domenica 27 dicembre 2015

Marcel Proust "Chardin e Rembrandt", Pagine d'Arte, 2010


L'imbarazzo che Proust denuncia con il suo testo incompiuto su Chardin e Rembrandt è  dettato da un'indecisione dovuta al fatto che si accinge a dare una definizione dell'arte e della letteratura, anzi plurime, e tutte sembrano essere insufficienti. Nel rapido volgere di poche pagine, egli le fa emergere e ce le sfila sotto gli occhi, sostituendole con un nuovo specchietto per le allodole. Inutile dire che nessuna può persistere: la pretesa è  errata in partenza. Pretendere che l'arte sia più vera della realtà, che solo essa possa farci scorgere la bellezza insita anche nelle cose più umili e scontate, o che nemmeno l'artista abbia la consapevolezza di quello che l'opera esprime o determina in chi osserva, o ancora che la luce è il mezzo che evidenzia l'esistenza dell'enigma: ecco tanti lustrini appesi all'albero della cuccagna. Ma Proust interrompe il lavoro, si rende conto che la parzialità delle affermazioni deve adeguarsi alla complessità delle opere d'arte. E quanto la vera tenzone, la sfida " mortale" dello scrittore consista nel ricreare sula pagina un'opera che abbia valore compiuto e che solo per questo sia equivalente  all'opera da cui sta traendo ispirazione.

Nel caso in questione, alcuni quadri di Chardin e il quadro "i due filosofi" di Rembrandt. Il testo di Proust sembra più un affilare la punta, un avvicinarsi, nemmeno cauto, alle opere: un esercizio, che ha persino una certa grossolanità. Il fatto di esprimere i concetti linguisticamente non può valere come risposta esaustiva rispetto ai più aleatori significati veicolati dall'opera visiva. Non vi  può essere una mera trasposizione tra i due  mezzi espressivi: "Inconsciamente, lo provavate già il piacere che dà lo spettacolo della vita modesta e della natura morta, altrimenti non sarebbe sbocciato nel vostro cuore quando Chardin lo ha suscitato con il suo linguaggio imperativo e brillante". L'opera d'arte non può essere equiparata a un linguaggio e non  si tratta del medesimo valore espressivo quando si dipinge e quando si scrive!

Nemmeno per un istante, si può credere, d'altronde, che ci sia effettivamente una genesi diretta tra opera visiva e opera letteraria né  che  quello che lo scrittore afferma di fronte a un'opera d'arte ne esprima l'essenza. Ma il nostro riferimento andava più a un certo mestiere, sempre alto in Proust, che gli faceva accordare credito anche alle sue prove meno efficaci: "Vedendo che egli vi confida i segreti che sa cogliere in loro, metalli, ceramiche e frutti non si rifiuteranno più di confidare i loro segreti anche a voi. La natura morta diventerà anzitutto natura viva", a una facilità che si vuole priva di dubbi, priva di lacune, quasi tronfia.


E soprattutto ci viene un sospetto insuperabile quando a Chardin non si mette in conto il valore espressivo della luce, ma lo si fa soltanto con Rembrandt,  e si fa riferimento esclusivamente a essa per render conto di come solo nei quadri di quest'ultimo si vada "oltre la realtà stessa": "Oltre il fiume o il mare abbagliante o torbido, al di là delle finestre scintillanti, smaltate di fiori, fiammeggianti di sole, sopra i tetti trasfigurati delle case, guardiamo il cielo il cui riflesso sulla terra abbiamo riconosciuto ovunque, quel riflesso che non conosceremo mai e che conosciamo così bene, che  è la bellezza di tutto ciò che abbiamo sempre visto e ne è anche il mistero, l'enigma".  Qui evidenziati dalle dirette parole dello scrittore francese, il quadrilatero entro cui la sua lettura dell'arte oscilla: il riconoscere sotto diverso aspetto ciò che ci sta sempre davanti agli occhi, ma a cui non attribuiamo valore, e ciò che ci viene mostrato esclusivamente dalla pittura; ciò che per essere inesprimibile non dovrebbe potersi dire con l'opera umana e il vedere invece esclusivamente attraverso di essa il mistero.

