venerdì 24 maggio 2019

Marisa Papà Ruggiero su “Bagatelle” di Rosa Pierno




Ripetizione/Variazione, Arresto/ Svolgimento, Unità/Diversità... Rosa Pierno ama convocare i significati a un banchetto ludico tra il vuoto e le forme, tra silenzio e voce. É un'opera, questa, interamente tonale, tutta affidata alla forza chiaroscurale di luminosità e oscurità, un'opera che crea dei campi magnetici in gravitazione eccentrica e gioca a interloquire con gli ossimori concettuali disseminati nel testo con l'intento di disegnare delle polarità problematiche, delle opposizioni speculari e vederle muoversi nello spazio. 
In asse col centro-scena, la carta raffigurante il Bagatto  muove scenari di senso in un'alternanza di progressione e di stasi, i cui poli s'attraggono come curve catenarie sulla pagina e s'incontrano al punto infinito. É lui il mago, il  Catalizzatore astrale, colui che, occultamente,  detiene la formula degli eventi, la cifra delle energie e le trasferisce ai guardanti.
Si assiste, scorrendo tra le righe, a un reiterato punto di tensione tra una soglia e l'altra di questa scena, dove il fulcro narrativo viene ad assumere una configurazione virtuale e le voci recitanti sembrano provenire da un fuoricampo non previsto da alcun copione. Sono sequenze concettualmente destabilizzanti,  temi figurati trascorrenti l'uno nell'altro, pronti a prendere  possesso dello spazio mentale e occupandolo senza scarti. Sono coppie di concetti  in disposizione dicotomica che, "duellando", si caricano di senso e si contaminano a vicenda. Unità/ Diversità, Tensione/Distensione, Ricordo/ Oblio...  E tra una parola e l'altra, un vuoto magnetico. Quel vuoto magnetico, silenzioso, che si spalanca tra due opposti è poesia. Quel vuoto si fa protagonista dinamico sul piano mentale di un altro ordine di realtà. Si fa processo. Un'altra realtà - s'è detto - non frutto dì mera invenzione, bensì quella realtà che scaturisce da un processo conoscitivo, dunque unica. 
Può anche accadere che quella zona indicibile, quella zona magnetica si faccia sguardo di se stessa divenendo così corpo autonomo, sede di una inesplicabile irrequietezza... Ed è allora che la significazione testuale entra in campo non per aderenza ordinaria, ma per folgorazione. 
Per Rosa Pierno affermazioni e negazioni contengono una medesima consistenza di senso, pronte ad "allungare i propri gangli" come asintoti protesi l'uno verso l'altro senza mai congiungersi, se non nella limpidezza del pensiero astratto. In questi brani, il gioco delle oscillazioni semantiche a cui le unità verbali sono sottoposte, segna lo scandire di attriti di forze ineludibili, dove spesso l'una dà il ritmo contrario alla gravitazione dell'altra. Può anche accadere che, a una data altezza dell'oscillazione, le sagome speculari, incontrandosi, accolgano luce e ombra nel medesimo tempo, oppure stazionino come parvenze aporetiche indistinguibili l'una all'altra. Nulla però di ciò che è avvenuto può essere obliterato o negato:  ciò che ha avuto inizio non rientra nel nulla; è questo il delicato idillio della mente in grado di differire all'infinito la fine.  
Diverso è il caso di  Stabilità/ Instabilità, Rosa lo sa, è così che accade: una vibrazione desiderante trascorre sotto pelle fremendo e pulsando: è la metamorfosi. É la vertiginosa, quasi impercettibile sensualità, laddove prima era l'uniforme staticità delle convinzioni. É lì che Dafne avverte un diverso respiro all'interno del marmoreo corpo e sente fremere il sottile passaggio della linfa tra le dita.
 E sempre, ciò che avanza incontenibile, "similmente a un battito che si espanda e si contragga", è il continuo contraddirsi dei significati. Ma è lo sguardo, anzi, è la percezione visiva che, insistendo, scombina le coordinate di riferimento, le muta di posto, le altera, le sconcerta. Il "duello" non può in alcun caso finire in spareggio, ma in un aggravio di tensione fra forze avverse non conciliabili. Può anche accadere, infine, che non siano i due elementi antagonisti a determinare l'inversione, bensì uno solo dei due, estraniante e anomalo, quello in grado di stravolgere irreversibilmente il sistema, di sconnetterne i nessi, e "non è escluso - in tal caso - che si faccia della conclusione un nuovo inizio".
                                                                                                  Marisa Papa Ruggiero




lunedì 13 maggio 2019

Vincenzo Scolamiero “Della declinante ombra” al Museo Carlo Bilotti, Roma, dall’8 marzo al 9 giugno 2019


“Ogni cosa ad ogni cosa ho detto addio”


Se il colore curva, si espande a ventaglio, colando come una stoffa che non perda mai le sue pieghe, ed espone una virulenza appassionata al cui confronto le corolle di fiori risultano sbiadite, allora colore è meno di una materia e più di una superficie. Ci sentiamo anche noi invischiati nel miele pittorico dei quadri di Vincenzo Scolamiero, nella sua personale al Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, presi, al pari di un insetto, nella trappola di un’ambra. 

