap
a pure, essential loss – a separation
of leaves at a certain heights. So is
the body’s unnourishing – the color that bends
in the smallest objects is a possibile memory
rare, sought everywhere. It’s probable
then that it’s sweetness and in the absence of wind
voice. From one tree to another it’s the support
of air, the readiness of branches or the placement.
One of many aspects of intelligence and candor.


...

An unknown pain prohibits sadness
and unhappiness withdraws. It may be
an unmotivated sadness, an uncertain
unhappiness, the illusion of an unknown pain –
an unreasonable sadness in the missing
unhappines. So one attempts to correct
the silence – to lead its evidence
into the dry basin of pain. And
one’s convinced of knowing it just the same.


...

It’s the suspicion of not living in the air
that helps us. Not the plot of a landscape
or the glass eye, not the banal performace
that an image of winter affords us.
We articulate absurd gestures, useless voices
figures recreated by mistake yet unsuited
to the season we live. Then suddenly
the genre changes – the encounters alternate
jumble together, congeal into a frost
of obviousness. Without a hint of warmth.


lunedì 23 dicembre 2013

Inedito di Alessandro Assiri “Senza titolo”, letto durante il Premio Lorenzo Montano, Forum di Anterem: Agorà, novembre 2013

Il tono pessimista, disilluso è subito contraddetto dalla facilità e leggerezza della filastrocca, dalle parole che corrono senza cesure, libere, sciolte, non aliene da influssi dialettali,  lingua viva che dà vita nel testo a un rapporto conflittuale. In ogni caso, non sarà la parola scritta a portare l’onta del distacco con la vita, con ciò che esiste. Poiché essa è anche la parola della testimonianza, del passaggio ad altri, simbolo della condivisione di un medesimo traguardo. A indicare, dunque, una sensibilità per il collettivo, il quale anch’esso non vuole porsi solo come elemento contraddittorio rispetto ai fini individuali, ma vuole instaurare dialogo e scambio. Nei versi che seguono, mente e corpo, soggetto e collettività, storia  e utopia, non vogliono separarsi, assurgere a un’idea di assoluto, ma porsi nell’alveo di un discernimento che fa della consapevolezza della complessità un punto focale, il quale soltanto può evitare la tracimazione nell’assolutizzazione. Ecco perché il tono di Assiri non può essere definito come determinato dall’amarezza della sconfitta,  ma è sempre contemporaneamente anche invito al proseguimento, alla prospettiva aperta dal cambiamento. Con Alessandro Assiri niente può dirsi annodato, immobilizzato in una definizione solo politica o solo esistenziale o solo razionale o solo emotiva. Nella carenza di nuove ideazioni teoriche, la proposta di Assiri si muove come leva che inviti a non assumere acriticamente l’esistente e a ripartire piuttosto da esso, affinché la ragione non si impantani in rigida posa e la storia non perda il suo scheletro di utopica innovazione.    


è metà del tempo che cerchiamo combustioni cattive
i poeti son solo l'inizio di qualche ponte più grande
assolti da figlioletti dalle giunture arruginite
se fosse tutto come bere basterebbe avvicinarsi o rotolare
ma tu hai sempre sta faccia da lettera in viaggio
da quattro righe stiracchiate per compiacere
hai cambiato ancora il cane o è il guinzaglio che è più corto
deve essere il tuo solito problema della lingua
non riesci a biascicare puoi soltanto scandire
quando è morto Curtis non si trovava più corda
o cosi pareva a noi che stavamo ancora a trasmettere sui tetti
convinti di imboscare la vergogna dell'unica parola scritta
quella che ripetevamo sulla pelle all'infinito:sconfitta
vorrei tu ci venissi sopra i fogli e poi rimetterli in scaffale
in modo che altre sillabe portino il tuo odore che non conosco
"il vento dispiega come seta dipinta la nostra bandiera scarlatta"
ma a parte te di rosso non c'è più quasi niente te lo dicevo ieri sera
prima che finissero i gettoni perché anche le parole muoiono sempre all'improvviso
pensavo a Luca a quel suo strano modo di picchiare tira forte
ma sempre un pelo troppo basso come se il male gli pesasse
in fondo siamo tutti rivoluzionari per difetto e dopo carosello tutti a letto
dimmi che di noi si sarebbe immaginato vivo dopo tutto questo tempo
in questo posto dove non stavamo nemmeno troppo bene
quelle strade che erano già rughe, perche non riuscivamo a chiamarle pieghe
 