L'acuta analisi di Alain Madeleine-Perdrillat mette in luce, nella postfazione, altre coppie:   soggettivo e oggettivo, materializzazione e smaterializzazione, mostrando come ci sia un rovesciamento da un elemento all'altro e come Proust si diparta da Diderot e Baudelaire per cercare una propria collocazione. In ogni caso, restando intatto il nucleo propulsore di ogni confronto con l'opera d'arte, riassunto cosi efficacemente nel finale della postfazione:" Per quanto mirabili, i grandi capolavori e i bei discorsi non bastano, e se anche spesso possono sviare, non possono mai sostituire l'incessante lavoro di ri-creazione che la bellezza richiede".


                                                                                 Rosa Pierno

mercoledì 23 dicembre 2015

da “Caleranno i vandali” di Flavio Almerighi, inedito


Con uno straordinario atto di mimesi, Almerighi fissa con pochi tratti, in uno schizzo a sanguigna, diremmo, i pensieri di un essere umano inchiodato dal proprio mestiere a una maschera culturale, a un ruolo subalterno a logiche di potere, ma anche  a un destino percettivo. Senza mai cadere in un ritratto di maniera, senza mai cedere al prestito di uno stereotipo, il poeta restituisce al lettore un’esperienza umana nitidamente scolpita, mostrando quanto i suoi versi siano il frutto di un cesello, di un’immedesimazione, di una vicinanza morale all’essere umano ingabbiato, senza speranze, nelle stritolanti maglie della società contemporanea.

La struttura sintattica, la quale fa galleggiare sostantivi e versi su una superficie rarefatta, patente, non inclina sul versante della scelta della rastremazione dei mezzi, piuttosto della rarità, conservando, come primula che buchi neve, la sorpresa della rivelazione. La sintassi franta provoca salti nella continuità come in un affanno del pensiero. Il senso che si dovrebbe trarre, conseguenza ferrea di un sillogismo,  disegna pertanto  lacune nella continuità del tessuto, denunciando ignoranza e soprusi: “all’inutile pareggio / della dea bendata / preferì una sigaretta”. Il linguaggio si fa strumento eloquente di differenza, a maggior ragione nell’artificio della voce del poeta, quando racconti l’esistenza altrui. Immaginiamo, dunque, in questa desolante distanza, che è, appunto, quella di coloro che non hanno voce, questa doppia cesura, poiché c’è chi gliela presta con dolorosa afasia. Non è senza costo scendere in simili scavi e pozze dell’umana materia.

arte & mestiere


edilizia, mestiere di ginocchia e pazienza
manovale specializzato
se ti manca l’equilibrio stai zitto
altro che dottori,
avvertiremo noi la famiglia
e la televisione avrà cura dei tuoi,

non importano le date
incise sul cemento fresco
prima di posare una soglia,
non importano le soglie, le bestemmie
in tutti gli accenti nord e sud
non importa saper scrivere sui muri,
arrampicarsi come meticci,

ciascuno vedrà la propria ombra
quando il sole smetterà di rompergli la faccia.

Sia stato lavoro nero o no, finita la giornata
tutti insieme, chi non c’è non c’è,
ci faremo un bianchetto al bar impero.
Berretto di carta e nazionale semplice,
boccate di fumo e di calce,
l’edilizia è stata un’arte
non è più un mestiere


col bellissimo accento di qui


Invocavo speciale protezione
all’anima di Franz Kafka,
in pieno raccoglimento
davanti a una porta automatica
entrare uscire e stavo in mezzo,
fumavo giusto per i nervi
e non patire altro dolore.

Intanto un vecchio senza gambe
armeggiava col portacenere
a fianco riempito di cicche,
cosa fai?
Sono sporche, gli dico
prendine una delle mie.

Pensavo fosse il solito
fenomeno da stazione,
si è girato
sbarbato e in ordine.
Guardi poi le disfo, risponde
col bellissimo accento di qui.

Comunque grazie. Conclude
non accende e se ne va.


di tutti i ricordi che ti ho dato


Alla mia età si diventa orfani
dei figli, ma
di tutti i ricordi che ti ho dato
terrei per noi quell’eroe di guerra,
Onestini mi sembra si chiamasse,
morto di spagnola nel Ventuno,
la sua edicola dimenticata accesa
incubava tuorli di passero,
tu li vedevi vivi, curiosa salivi
a osservare i becchi aperti e muti
nel via vai infinito della fame
del bisogno di mettere piume
avere voce e diventare cattivi.