Come recita il titolo dell’opera Poi null’altro era rosso (2018, acrilico su tela) davvero nessuna cosa può avere un colore differente. Lo spazio materico impasta tutto ciò che trova, rametti e foglie secche, ed esiste solo in quanto è colore. Se in tale impasto si identifica una foglia, non se ne riconosce la materia. Stampigliato come una moneta nello spazio del pigmento,  il virgulto appare d’argilla. Nulla di più arcaico e fossile di una pianta. Elemento indistinguibile dallo spazio che lo ha ricevuto e unico ‘altro’ che si incontra, diverso da sé. Non una natura da cui si proviene, ma una natura a cui è solo possibile ritornare.

Il pigmento, in emulsione, ricopre i racemi, stendendo un velo pietoso sul fragile rinvenimento, retrocedendo e dispiegandosi al pari di un’onda sonora. Solo così si manifestano le profondità, pur inesistenti, della superficie. Si vorrebbe sollevare o scostare le pieghe. Della declinante ombra (2018, inchiostro di china e pigmenti su tela) indica esattamente ciò che non si produce sulla superficie. Se le cose annerite, gli arbusti carbonizzati siano l’ombra di un verde complementare o la cosa stessa senza volume lo si deve dedurre dalla composizione, senza che siano dati gli strumenti per trarsi d’impaccio. Arte non semplifica e rende artificiale il naturale.

Il colore gioca a rimpiattino. Cremoso, ricopre altre striature, precedentemente realizzate. Le increspature del raso, mimate dalla materia pigmentale, sopraffanno la ruvidezza della tela. (Tratto da una storia vera, 2018, acrilico su tela). Se, a tratti, essa traspare, è solo perché funge da misura per le asperità e le inusitate fluidità della pasta pittorica.

Nella serie di carte aventi titolo Ogni cosa ad ogni cosa ho detto addio (2018, inchiostro di china e pigmenti su carta) l’inchiostro si ramifica nelle righe di un’epidermide, trasmettendo alla cartilagine vegetale l’orma di qualcosa di vivente. Piume e ranuncoli non diverranno polvere, dall’arte salvati; fiori, stropicciati e premuti, vi lasciano, vividi, la freschezza della propria gota col loro strepitoso intingolo rosa e, ancora, il brano di una tenda a pieghe, col suo decoro floreale, rimembra la differenza tra naturale e artificiale.
Quando l’inchiostro non è ancora asciutto, l’artista insiste lungo i bordi degli elementi raffigurati, sottolineandone gli orli frastagliati che appartengono a ogni forma. Se tutto può rimenare alla ripetizione della forma intera, ogni cosa può anche ricondurre a una forma similare, appena discosta. La pittura di Scolamiero è, infatti, una pittura che si vorrebbe disperatamente toccare, al fine di coglierne le minutissime variazioni. Non è solo visiva, ma tattile. Richiede di essere letta come un alfabeto Braille che insegni a sentire, più che la forma, le venature che la innervano. Più che lo spessore, la fragilità della sua sostanza.

Petali di orchidee zigrinate sono ottenute roteando e premendo flessuosamente il pennello e, allo stesso modo, si cercano gli effetti delle volute del fumo, dei rami in controluce, delle vellutate interiora del nero. Imprimere non è mai azione perpetrata a sufficienza. E se la realtà fosse di solo colore, se non avesse la terza dimensione, non avrebbe forse l’evidente intensità di una tale cromia, che, simile a una colata lavica, si stia raffreddando sotto il nostro sguardo?

Poi null’altro era rosso ( 2018, olio su tela): rosso su fondo oro, memorie di gotiche oreficerie, la pittura di Scolamiero non depone la tradizione. Essa si dirama in riverberi e fulgori. La preziosità stringe se stessa in un assedio, in un’effusione incandescente, e di sé arde.

Il colore, se tirato via con uno strappo, mostra ancora il cuore caldo del tono. Dall’esterno all’interno senza soluzione di continuità. Sulla superficie ossidata, fiori e madrepore, coralli e foglie non hanno un’altra consistenza. È ovunque la medesima! Il colore è tutto: forse, mai sono esistite le sagome dei fiori impressi sulla tela! Forse, come su una superficie degli eventi, vi permangono le informazioni memorizzate dall’artista, quelle recepite di fronte alla natura. Cosicché la percezione non risulta mai scalzata da tali opere, ma si pone in un serrato dialogo. Osservazione e produzione artistica si mescolano continuamente, legati indissolubilmente da un colore che sa rastremarsi fino all’essudazione. Ancora tracce ambigue lasciando (Come il cielo alla terra legati, 2016, olio su tavola).

