sabato 28 aprile 2018

Paula Modershon-Becker



Un'arancia può essere consunta come un sole calante e un bicchiere sembrare reale grazie al cerchio nero che lascia sul piano. La stanza è immersa nella penombra: l’arancia sta estinguendosi, rilasciando con debole veemenza gli ultimi infuocati strali.

Non separare la luce dalla materia è la legge e i corollari da dedurre sono che la ragazzina ha un gatto, che passeggia nella foresta e che suona il flauto fra i tronchi di betulla.

Fra le dita della giovane signora, che porta alcuni fiori gialli in un bicchiere, l'ombra si è fusa emanando rugginosi barbigli. I fiori non sono mai innocenti. Determinano virulenze insospettabili in un interno borghese.

I bambini sono sempre inquietanti come le sedie scomode e gli orologi a pendolo, ma se un bambino tiene in braccio un gatto, allora è il gatto ad essere spiritato.

La bambina seduta, con una mela nella mano, mostra che la categoria dei bambini non è di questo mondo. È un genere il cui contenuto eccede la casella.

Ama ritrarsi e dire "sono io, la stessa" tramite la medesima collana, mentre si dipinge come una maschera, stampata su fondo verde con iris blu o nel modo dei pittori greci, o ancora in ombra o impietrita come un'imperatrice bizantina.

Le mani concorrono a offrire il corpo in una stentorea posa, pongono lo spazio nel quadro tramite intercettazione di un piano mediano. Fanno in modo che pittura congeli plasticamente ciò che altrimenti fluttuerebbe.

Fra le mani due oggetti sferici, vermiglione o cremisi, inducono a temporeggiare, a riflettere prima di dichiarare che quel che si vede siano una madre con bambino. Il dialogo tra un pomo e un tubero pretende l'intera attenzione del mondo.

Il colore non è un fenomeno dovuto alla rifrazione della luce, ma alla densità della materia. Sulla pelle, tocchi di colore come scaglie.

Il giardino, al di là della finestra, è un'incantata favola tenuta in vita da uno sguardo che trapassa tutti i piani, ma che si astiene dal poggiarsi ad alcunché.

Dalla collana di perle al vaso, dal portacandele al piatto con le mele: una sola onda attraversa e si rifrange in piccoli schizzi sonori. L'armonia è un oggetto visibile.

Zenzero e zucca sono deposti astri su un annerito drappo tempestoso. Le loro solari emissioni su mestoli di rame e vasi di vetro equivalgono a infrazioni coloristiche. Le righe del parato riflettono tali luminescenze replicando alla maniera di un’eco.

La natura morta con vetri veneziani, collane, turgidi e callosi fiori, bicchieri, ciotole e candelabri, è un tintinnio coloristico che si effonde sul piano: realtà traluce e ha riverberi rosa.

Se la luminosità viene rifratta da un vaso di terracotta e da una ciotola marrone contenente dalie che affondano in un estinto rosso, il verde di un tavolo da biliardo sorge come un impettito sole, vegliardo.

Mano al mento per meglio porgere lo sguardo, fermo, sottratto alla legge materica del corpo.


                                                                                       Rosa Pierno

lunedì 16 aprile 2018

Mostra “Omaggio a Diane Arbus” di Angelo Titonel presso la galleria Maja Arte Contemporanea, Roma




Dando per scontato il fatto che la pittura non è mai stata ancella della mimesi, è doppiamente sconcertante fronteggiare le opere di Angelo Titonel, poiché esse esibiscono il loro soggetto come totalmente prelevato dalla fotografia e, non è minor questione, presentano un rapporto problematico con la realtà. Non solo perché Diane Arbus ne ricercava le facce più autentiche (quasi una ricerca che scalzasse il consueto e portasse in evidenza i suoi aspetti più raccapriccianti, guadagnandone un aumento di verità, se mai fosse possibile raggiungere una verità della realtà), ma perché la realtà sta sulla tela attraverso l’elaborazione pittorica di un’elaborazione fotografica.

Ecco, dunque una rappresentazione al quadrato che si diparte da una selezione particolare del reale (non tutto, ma solo di alcuni dei suoi aspetti più stupefacenti, sorprendenti) operata dall’occhio di Diane Arbus, da cui Titonel, il quale condivide pienamente lo sguardo della fotografa statunitense, si diparte. 
Vi è pertanto la cogente necessità di chiedersi quale sia il rapporto che la pittura instauri con la fotografia. In ogni caso, si comprende subito che la realtà non è mai stata in gioco. È un dato certo, pur anche quando di essa si colgano gli aspetti deformi, non estetici, diremmo non conformi alle aspettative, quello schema consueto, cioè, che usiamo applicare per ordinarla. Vorremmo perciò provare ad addentrarci immediatamente nel pozzo che intravediamo e di cui non individuiamo il fondo.