tu poi eri orfana prima di me e ci hai giocato dentro con qualche padre da inventare
alle occasioni importanti le lettere a nessuno che correvi a imbucare
ti riconoscevo dal passo dalle mani nelle tasche dalla bocca già in piazza
secondo te quante saranno le frontiere da passare tu giurami di non dire a Silvia ogni perquisa
lo sai quanto le piace fare la gelosa e intanto ci ridevi accarezzando le iniziali
che portavi al tascapane riscrivendo paradiso con un bianco più deciso
reclamiamo a piccoli spazi anche adesso che ricordiamo quel che manca
molto più di quel che resta anche adesso che ti affacci per vedere se la guerra è finita
e ti avrei preferita più struggente più tenace a trattenere l'oltre sulla soglia del sempre
cominciammo Laura e io Cristiana non c'entrava di boccoli e di buchi di corvi appollaiati
Aldo c'era stato tutto il resto già caduto scivolato e anche Aprile il crudele già passato
essere troppo per trovare l'uscita opere a squarciagola amori inventati con una mano sola
entrare spingendo coi pantaloni arrotolati saremmo diventati fabbrica con l'aria rovesciata
una catena che resiste a più non posso che resiste finché passo trascinando la misura
delle ore da contare sirene da sedurre invece di suonare un turno vita già finita prima di iniziare
il tempo sbiadito di questa bellezza alla rinfusa cadere cadere e infine ripiegare
la macchina è carne che ha studiato vive solo nella fatica della sua estensione
nell'abbastanza che non è eternità ma mancanza di tempo per soddisfare
tutto il male che serve per raccontare come niente ogni banale incidente
ogni scrittura è una parete di vetro con un solo obbiettivo togliere infelicità al giorno successivo.
 
sessione 2
 
eri l'ombra ad aspettare i miei occhi io sempre dietro andare verso la pelle che volevi
quella più magra poco prima di inciampare
uscita dal rifugio senza scoperto dove stare
ed è vero sai Francesco che servono i giganti perché i mostri adesso son diventati tanti
come il peso che è lo stesso degli abbagli che abbiam preso
vengo e vado in ogni cosa che mi è sembrata casa
le parole che si scrivono per non farsi trovare lettere aperte e camice da stirare
rimanevo con i progetti appesi a un filo con le speranze un tanto al chilo
contare i minuti come fossero affermazioni distintivi francobolli collezioni
il nostro immobilismo dipinto inguaribile ottimismo di un deserto gremito
forse si esce in altro modo senza sbattere ne porta ne chiodo
dove c'è piazza dovrebbe esserci cielo
il male sepolto non è quello assoluto esser soltanto sonno e nome
una lingua raggrinzita dell'unico animale che viene al mondo piangendo
mentre non siamo null'altro che mesi e raffreddori

Alessandro Assiri

giovedì 19 dicembre 2013

GRAZIANO MARINI / JOHANNES KEPLER

Con una lentezza che appartiene a un altro tempo - astrale - poligoni rotolano fino a formare una figura incongrua. Sovrapposizioni di quadrati incisi in materie non omogenee tendono a venire meno, a sparire; il fondo emerge come un terzo incomodo. Osservazioni estenuanti non riescono a individuare  la traiettoria, se non meravigliandosene. Ellittica, non circolare.  Quadrati si muovono con movimento affezione del proprio corpo. Tetraedri si inscrivono in dodecaedri. Incastra gli elementi del mondo come fossero figure euclidee. Il gioco gli riesce. Succede con la ragione, ai sensi. C’è una ragione per ogni cosa e, sempre, una musica di sottofondo. Dalla congiunzione astrale si ritagliano figure irregolari, parti non previsti  da cui ricominciare. Non sono necessariamente posizioni eccentriche quelle ricoperte. Quadrati si svolgono da quadrati costruendo mondi complessi, relazioni contraddicentesi. Inscrizione di una figura nell’altra, sempre la medesima, nell’equilibrio armonico delle orbite. L’equilibrio non è magia, è scritto nelle stelle. Rapporto tra distanze e tempi di rivoluzione: tutto incorniciato da una spiegazione a priori. Assegnando valori più esatti alle eccentricità, ricalcolare l’armonia, far quadrare il mondo col creato. Emblemi elegantissimi e soavissimi, figure geometriche ruotano in spazi siderali silenti. Le sfere non producono suoni, prove sperimentali lo confermano. A tratti spigoli urtano triangoli taglienti che cadono a terra come cristalli infranti. Per confermare ogni osservazione, ciascuno può, con mezzi propri, risolvere il problema: la macchina del mondo corrisponde alla macchina ideata, mente e mondo coincidono nella geometria. Se gli interstizi sono maggiori, in quei piccoli spazi si collocheranno le lune di Marte e di Venere, in profondissima quiete. Contro l’infinità del mondo, io traccio i segreti penetrali del cielo, ponendo un limite oltre la siepe. Vedo stelle costipate nella regione più esterna, quella diaccia, della notte insonne. Figure subiscono inverosimili deformazioni. Basta porre i confini, preordinare, anziché farsi sorprendere dagli eventi. Risponde geometricamente a una questione impertinente: il quadro si colloca anch’esso in una regione siderale, esterna ai limiti imposti.