                 Al tuo ritorno erano ripartiti.

giovedì 17 dicembre 2015

JEAN-BAPTISTE CAMILLE COROT


“L’isola Tiberina”. Nessun particolare, filo d’erba, arbusto, sasso: colore steso a tocchi, con corpose pennellate, materia con cui, coprendo, elidere ciò che non ha importanza. Le pigmentate zolle, trapassando l’una nell’altra, restituiscono i toni incisi nel ricordo: quell’ocra – ed è ocra persino il fiume in cui le case dell’isola Tiberina e gli argini fintamente si specchiano – contro il quale insiste uno svagato azzurro annuvolato.

“Civita Castellana, rocce rosse”. Nel tripudio di rocce e rami, di tufo e acque, difficilmente distinguibili se non per la vivacità del tono e la prominente posizione, un cielo stranamente inerte si lascia percorrere da nuvole per non confessare assoluta presenza.

“La passeggiata del Poussin, campagna di Roma”. Placido ristagna, quasi immobil fiume, nell’ansa brulla e arsa, ove uno scurito verde balugina in profondi solchi. Tuttavia, nella parte superiore del cielo, s’accendono tinte arancio e rosa, di un’età calorosa, non del tutto trascorsa. 


“Vista dai giardini Farnese”. In un’albula luce, annacquata, persino il color dell’oro appare illanguidito e sulle facciate di chiese e di palazzi si stende tremolante, indeciso, enfio di diluente, il pigmento. Verdeggiante massa, come mossa da fiamma che arda sotto pentola di coccio, pur bolle nella calura.

“La vasca dell’Accademia di Francia a Roma”. L’ombra è talmente consistente da apparire vischiosa: cortina che non può squarciarsi e attraverso cui nessun raggio può penetrare. Eppure, quasi per contrappasso, la parte della città illuminata in pieno da un alto sole ha agganciato il cielo come fosse uno dei suoi impenetrabili muri: in tale dorato richiamo l’occhio sprofonda. Figure sono rose dall’atmosfera e appaiono umbratili, manchevoli di spessore. Avendo assorbito i colori luminescenti dell’ora che precede il crepuscolo, hanno sagome auree, evanescenti.

“Venezia”. E’ una visione resa perenne da un colore cotto al forno, non ancora invetriato, polveroso. L’ombra più che rinsaldare le fila, sgretola, dissalda, sbriciola, come se tutta l’immagine fosse un friabile biscotto.



Oggetti di natura

Panorama si dispiega con nobile parvenza e si pone quale luogo di possibile dialogo tra uomo e natura articolando aperti orizzonti, masse arboree che offrono frescura e invitano alla meditazione e spicchi di sereno cielo in cui scorrono lievissimi cirri a rinsaldare un’antica promessa. Meno ameni sono i luoghi ove volumi, arcate e rampe formano ambiente in cui l’uomo vive. Colore digrada in ferree forme, prive di slarghi e fughe. Equivalgono a prigione, poiché natura manca. A volte, terra è avvolta nell’oscurità e cielo è illuminato da una luce estrema. Altre, è il minuscolo paese aggrappato alla cresta sommitale del monte a essere contrapposto alle enormi dorsali che attraversano la piana. L’animo vi si dilania come se avesse due distinti modi di stare al mondo. Quando poi dal cielo filtra una grigia luce che infligge semioscurità alle fronde e agli orli dei dirupi e dalla terra sembra che rimbalzino cupe lamine di fredda ombra, il paesaggio, drammaticamente rivoltato, mostra le proprie catramose budella.   Ritraendo veneta laguna, pure, ne blocca la luminosità, ne elimina ogni tremore o mobile favilla per rendere materico lo spazio: impenetrabile vuoto ritagliato dalla mole dei palazzi. Raramente il cielo è azzurro, spesso è bianco e corre fra stretti filari di piante o si deposita come neutro fondo che accentui l’orlatura delle case e i neri festoni dei cipressi.



                                                                                                                 Rosa Pierno

domenica 13 dicembre 2015

"L'acqua, il vento, la poesia" di Stefano Iori


                                                                             "La vertigine del vento" di Stefano Iori

“Capita a volte che la vita vada avanti lenta, monotona come lo sgocciolio di una grondaia che a poco a poco scava un solco in giardino. Il flusso incontra un dosso di terra, viene assorbito, scorre formando una piccola pozza, esita, prova a rodere la montagnola che blocca la strada o a scavare sotto di essa. Per via di quell'ostacolo, dunque, l'acqua avanza  diramandosi in tre o quattro sottili rivoli. Oppure rinuncia e affonda nella terra”. Così scriveva Amos Oz all'inizio del settimo capitolo del suo romanzo Giuda (Feltrinelli, 2014).