Dando per assodati anche i rapporti tra fotografia e pittura (una fotografia che si avvicina alla pittura, quanto una pittura che la utilizza), resta esorbitante la scelta effettuata da Titonel del negativo. Tramite questa determinazione, l’artista rifocalizza tutta la nostra attenzione sulla pittura dopo averci distratto con la scelta dei temi. Lì dove per la fotografia il negativo è lo stadio intermedio della produzione relegato all’archivio, qui, in pittura, assurge a chiave dell’opera.

Andare a lavorare sul negativo è indice della necessità concettuale dell’artista di  lavorare con l’alterità: con la maniera opposta, non il retro, l’oscuro, il celato, ma ciò che evidenzia il doppio essere di ogni apparizione. Così facendo è proprio la pittura che prende la rivincita sulla fotografia in quanto immancabilmente la realtà ne risulta trasfigurata. Il rapporto con la realtà è imprendibile, indefinibile, in una sola parola totalmente inventato. E questo solo la pittura può mostrarlo.

Il negativo è anche un modo maggiormente pietoso e umano, più caldo e luminoso, che distoglie dalla capacità di riconoscere immediatamente l’individualità specifica del soggetto (come invece avviene nella fotografia). È una sorta di effetto astrattivo quello che rileviamo, osservando i quadri. Pur se i dettagli permangono e sono restituiti in maniera accurata, le opere sono quasi definibili come astratte. La scelta del blu acuisce questa distanza, trasformando e distanziando. Un’ulteriore libertà che l’artista si concede è l’eliminazione del paesaggio, al fine di non fornire informazioni che potrebbero connotare il personaggio, di non fornire appigli per una sua contestualizzazione storica o geografica. D’altra parte, anche la scala delle tonalità è reinterpretata pittoricamente, giacché, ad esempio, in “Donne di New York in abito da sera”, la resa dei colori è modificata, denunciando l’operazione come prettamente artistica.

In tal modo, le figure assurgono a simboli extratemporali, sono elevati a miti, sono personaggi provenienti da un passato culturale, non esistenziale, rispetto al quale ci sentiamo chiamati in causa come se ci trovassimo di fronte a un rebus. Pensiamo che il vero scontro, lo sforzo cognitivo che siamo  chiamati  a sostenere è di leggere la luce come ciò che tende a cancellare i dettagli e l’oscurità come ciò che ci consente invece di decifrare gli elementi della figurazione. L’inconsueto è così per Angelo Titonel, pittore, il gioco ribaltato tra luce e ombra, quel sovvertimento visivo che riscrive il mondo come sconosciuto. La realtà è messa totalmente in scacco. 

Il doppio è in questo senso non solo cifra tematica della Arbus, ma livello ulteriore, passaggio dal quale non si ritorna indietro, nelle opere di Titonel. Non è lo specchio di Alice, qui non si sfonda in un altro luogo, eccentrico, in cui vivono regole diverse (il non-compleanno, la promiscuità di genere), qui si viene estroflessi dal sé e pure dalle sue rappresentazioni più urticanti. Non c’è profondità, ma un’operazione di elevazione al quadrato.

L’effetto di spaesamento è totale non solo rispetto alla conoscenza che il pubblico ha o meno delle foto di Diane Arbus, ma anche in relazione al fatto di ritrovarsele  dinanzi ritoccate: come artefatto dell’artefatto, schemi che derivano da un ripescaggio, da un meccanismo distanziante, desunti da qualcosa di irricevibile e che pur tuttavia ci giunge. Le immagini in negativo sono maschere, simulacri da cui la realtà è totalmente sparita. Di fronte a queste opere pittoriche ci sentiamo come liberati dai meccanismi di ricezione consueti. Si viene espulsi dal noto. Si conquista pittura. 


                                                                      Rosa Pierno



La mostra è visibile dal 16 marzo al 12 maggio 2018 
presso la galleria MAC Maja Arte Contemporanea

Via di Monserrato, 30 - Roma

martedì 3 aprile 2018

Gli artisti fotografati nei loro studi da Roberto Pellegrini, “Ateliers” Salvioni Edizioni, 2018




Appostato nel suo studio come sulla tela di ragno che lui stesso ha provveduto a secernere, l’artista appare vieppiù immobile nel ritratto che Roberto Pellegrini a sua volta ordisce: il libro “Ateliers”, Salvioni Edizioni, 2018, ne raccoglie trentaquattro e ogni volta il nostro occhio deve cercare, letteralmente scovandolo, l’artista, impaludato nel suo habitat, costruito a sua immagine e somiglianza.

Il fotografo ticinese, il quale ha già scandagliato, in precedenti mostre, gli spazi interni attraverso le categorie dentro/fuori, pieno/vuoto, questa volta indaga sulla relazione tra lo spazio costruito e il suo costruttore. E getta una luce su tale relazione, proprio mentre più devia: accendendo le luci solo sull’artista e volutamente oscurando il suo studio. Geniale stratagemma per far emergere proprio quell’io che ogni giorno pone a se stesso il modo di evadere dal sé e dal reale per attingere la forma.