da “Trasversale”, Anterem Edizioni, 2006

domenica 15 dicembre 2013

Marco Ercolani, “Discorso contro la morte”, Edizioni Joker, 2008

L’io e l’altro
Con “Discorso contro la morte”, Marco Ercolani presenta dodici testi in cui impersona celebri autori di diverse epoche e nazionalità.
Dice il Nostro nella “Nota di lettura”:
“A differenza di un testo realmente apocrifo, che è un’opera attribuita a un autore diverso da quello reale, si parla di effetto apocrifo quando un testo chiede di essere letto “come se fosse apocrifo”, pur essendo evidente l’identità dell’autore”.
Nel caso del libro in esame, la presenza dell’effetto apocrifo è palese, se non altro per il fatto che il nome dell’autore è impresso sulla copertina.
Sgombrato il campo da ogni ambiguità, per così dire, formale, resta aperta la questione su quello che, a mio avviso, è il vero oggetto del lavoro di Ercolani, ossia il concetto d’identità.
Che cosa è l’identità?
Un’adeguata risposta a siffatta domanda non è facilmente formulabile.
Come spiegheremmo tale termine a un bambino?
Forse con una poco soddisfacente tautologia: l’identità è l’essere quello che si è.
Il Nostro, consapevole di certi limiti del linguaggio, anziché indugiare in poco efficaci giri di parole, affronta il problema.
Lo affronta calandosi nell’altrui scrittura, mostrando così che l’identità non è un abito preconfezionato, è, piuttosto, una complessa dimensione dell’esistere.
Se dimentichiamo i dati del passaporto e prendiamo in considerazione le molteplici (multiformi) circostanze della vita, ci accorgiamo di come tutto ciò che ci circonda non sia soltanto, ma anche, esterno.
L’individuo esiste, tuttavia la sua presenza nel mondo non è una partecipazione da fuori, bensì da dentro, poiché la creatura umana non è un’entità che contiene se stessa, è, al contrario, un intenso persistere di vivida coscienza.
Occorre, allora, anziché cedere a ossessive pretese di fallaci spiegazioni, impegnarsi a esaminare, a raccogliere, a ricordare.
Psichiatra votato alla prosa e alla poesia, Ercolani s’immedesima nei suoi illustri personaggi, scrivendo non come loro, ma come se fosse loro: non imita, illumina tratti rilevanti senza presumere di risultare esaustivo, perché
“Esistono nodi irrisolti e dolenti, nella vita e nell’opera di un artista, che non invitano a spiegare o a capire ma ad indagare ancora, come se certe domande esigessero sempre, nel mondo dei vivi, una risposta”.
Viene da chiedersi, a questo punto, se il Nostro corra il rischio di creare una sorta di confusione tra se stesso e i celebri scrittori e poeti in cui, con tocchi straordinariamente sensibili, s’identifica, se, insomma, il pericolo di perdersi non venga soltanto evocato ma vissuto: la mia opinione in proposito è che egli, lungi dallo smarrirsi, si riconosca.
Marco si riconosce nell’altro perché è conscio di come l’esserci non sia mai di uno ma sempre di tutti e, di più, di come non consista soltanto nel possesso collettivo del mondo, bensì in una partecipe empatia che comprende anche chi non è più in vita.
L’io, così, non si manifesta per via di fittizi atteggiamenti solipsistici, bensì in virtù di una feconda disponibilità.
Leggiamoli, allora, questi testi, apprezziamoli, percorriamo anche noi la strada di una conoscenza descrittiva che non mira a possedere e a segnare confini, ma intende aprirsi alle infinite affinità e similitudini che riguardano tanto i vivi quanto i morti.
La fine, per ciascuno di noi, un giorno verrà: “Discorso contro la morte” ci insegna a non sprecare il tempo concessoci.

                                                                                                    Marco Furia

mercoledì 11 dicembre 2013

Gilberto Isella "Vademecum per dilettanti", inedito 2012

Un precipitato di organico e inorganico, di anima e corpo, di materico e di astratto si condensa in queste rastremate paginette, inedito di Gilberto Isella, Vademecum per disattenti, datato 2012, per collassare nel palmo della mano. Non certo un trattato filosofico, né un racconto lineare, ma la folgorazione della favola che si incarica del compito di tenere tutto insieme come fosse un’unica sostanza, poetica per antonomasia.

Nel mondo non c’è soltanto ciò che non esiste: tutto ciò che è stato pensato occupa uno spazio. In un proliferare di  mondi  nascosti o insaccati l’uno nell’altro i quali definiscono dimensioni inesauribili, la mente trova regioni esplorabili soltanto se sa procedere assieme a tutte le altre facoltà mentali. Persino le impervie aree del misticismo, del profetico vengono reclutate al fine di comporre la totalità: per Gilberto Isella sogno ancora possibile, anzi realizzato!