Alla fine della lettura, dopo aver sistemato con cura il segnalibro giallo al termine delle pagine lette, mi precipitai al computer. Lo accesi e cercai, tra i cento file sparsi, un brevissimo saggio che avevo scritto due anni fa per pubblicarlo sul sito dell'amico Claudio Di Scalzo: Olandese Volante. Lo trovai. Si intitolava La memoria dell'acqua e la poesia. Ripassai l'intero testo e giunsi alla parte che cercavo. In me stava nascendo profonda euforia.
Apportai alcune minuscole correzioni e fui felice. Di seguito potete leggere la versione rivista.

“La poesia (la nuova lingua) è in noi e chi se ne avvede scopre che questa scorre come acqua spinta dalla speculazione intellettuale in rivoli piccini, capaci di passare per ogni minuta fessura, di scorrere in ogni imprevedibile pertugio trasportando scorie di vita vissuta e atomi di giorni immaginati. Acqua che filtra negli spazi vuoti, caverne di vita aliena che sfuggono inesorabilmente (con tutto quanto in loro è celato) alla presa della coscienza consuetudinaria, all'ordine culturale e morale pre-costituito.
Poesia è descrivere questo lieve, eppur incessante scorrimento della parola nel vuoto-ignoto.
L'acqua ha una memoria? Bene, il poeta è quindi, in parallelo immaginifico, lo storico e il traduttore del pensiero sfuggente, dell'invenzione che appare con veste di verità-sorpresa in una frazione di pensiero. Cogliere questo istante inatteso significa cogliere la poesia stessa, abbracciarla con amore per poi iscriverla sul foglio portandola semplicemente alla dimensione di un tempo concepibile. Il tempo di pochi versi che possono alludere gloriosamente a realtà ignote o nascoste. Un racconto di verità mai detta o di inesplorata finzione. Che può vivere il fulmineo istante di una coincidenza, della scoperta o della dimenticanza. L'attimo sfuggente della rivelazione che è già rimpianto, un magma sottile e sorprendente da cui dedurre dolori, passioni e risa. Atti che si fanno parola nuova (gioiosa) nel momento in cui il verso risuona per la prima volta grazie alla voce del poeta. Per morire subito dopo e poi rinascere nell'incessante ritmo fantasmatico della scoperta”.

Un solo dubbio, nel suo cercare meritevole chiarezza, mi venne incontro dopo l'ultima rilettura di queste riflessioni. Il poeta, storico e traduttore del pensiero sfuggente, è il vero creatore dei propri versi? Oppure questi vengono da lui scritti assieme ad un'anima aggiunta, operatore logico dalla misteriosa essenza che, in contrasto solo apparente con la sua volatile vitalità (liquida come acqua), dà fuoco al rigo iniettandovi molecole di idee fluttuanti nell'universo, frammenti di sogni impossibili, ricordi smentiti, coriandoli di pensieri mai pensati? Se è così, come credo, ringrazio la mia anima aggiunta.

Ma cos'è l'anima aggiunta?

Il vento, il fuoco, lo spirito.
Un fenomeno straordinario si abbatté sulla casa dei discepoli (v. Atti degli Apostoli, testo attribuito a Luca di Antiochia). Quando il vento, gagliardo e impetuoso, riempì la stanza, fra alti vortici di fuoco, “... essi furono tutti pieni di spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo spirito dava loro il potere di fare”.  Altre lingue. Altra lingua: la poesia.
Luca (primo secolo dopo Cristo), scriveva in greco. Pnoé, dunque, il vento, il soffio che introduce lo spirito: pneuma.
Tale concetto si ritrova nella cultura ebraica. “Lo spirito di D-o mi ha creato e il soffio ( neshamà[1] - pnoé) dell'Onnipotente mi dà vita” (Gb 33,4). E ancora: “Lo spirito dell'uomo è una fiaccola del Signore che scruta tutti i segreti recessi del cuore” (Pv 20,27).
La cultura greca antica fu politeista. I Vangeli si ressero su di un'idea trina: Padre, Figlio e Spirito Santo. Quella ebraica è invece una sapienza duale: tutto nasce dall'Ein Sof, ovvero l'uno infinito. Si tratta dell'ossimoro della “luce oscura” concepita come D-o prima della sua automanifestazione: raggio luminoso e buio assieme. Quando l'essere superiore e divino si affermò come tale creò Adam a sua immagine e somiglianza: uomo e donna. 0 e 1. Concetto duale e binario.
È qui curioso notare come in tali differenti concezioni mistiche l'idea di “spirito” come “vento rivelatore – anima superiore” sia di fatto corrispondente.