Che qualcosa sia lontana/vicina, aggiunta/strappata, estroflessa/impressa, ciò che si rileva è che non importa la forma, se non la sostanza del colore. In un giro di vento (2017, olio e pigmento su tela), nell’instabilità degli accadimenti, il pigmento è la roccia che rende la percezione una salda certezza.  Una pittura di solo eroico colore che s’incarica di assorbire e restituire tutte le forme possibili!

Sebbene in alcune opere la geometria intervenga, operando partizioni che introducono il tempo, quest’ultimo, stremato dalla sostanza, non produce che riflessione e rimandi. Rotea, lo sventagliato colore, e si fora, mostrando il pizzo delle foglie secche, quando oleoso non aderisce subitaneamente agli strati precedenti. La superficie è fustigata dalle erbe mosse dal vento: ogni cosa lascia la propria orma nella pasta cromatica. Solo le note – la scrittura musicale di Silvia Colasanti, nel libro d’artista dipinto da Scolamiero per EOS Edizioni – scivolano, glissando, sulle variazioni tonali del pigmento per attrarre a sé, la sola musica del colore.


                                                                                                    Rosa Pierno

giovedì 2 maggio 2019

Marco Furia su “La regola dell’orizzonte” di Alessandra Paganardi, puntoacapo




Una poetica riconquista

“La regola dell’orizzonte” è intensa e raffinata raccolta i cui versi rimandano a una comprensibilità altra, diversa, che pure affonda le sue radici nell’ordinario modo di comunicare: siamo al cospetto di un sentito senso dell’enigma al quale la parola giunge in maniera non ricercata, precisa.
Leggo a pagina 14
“La notte trasforma tutto in poco
non sai quando saranno
le prove generali del niente”
e, a pagina 39
“la sorpresa di un verso inaspettato
come un abbraccio
                             come un dolore”.
La seconda pronuncia citata propone, con efficace immediatezza, un’inedita fisiologia dell’idioma poetico e, a pagina 45, la sequenza
“da piccola inseguivo le parole
erano loro a correre sul foglio”
mostra come la scrittura possa essere considerata vero e proprio organismo vivente, capace perfino di correre.
L’autrice apre al nostro sguardo affascinanti spazi per via di un linguaggio    diretto, quasi descrittivo, teso a unire il dato intimo ed emotivo a un mondo che si rivela capace di accoglierlo: per Alessandra l’esserci è in grado di riconquistare un’integrità non irrimediabilmente perduta.
Il richiamo è chiaro, netto: la compostezza dei versi rivela un’attenta, cosciente, visione dell’umano esistere.
Forse, in tempi trascorsi, qualche contraccolpo non è mancato e, forse, penosi sensi d’angoscia non sono stati assenti, tuttavia, ora, la parola riferisce di un percorso vòlto a raggiungere, in maniera determinata, un possibile equilibrio.
Noto poi come, senza propendere a  teoretici indugi, la nostra autrice, con i toni propri del sincero colloquio, consideri il tempo come qualcosa da riguadagnare:
“questo giorno che non ha conosciuto
santi ma solamente primavera
tu non segnarlo più sul calendario
non obbligarlo di nuovo a morire”.
Il calendario (e l’orologio) non servono più a molto, poiché una circostanza, nel caso specifico la primavera con i suoi rinnovati colori e profumi, riesce a emergere come tale e a ripresentarsi per quello che davvero è: il tempo, insomma, si vive e anche si riconquista se ci si affaccia su scenari sorprendenti eppure prossimi a una normalità tenuta sempre ben presente quale terreno in cui far attecchire  nuovi linguaggi.
“La regola dell’orizzonte” è non tanto un canone o una misura quanto un poetico tentativo di recupero del mondo?
Sì, un recupero, per nulla intriso di nostalgia né di bolso rimpianto dei bei tempi andati, che è un rivolgersi, non senza fiducia, al presente.
Un grumo di sofferenza si è sciolto dando origine non a utopici sogni ma a un desiderio – progetto al quale avvertiamo di non essere estranei: ancora una volta la poesia è riuscita a essere parte di chi legge?
Quell’ “orizzonte” è anche intimamente nostro?
Certo e la poetessa ci ha aiutato a riconoscerlo tale.

                                                                                     Marco Furia


Alessandra Paganardi, “La regola dell’orizzonte”, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL), 2019, pp. 92