Gilberto Isella

Vademecum per disattenti


un pneuma alato
con ali agitate da venti contrari
e nel mezzo una coda di mondo
in stallo
*



 l’astro caduto sul palmo parla alla mano:
“muoviti, amica larva a cinque punte!”
poi la vede ascendere
evolvere in stella
con innocente foga piangerlo dal cielo
*







di bolla in bolla sbietta
sbanda
si dilegua
quel sapone che reggeva
correggeva
mondi
*



distratta, la parola
dal suo imperscrutabile androide
esclama  i non nati gli andati giù nei solchi oscuri
delle cose
gli infilati nei bracciali del nulla
*







becco d’anatra in ruolo di maniglia
s’alza s’abbassa
spinge
e fa stridere nell’inguine che adora
l’eldorado di una porta
*



o memoria! disattenta camera d’acqua
che ha gusci di paesaggio
dove un solo uovo
siepe curva assodata
risuona
*








irrorare il seno di un minuto interminabile
con l’acqua franta della luna
e nella sostenibile durata
bere il latte
ruspante sincrono
della pazzia
*



si sbenda il fenomeno
e silenzio puntella la sua trafittura
*








l’acqua che in talete bolle, evapora
anassimene l’aspira e rinomina

fuga dall’alba
velocissima fuligo
nessuno adempie un sistema
*



si dice pleroma il cancro del nulla
e assioma
il canto dell’asso di picche tra due mani
*








il mistico non può non gustare
la tenerezza della carie che avanza
*



non si sa quant’aura
la lettera,
falce del fenicio
da una notte profetica
tagli
*





venerdì 6 dicembre 2013

Jacques Derrida “Memorie di cieco” Abscondita, 2010

Partendo dalla proposta offertagli dal Louvre di imbastire una mostra con i materiali del museo, Derrida, in Memorie di cieco, Abscondita, 2010,  ha individuato un tema che è quello del vedere, che nel tipico stile derridiano ingloba necessariamente anche il non vedere, anzi la totale cecità. Sui punti di tangenza fra visibile/invisibile, disegnare/scrivere, egli finisce per tracciare un percorso che è anche linea di accerchiamento, linea mai chiusa, sempre svolgentesi. Decostruzionismo, infatti, starebbe per questo tenere incessantemente aperta la questione, creare una falla nei concetti, farli entrare in conflitto, miscelarli.

Ed è con questo armamentario che il filosofo francese compie scorribande intorno all’immagine, ma il lettore inevitabilmente avverte che i quadri, per il filosofo francese, appaiono sempre come originati da un testo: mito, storia, narrazione biblica e che questa promiscuità iniziale, che non può essere obnubilata, procura anche una inevitabile dipendenza o gerarchia fra le diverse forme espressive. Tant’è che ci si potrebbe chiedere dov’è finito il portato autonomo, la differenza tra testo e immagine. Nonostante Derrida insista sul fatto che l’atto del tracciare è comune a entrambe le attività, pure riconosce che il disegno necessita di un’abilità diversa. Ma qui si ferma. Assolutamente consapevole del fatto che il disegno inevitabilmente tiri in ballo la rappresentazione, la nomina soltanto, ma non la scava, non affronta la questione posta da Platone.

Crediamo che la proliferazione incessante del senso a cui si assiste in queste pagine nate dall’osservazione di immagini,  occasione senza la quale quei plurimi sensi non sarebbero stati intercettati, se è senz’altro originata da un problema interpretativo scaturito  da un’opera visiva, resta, però, come una superfetazione intorno e sull’immagine, come una scalata sugli impervi versanti o una discesa negli inferi di qualcosa che non si lascia in nessun caso ridurre, di cui non si possa venire a capo e forse ancor di più dei concetti quali verità e giustizia. Crediamo che proprio nell’abitudine della pratica filosofica di estrarre a viva forza o anche in maniera impalpabile concetti dalle opere d’arte si ottenga la più cocente disfatta della filosofia che di tutto vuol rendere conto: anche dell’invisibile. Ciò che notiamo è che, a tratti, le pale del mulino sembrino girare a vuoto: le associazioni, le analogie, le digressioni, i giochi di parole paiono accanirsi contro una muraglia e ciò ci dice soltanto che a volte si perde il normale senso delle cose, proprio cioè la lezione che il suo amatissimo Ponge ha invece voluto trasmettere attraverso i suoi testi poetici. 

Le descrizioni delle immagini sono solo un puro pretesto: Derrida vi si appoggia per spiccare il volo: sono proprio esse che gli consentono di agganciarsi ai testi di cui le immagini si pongono come rappresentazione. Certamente si resta nell’ambito delle metodologie iconologica e iconografica, le quali non sono certo metodi esaustivi per dar contro del fenomeno artistico, visto che restituiscono solo alcuni aspetti di un’opera d’arte. Ciò non toglie alcun valore all’operazione di Derrida, ma naturalmente la situa in un contesto di per sé limitato, anziché aperto ad oltranza, anzi livellante quando pretende la pura identità.