Anima aggiunta, dunque, come soffio divino, o comunque altro. Capace di scrutare i segreti più nascosti, e quindi in sé ignoti, che ribollono nel cuore di ciascuno. Letture scordate, insegnamenti trascurati (o celati) di maestri, frammenti di vita vissuta senza apparente radice.
Quando tali segreti vengono a vivere nel vento e quando possono finalmente essere condotti a un rigo, con impegno certosino, ecco che nasce la magia (o se si preferisce, la mistica) della poesia. Prima amalgamata nella dimensione del mistero liquido, poi rivelata e scritta.
Mai rinunciare, mai affondare nel buio della terra (come i rigagnoli descritti da Oz, pur destinati a divenire altro). Meglio accogliere con garbato e affettuoso abbraccio la rivelazione. Meglio ascoltare l'anima aggiunta che pulsa nonostante il nostro volere e la nostra coscienza. Meglio nutrirsi, con coraggio, della manna della nuova coscienza.
“... non appena i figli di Israele avvertono anche una piccola oncia di rivelazione, subito li invade una gran gioia" (Rabbi di Czortkow citato ne I racconti dei chassidìm di Martin Buber, Longanesi, 1962)

Anima aggiunta

Altro da me,
l'anima aggiunta
lavora da sola
Mi scrive e mi dice
con fare garbato
La penso e non c'è
mi volto e lei ride
Il bello – sapete? -
è che lascia i suoi segni

(Da L'anima aggiunta di Stefano Iori, SEAM 2014, edizione italiano-inglese con prefazione di Beppe Costa)



Stefano Iori




[1]             Neshamà: parola antica che, secondo la Cabbalà, rappresenta l'anima superiore o "anima superna". Questa separa l'uomo da tutte le altre forme di vita. È correlata all'intelletto e consente all'uomo di godere dell'aldilà. Permette di avere consapevolezza dell'esistenza e presenza di D-o

mercoledì 9 dicembre 2015

Giulia Napoleone






L’astro trattenuto da un reticolo fermo, impedito nel suo tremolio, pudicamente cela seduzioni e incantamenti, mostrando declinazioni solo terrestri.

Tratteggio che addensa tenebre finte, orditura di labirintiche apparenze a cui s’accorda incantato occhio.

Finge plurimi mondi con plurimi profili ammagliando in seno rete sì stretta! Per infidi, incerti sentieri sparge la nebbia della contraddizione riunendo il loglio col grano.

Semini stelle procurando fori nella fitta garza. Non fu pianeta di roccia o polvere quello che s’infigge nell’astrale piano. Con trama fine non s’intercetta avanzo. Né resti s’impilano sulla balaustra da cui si scorgono le bianche colonne emergenti fra spumeggianti onde.

Menzognero è l’ordine tramato per meglio contrapporsi all’esistenza del caos. La fulgida trama, strappata, non mostrerà un luogo reale, né salvifico. 

Gettati i coriandoli di luce come spiccioli su un retrattile cielo, scuro, sporco di sabbia e stille minerali, faresti perdere gli occhi a un veggente, mortale nemica che ti corichi al nascente sole.

Ritaglia il cielo in porzioni: setosi fazzoletti indicano penuria. Pur anche nella stellata volta, incuneano nell’animo il sospetto che da questa terra non fu visibile l’ardita risalita.

Il collare di stelle si ammassa sulle terga della notte, adombrando un lucore desunto dalla fulgida parvenza di quel che si credette vero.

Foglio fu simile a legifera tavola che tenta lettere e poligoni contravvenendo al  malandrino caos. Distribuite che furono, le fulgide e ricomposte luci, sempre solo una parola alla volta non fu mendace.


Il dilemma si dissolve smettendo di decifrare: solo allora sarebbe di tutta evidenza che siamo noi le stelle confitte in inchiostrato cielo.

Messaggio lanciato nell’aere come strale ci raggiunse mentre felici eravamo di osservare l’aureolato stemma sui nostri capi posto da gentil mano.