Uno studio non è solo il luogo funzionale in cui si raccolgono gli utensili, i materiali per il lavoro specifico, ma è il luogo che serve a concentrarsi, quella sorta di involucro, cavo uterino, da  cui germineranno visioni, in cui si scava il solco della propria ricerca. Il buio in cui Pellegrini affonda lo studio è solo un modo per ricreare il cavo caldo dell’interiorità creativa, mostrando la tenzone mai risolta tra interiorità ed esteriorità, fosse pure quella predisposta dallo stesso artista.

La linea di demarcazione è evidente, non richiudibile, ma val la pena di indagarla per rintracciare qualcosa di inesprimibile nella sua evidente rispondenza e per questo tanto più ineffabile. Quel che ci sta sotto gli occhi, a volte, è per questo maggiormente oscuro. Le relazioni vanno rintracciate e sono esili e flebili. Lo sguardo le coglie e le sopravanza. Le dimentica e vi ritorna. Grazie alla macchina visiva predisposta dall’artificio architettato da Pellegrini vediamo e sostiamo, ma ci sfugge la motivazione tra la presenza di oggetti e il lavoro artistico. Il rebus non va risolto, va solo assaporato.

Forzando la direzione del nostro sguardo sull’artista illuminato,  cogliamo una   innaturale condizione che, creando una frattura tra luce ed ombra, aumenta la distanza tra persona e luogo. La persona posta sotto il faro diviene emblema, non chiave per decifrare il luogo, anzi proprio la sua illuminazione ci spinge a guardare il luogo per tutta la sua estensione: siamo così portati a cercare di scoprire qualche frammento dell’identità dell’artista tramite la caratterizzazione del luogo e degli oggetti che vi si trovano, ma la macchina di Pellegrini, situata in un punto strategico ha già predisposto alcune equivalenze a cui non possiamo sfuggire e che sono quelle meno agevoli da decifrare.

In un certo senso, vediamo la persona ritratta e vediamo le opere, ma non vediamo il fotografo, a cui lo sguardo degli artisti è rivolto, anche questo costituisce una sorta di estraniante meccanismo che altera, specchiandole in reiterate traiettorie, le reali componenti in gioco. Inoltre, in questi studi, l’opera non è in bella mostra, in alcuni non è facilmente individuabile o non c’è affatto. Forse l’opera è la cosa meno importante in un atelier. Esso è la fucina delle meraviglie, l’antro dell’improbabile, il luogo costipato da cui un altro oggetto nasce inevitabilmente. L’artista, a volte seduto, rannicchiato o in piedi, creatore di ogni accadimento nella propria grotta, sottopone all’incertezza visiva del nostro rapinoso sguardo una pluralità di tracce e frammenti. Noi sappiamo che ogni atelier è un’isola dal cui incantamento non possiamo tenerci lontano e al di qua della camera fotografica di Roberto Pellegrini possiamo udire distintamente il suadente canto delle sirene.

                                                                                      Rosa Pierno



La mostra è allestita presso il Centro culturale e museo Elisarion di Minusio
dal 17 marzo al 5 maggio 2018

Gli artisti fotografati nei loro atelier sono:

Gianfredo Camesi, Colonia, Germania
Giovanni Bruno, Milano, Italia
Flavio Paolucci, Biasca, Svizzera
Antonio Lüönd, Origlio, Svizzera
Penelope Margaret Mackworth-Praed, Carona, Svizzera
Cesare Lucchini, Lugano, Svizzera
Paul Wiedmer, Civitella D’Agliano, Italia
Fabiola Quezada, Lugano, Svizzera
Marco Massimo Verzasconi, Cugnasco Svizzera
Paolo Bellini, Tremona, Svizzera
Paolo Mazzuchelli, Tegna, Svizzera
Klaus Prior, Lugano, Svizzera
Pavel Schmidt, Derendingen, Svizzera
Pierre Casè, Maggia, Svizzera
Simona Bellini, Bruzella, Svizzera
Guido Strazza, Roma, Italia
Vincenzo Montini, Sutri, Italia
Pascal Murer, Locarno, Svizzera
Francois Bonjour, Dino, Svizzera
Alex Dorici, Lugano, Svizzera
Giuseppe De Giacomi, Locarno, Svizzera
Giulia Napoleone, Carbognano, Italia
Steff Lüthi, Gordola, Svizzera
Loredana Müller, Camorino, Svizzera
Urs Dickerhof, Bienne, Svizzera
Ruedy Schwyn, Nidau, Svizzera
Paolo Di Capua, Roma, Italia
Giuseppe Abbati, Cuggiono, Italia
Nando Snozzi, Arbedo, Svizzera
Samuele Vesuvio Wiedmer, Civitella D’Agliano, Italia
Eftim Eftimovski, Maroggia, Svizzera
Fausto Tommasina, Locarno, Svizzera
Fiorenza Bassetti, Bellinzona, Svizzera

Pedro Pedrazzini, Rivapiana, Svizzera