                                                      Rosa Pierno



lunedì 2 dicembre 2013

“Essere il nemico” di Flavio Ermini, Mimesis, 2013

Fin dal titolo, Essere il nemico, (Mimesis, 2013) si delinea in Ermini una netta presa di posizione nei  confronti del mero dovere,  quell’imperativo categorico kantiano, astratto e slegato dall’esperienza, che  esige che il dovere sia rigorosamente separato dall’essere. In Ermini  invece l’opposizione si incarna in una prassi, non lontana dalla cura di sé. Nessuna legge morale postulata in modo meramente formale. Nessuna repressione della natura interiore, anzi un’indagine condotta proprio in questa sfera, unico terreno ove sia dato riscoprire il proprio essere insieme agli altri.  Il tono costantemente colloquiale è dettato dall’esigenza di trovare non nel dovere, ma nella consapevolezza emozionale il diapason della condivisione con la ribellione altrui, perché le battaglie di civiltà si vincono con gli altri.  La lotta, naturalmente, è contro un sistema che si mostra come ineludibile nella sua organizzazione e che serve alla coercizione delle coscienze, mentre il discorso si snoda su ciò che è necessario smascherare per il ripristino della dignità dell’individuo.
Il riferimento, dicevamo, è alla sfera pratica, e a una ragione arricchita dal sentimento della comunanza, giacché se essa fosse avulsa dall’interesse e dalla libertà altrui sarebbe sragione. Nessun bisogno di buttare a mare la lezione dell’illuminismo, ma certamente di recuperare anche la sfera emozionale:   “Certo, la logica ci aiuta a dire cose più o meno “sensate” sul mondo. Ma per dire qualcosa di autentico sul mondo, la logica deve eccedere i confini, fare i conti con l’intensità delle nostre passioni, dei nostri desideri e dei nostri sogni”.   Non, dunque, la ragione in quanto unica legislatrice, ma coadiuvata dall’immaginazione, con il sostegno della letteratura. Gran parte delle considerazioni di Flavio Ermini sono dedicate allo strumento dell’espressione, in quanto palestra di riflessione e di azione, di creazione e di opposizione: per “concepire il linguaggio non solo come mezzo, ma anche come processo di autodeterminazione in atto”, per “concepire noi stessi non solo come spettatori, ma anche come soggetti criticamente capaci di intervenire sulla realtà”. La letteratura prima ancora di essere definita come “impegnata” nasce già come creatrice di mondi, sovvertitrice di visioni consolidate, palestra di discussione, verifica e di denuncia, terreno in cui mettere a coltura valori civili ed etici.
In questo senso, il richiamo alla lotta condotta per via estetica, che includa cioè anche questo versante delle possibilità umane, normalmente escluso dai circuiti politici,  appare del tutto connaturato alla presa di coscienza dei diritti che sono invece asserviti a logiche estranee. “Senza un nuovo linguaggio, non può formarsi  un essere umano nuovo. Ecco perché va percorsa fino in fondo la via estetica alla liberazione. Il che è come dire che alla disposizione etica va unita l’esperienza poetica del pensiero.” D’altronde, la trattazione di Ermini non è filosofica in senso stretto, ma letteraria, si avvale cioè del pensiero filosofico con quella libertà che gli consente di non rimanere ancorato alle strettoie logiche e di relare analogicamente zolle anche molto distanti, aeree non immediatamente limitrofe; si pensi alle assonanze del pensiero orientale o evangelico, alle posizioni di critica alla razionalità (Adorno) ma anche a quelle che elogiano la ragione, e basti anche solo riferirsi ai mille modi in cui il poeta si rivolge al pubblico al fine di richiamare i modi di parlare alla collettività,  a quell’oratoria che tenta di persuadere, com’era nella tradizione socratica, quando la sfera morale era legata alla cura di sé. Si vedrà allora come Ermini abbia redatto un testo corale, in cui dalla sua voce si levano le mille voci di libri che si riattualizzano nella sua persona per comprendere che oggi il ruolo dell’intellettuale non consiste nel dire il nuovo, ma nel mettere a frutto le conoscenze secolari e le esperienze millenarie che attraverso i libri sono in noi. Col che si configura di fatto un nuovo modo di intendere il ruolo dell’intellettuale.  
Già in Nietzsche e Heidegger, la protesta contro le norme universali dell’etica e della ragione si connetteva con la sostituzione di categorie estetiche alle categorie dei discorsi teoretici e pratici e anche etico-politici. La sostituzione del discorso filosofico e del discorso pratico che si interessa della verità con un discorso estetico-ermeneutico, nel quale come in Lyotard e in Foucault, si miri più al dissenso che al consenso, è, pertanto crediamo il pedale a cui Ermini  attribuisce la possibilità dell’accelerazione e in qualche modo della riuscita, ove in ogni caso l’utopia non getta alcun discredito sul tentativo. La cura di sé contro l’etica universalistica viene illuminata da una luce calda e aranciata: quella del ritrovarsi solidali, quella della forza rinsaldata  da un patto fra uguali. In questo prospettiva, l’individualità non si sottopone all’universalità della legge sotto l’identità del soggetto razionale, ma si apre accogliendo tutto ciò che restava al di fuori.
Seppure molto vi si dice contro la nostra era tecnologica e tecnocratica, non è certo la ragione ad essere messa sotto accusa, ma un suo esacerbato o fittizio utilizzo ottenuto per via di tagli e limature, il quale bandisce la complessità umana, mentre si dovrebbe agire per la sua valorizzazione e contro tutto ciò che ne causa il depauperamento. Non deve essere messo in discussione il fatto che tale complessità generi almeno apparentemente l’impossibilità di un accordo su temi e azioni comuni: il recupero della condivisione che è data dalla possibilità del dialogo e dello scambio è già di per sé   una conquista che riassesta su altri binari il mondo. Che in qualche modo ci sia un’indifferenza per il risultato e un bisogno di agire affinché si attui la modalità giusta di valorizzazione della persona è ciò che toglie ogni dubbio sull’aleatorietà della proposta di Ermini, il quale in ogni caso se ne assume il rischio: “Scrivere sui bordi, ai margini del pensiero, sconvolgendone la trama è già liberazione”.
Insomma, nessuna separazione tra dovere e inclinazione, sensibilità e ragione, evitando così l’astratta contrapposizione tra la ragione come elemento noumenico e  il mondo dei fenomeni e della storia. Sulla scia di Hegel e di Habermas, Ermini rintraccia un rapporto intrinseco tra giustizia e solidarietà e ci esorta ad abbandonare la chiusura degli interessi personalistici e ad abbracciare una visione solidale per raggiungere l’equilibrio tra felicità personale e dignità della persona e lo fa scendendo due volte nello stesso fiume dell’oggettivo e del soggettivo, dell’individuo e dell’umanità.
                                                                              Rosa Pierno

domenica 24 novembre 2013

“La terra cambia” mostra di Peter Flaccus presso la galleria La nube di Oort, Roma

A cura di Tanja Lelgemann
Inaugurazione 5 dicembre 2013 ore 19.00
Via Principe Eugenio, 60
Finissage 16 gennaio 2014



L’inarrestabile ricerca di Peter Flaccus condotta su un materiale tanto duttile all’apparenza quanto indomabile qual è la cera non solo non si esaurisce, ma si rivela foriera di esiti sorprendenti e molteplici. Alla cera lasciata colare su tavole lignee l’artista impone un processo di ulteriore lavorazione consistente nel sovrapporre strati di diverso colore e innescando differenti interventi atti a modificare, nel processo di solidificazione, la materia, ottenendone effetti variegati e diremmo affabulatori. Che la materia, sostanza, sia indissolubile dalla forma e questa dal significato era già stato segnalato da Aristotele, ma le opere di Flaccus appaiono quasi un laboratorio ove verificare tale assunto.  E non solo per la straordinaria qualità del colore che attiva la catarsi del fruitore, a tal punto che il colore, avvolgente, pare evaporare e prendere corpo nell’aria sollevandosi dagli stratificati piani, ma anche perché le intersezioni, le osmosi, i tagli anche geometrici individuano continue variazioni percettive nel colore, polarizzando in maniera intensissima l’attenzione e  causando propensione alla riflessione su un aspetto apparentemente contraddittorio della sostanza che tracima nel colore pur essendo altro.

E perché sia altro e in che modo possiamo rendercene conto osservando le tavole. Il colore, avvampante, non fa il paio con la sostanza lucente o opaca (secondo il trattamento ricevuto dall’azione dell’artista)  della cera, la quale costruita su piani diversi come fosse una differente pelle evidenzia il volume in quanto somma. Non fa il paio perché sottrae proprio al volume la sua poderosità, tenta di annullarlo. Il colore, insomma, pare attuare una strana operazione: da una parte si allea con la sostanza come agente in primis della  percezione e dall’altra come elemento eterogeneo, estraneo e respinto dalla materia  stessa. Su questo letto nessuna intesa possibile, nessun patto rinsaldato, ma una guerra continua  che mette in aspra evidenza l’incompossibilità dei concetti che adoperiamo come se avessero un certo fondamento e persino una loro a volte armoniosa coesistenza: colore, peso, volume, superficie, materia.

Tutto questo per dire che l’arte, quella che ci è stata consegnata dalla tradizione, ritrova nelle opere di Peter Flaccus i suoi elementi costitutivi e la cogenza delle sue analisi e delle sue verifiche, il che coinvolge anche la sfera del senso che le attribuiamo e che è del tutto autonomo rispetto al significato spesso analogico attribuitogli persino dall’autore (si vedano i titoli delle tre opere presenti nella mostra: Madagascar, The Alps, e The Islands). Il riferimento a località geografiche, alla tavola in quanto carta su cui apporre segni interpretabili - ai quali, cioè, si può attribuire la capacità di trasportare significati eteronomi -  costituisce dunque una ulteriore lettura dell’opera. Ma ritornando al punto che più ci interessa cogliere delle potenzialità insite nelle opere di Peter Flaccus, a quel concetto di ricerca che attraversa senza mai alcuna defezione tutto il percorso artistico del pittore americano, ci rifocalizziamo sul concetto di arte e sulla sua funzione, che è quella di risollevare eternamente il problema dei fondamenti e di dubitarne. Fondamenti che poniamo, di volta in volta, percettivamente o riflessivamente e di cui dubitiamo ancora percettivamente o riflessivamente.

La dirompente vitalità energetica del colore e delle zolle di cera, le quali si muovono come continenti alla deriva, l’effervescenza delle creste di colore che si frastagliano come mareggiate o si inerpicano sulla dimensione verticale o, se si vuole, lungo la terza dimensione della profondità, come trame e merletti con lente movenze da manta eguagliano l’eleganza di altre tavole dell’artista pur giocate sul monocolore e testimoniano di una raggiunta maestria nel dominio della materia e del colore.

Se avevamo fatto riferimento all’affabulazione presente nel quadro, è perché la parola vi lievita e si espande andando a ricostruire le relazioni tra le nostre zone mnemoniche e quelle della nostra esperienza percettiva. Ogni formella si offre per agganciare un oggetto o un concetto che ci pare di riconoscere nel campo aperto delle possibilità formali dell’opera. Ogni sovrapposizione si offre come sinonimo dell’ esperienza corporea e ci mena per altre vie: quelle più propriamente spaziali, di orientamento e di riconfigurazione degli spazi conosciuti e di quelli solo intravisti o immaginati. Giacché qui fortissima è la convocazione della capacità immaginativa, vero e proprio ospite speciale per la percezione dell’astanza artistica. 

Se fosse possibile leggere un libro e averne concretamente sotto gli occhi le immagini evocate, esse coinciderebbero con la visione di queste opere, giacché persino la forma delle tavole (accostate e di formato rettangolare evocano, appunto, la forma del libro).   Ancora, le vie ambigue di tutte le esperienze mentali e corporee ( per dirla nella maniera più generale e che non  a caso evoca ancora la genialità degli asserti aristotelici) adombrano l’area che per Flaccus è un caposaldo: la ricerca nell’arte è il motore e, assieme ad esso, il senso da raggiungere è nel portato della sua autonoma valenza. Ogni ricerca deve essere tesa fino al raggiungimento del suono perfetto, al limite delle sue potenzialità al fine di  raggiungere lo scopo di mostrare in immagine i paradossi sui quali riposano le nostre certezze.

La compresenza di geometrico e informale indica in Peter Flaccus una precipua linea d’indagine che fa collidere i due linguaggi (astratto e informale) per ricavarne un  lessico più ampio abbattendo anche gli steccati fra stili. La scommessa è che tra organico, quale si rileva non solo nelle forme, ma anche nella materia di derivazione naturale, e il geometrico non passi l’usuale linea di demarcazione tra astratto e natura, ma tutto precipiti in segno. Discorso che si può più agevolmente seguire nelle opere precedenti, nettamente inclini verso una caratterizzazione esclusivamente segnica. Ma non  è d’uopo qui svilupparne il tema, quanto solo metterne in rilievo l’esistenza sempre per portare acqua al mulino di una molteplicità di interessi e di studi e una loro verifica nella prassi artistica di questo instancabile artefice.

Il caso, elemento indomito di ogni opera d’arte, viene qui mantenuto in stato di cattività. Se ne percepisce la catena, diremmo, poiché ad esso non è stata inibita totalmente la possibilità di moto proprio, ma tenuta in sordina e pilotata per ottenerne effetti di interazione con le altre componenti nel quadro. Di questi giochi sontuosi, a rimpiattino tra sfocature e messe a punto, tra indecisioni della cera e mano ferrea del costruttore di piani si gioca la riuscita dell’opera e di conseguenza il raggiunto dominio dell’arte. Preziosissimo prodotto di inesausto ricercare, di cui è splendida dimostrazione l’opera tutta di Peter Flaccus.

                                                                               Rosa Pierno

martedì 19 novembre 2013

Luigi Trucillo “Quello che ti dice il fuoco” Mondadori, 2013

Costruito su un doppio registro (personaggio/autore) e congegnato come una sorta di giallo in  cui non è alieno, nel lettore, il sospetto di un’inevitabile tragedia, il romanzo Quello che ti dice il fuoco, Mondadori, 2013 di Luigi Trucillo è incentrato sull’analisi del sentimento della gelosia e in particolar modo sulla sua valenza di verità inseparabile dalla menzogna. Relazione non solvibile, non discernibile, impastata in ogni caso da un ulteriore dilemma: fra l’indipendenza della persona amata e il suo possesso non sembra esserci mediazione. E’ un monologo interiore che prende la forma del dialogo, non col proprio cuore o la propria anima, ma con un se stesso sdoppiato, minato al fondo dalle citate coppie oppositive. Il soggetto, che si duplica in un autore e in un personaggio come nell’incipit della Commedia dantesca,  prosegue sulle orme di Catullo, in cui il soggetto sembra spossessato dal suo moltiplicarsi, assumendo la veste di colui che mentre ama, odia.

Si innesta, in tale tessuto testuale, la realtà, introdotta dal giornale o telegiornale che sia, la quale inocula dosi di ulteriore veleno – oltre quello già prodotto dalla gelosia - nella forma di notizie paradossali, disumane, che però restano come schegge appena penetrate nello strato epiteliale di un soggetto che ha già a che fare col nascondimento di verità già annunciate (nascondere a se stesso la volontà di non essere in amore, nascondere a se stesso che sa già come va a finire, che sta distruggendo in sé ciò che ha di più prezioso).

Sembrerebbe un libro sull’andamento ineluttabile dell’amore. Ovunque amore si manifesti, esso brucerà e distruggerà, quasi autoestinguendosi, legge di natura, legge degli elementi inorganici che sarebbe la medesima di quella degli elementi organici, come voleva la tradizione presocratica. A riprova, il libro è ambientato in quella Samos di cui, chi l’ha visitata, conosce l’atemporalità, il suo restare uguale a sé al di là dello scorrere del tempo. La stessa Johanna, d’altra parte, non è forse una sorte di maga Circe che fa dimenticare ogni ferita d’amore, con la sua soccorrevole, quasi materna presenza? E che un innamorato e un innamorato dell’amore possa desiderare o addirittura non attuare l’amore, ci sembra, più un avviso ai naviganti che un manifesto di rinuncia, per cui ci sovviene in mente, e non sarà un caso,  Ulisse, il quale, fattosi legare al palo, può ascoltare il rapente canto sireneo.

Tali riferimenti ci fanno collocare Luigi Trucillo in quella rosa di autori che prende su di sé il peso/motore della tradizione sulla scorta della definizione datane da Eliot per il quale il senso storico implica non solo l’intuizione dell’”esser passato” del passato, ma anche quella della sua presenza, per cui la letteratura del passato collassa in quella del presente, delineando “una simultanea esistenza” e formando “un ordine simultaneo. Questo senso storico che è, insieme, senso dell’atemporale e del temporale”.

A sostegno di questa sorta di astrazione, concorre anche l’incidenza della biografia che, sebbene nell’opera sia fortissima, pure è come distillata dall’opera stessa, la quale  la trasforma senza sviarne i connotati. Non si trova nel testo un’intimità vera, né un racconto dell’ossessione sessuale portata allo spasimo. La gelosia vi è come costeggiata, non penetrata. Un velo, una paratia separa sempre la parola di Trucillo da un totale abbandono e  non servirà nemmeno la voce smascherante di un io proiettato in superficie dalla voce autoriale a rendere piena la confessione. La necessità del decantamento dell’esperienza amorosa, del distanziamento da un’ossessione che divora ogni aspetto del quotidiano lasciando l’innamorato senza risorse difensive, pare più una dichiarazione d’intenti per il futuro a cui nemmeno l’autore crede. Dobbiamo fingere di prestargli fede, ma non possiamo non notare che la questione è aperta da un uomo che l’amore ha vissuto. Che ha visto l’incendio, ancora una volta non solo dal punto di vista metaforico, e che l’ha incastonato nel punto centrale del romanzo. Se l’amore è fuoco, è bene allontanarsi, ma ciò non sarà realizzato dalla consapevolezza, bensì dal medesimo stato di innamoramento. Non si può scientemente uscire dall’amore, forse lo si può fare solo decidendo di non entrarci per niente e Trucillo tratteggia lo scontro fra passione e ragione evidenziando l’esistenza di una diversa razionalità inerente l’amore.

Lo stesso stile prosastico aperto in continui slarghi poetici, in cui il periodo  resta controllatissimo,  lasciando solo all’immagine metaforica del fuoco il suo unico puntello, dichiara la concertazione oculatissima di una descrizione che non si vuole parallela allo svolgimento amoroso. Tutto è trattenuto, pigiando sul pedale della sordina, al fine di derealizzarlo con altri materiali (la cronaca, le visite della figlia), anche a significare l’incomparabilità degli altri aspetti esistenziali con quelli travolgenti dell’amore. Ma ciò va di pari passo con quanto è in grado di fare la letteratura, la quale quando si impadronisce di un oggetto non lo lascia mai inalterato. Qui oltretutto, poesia è oggetto di poesia: si stralcia l’amore, oggetto del racconto, dalla poesia in quanto forma, proprio per dar conto di un’estraneità delle due pratiche/forma. Non a caso, tutto il testo è costellato di avvertimenti, premonizioni, avvisi, non mancano “messaggeri degli dei” che espongono ai personaggi in scena ciò che accadrà, esattamente come per il verificarsi di un fato, un destino incombente, rispetto al quale nulla può la consapevolezza o la riflessione, letteraria o filosofica sui dati esistenziali, nondimeno ad esse non si può rinunciare ed è proprio essa a costituire l’ossatura di una narrazione ritmata e pressante tutta giocata su uno svolgimento avvolgente e coinvolgente.
  
Se il nostro anti-eroe, giacché anche Trucillo come Joyce sposa questo rovescio della figura mitica, si ritroverà come naufrago su di un’isola greca, gli abitanti della quale lo rimetteranno in sesto, non è detto che noi, avendone conosciuto il rovello, l’ossessione e l’impagabile catarsi determinata dallo stato passionale e dal suo placarsi, potremo credere che non riprenda presto il mare insondabile del sentimento amoroso, giacché pensiamo sia questo il destino umano e che la fuoriuscita da questo stato non sia augurabile, se non per brevi riposanti tratti. Gelosia più, gelosia meno.


                                                                                    Rosa Pierno