Geometrizzate traiettorie di sapide parole infittiscono il poema della natura: essa non fu spergiura. Frapponemmo le nostre grida a siffatto ricamato tessuto e inebetiti restammo a udirne il muto responso.

Hai sezionato il cielo, avida d’infinito. Non sapevi cosa fosse, l’hai riconosciuto solo nei nastri di pelle con cui hai recinto il sacro spazio.


                                                                               Rosa Pierno

venerdì 4 dicembre 2015

Il ritorno di “TRASVERSALE” di Gio Ferri


Con notevole interesse e graditissimo coinvolgimento, dopo un periodo di obbligato silenzio, ritroviamo in internet la prestigiosa rivista di letteratura e arte “Trasversale” fondata e diretta dalla poetessa, critico, architetto Rosa Pierno, che vive e lavora a Roma  (blogtrasverale@gmail.com).
            Da tempo effettivamente ci mancavano rimarchevoli e preziosi, stimolanti e innovativi,  spunti di lettura e visualità. Gli interessi e le acute osservazioni critiche, letterarie e filosofiche, spaziano con irrefrenato dinamismo (anche tipo-grafico) dall’arte e, in particolare, alla poesia stimolando il fruitore ad una lettura che fortemente incuriosisce, oltre la non facile ricezione degli scritti tipici delle figure grafiche non sempre facilmente leggibili dei testi (troppo ‘compatti’, sovente, e visibilmente frustranti) di ricerca e comprensione in web.
            Gli autori dei saggi e dei testi, come per il passato, appartengono per lo più a quel gruppo di studiosi sempre ripuliti dalla banalità pseudo-giornalistica diffusiva soprattutto degli inserti dei quotidiani cosiddetti culturali. Le scritture in Trasversale si rivolgono quasi sempre ad esperienze poetiche, artistiche e di narrazione le cui qualità di ricerca e conoscenza stimolano ogni sapiente curiosità. Compresa la disponibilità a meglio conoscere autori giovani e talvolta non del tutto sconosciuti. Trasversale offre al navigatore web non poche sorprese. Soprattutto rispetto ad una certa crisi attuale della poesia e della scrittura creativa in genere.
            Negli ultimi mesi (o primi per la nuova serie) già le pagine  del blog si sono arricchite di poesie inedite e di interventi critici assai stimolanti. Ovviamente per ragioni oggettive non possiamo qui  dire di tutti: avremo occasione di tornare in argomento in un prossimo futuro.                                                                                       
             *  *   *
In questo numero, del 26.11.2015, vanno notati fra gli altri, i sogni d’amore di Claudia Zironi tra fantasmi interiori e insieme cosmici, in poesie delicatissime dette con i loro misteriosi inviti all’essere per una felicità senza nome. Senza parola antica e libera di luce tuttavia nuova e mai rinunciabile. L’amore cosmico come origine e approdo di fronte alla perdita e allo smacco che tuttavia sono divini:
nominami, dì il mio nome, / poi pronuncia il tuo // un diverso dire
propongo / scollegato dalla ragione / proprio di divino amore. /
non ripetere od usare / bensì ex novo, dal vecchio // nominare

Alla evanescente fotografia di Doria Conversazio  
si dedica con opportuna documentazione grafica l’acuta e rivelatrice presentazione di Gilberto Isella  che osserva incantato infine
“il tranquillo fluire e rifluire di larve, rese irridescenti dalla contiguità, disegna l’interfaccia tra il qui e i panneggi che avvolgono il lontano.
Panneggi che spingono ai margini il volto defunto, e allo stesso tempo ne fanno il loro complemento più prezioso. Cancelli fluenti, emblemi di quel nulla imperfetto intorno al quale la vista inventa i suoi anagrammi.  Ameranno, per commutabili prove, il vuoto”.
                       
La poesia è la domanda antica [forse troppo più volte posta nei modi più diversi e in altri luoghi del nostro tempo]: “Quale poesia oggi?” di Ennio Abate. Come dire “quale vita oggi”? Quale senso della vita e della poesia oggi? Un certo Orbilius polemizza amichevolmente, ma con grande sincerità, con un altro certo Samizdat: quest’ultimo ingenuamente eternamente affascinato dai grandi poeti (vale a dire per lui “quelli che vendono”!). Mentre Orbilius, con i piedi per terra, denuncia all’amico ancora illuso tutti quelli – poeti più o meno riconosciuti da editori e critici e assolutamente vuoti di senso (ovviamente non nel senso di significato!), postmoderni intellettuali anticamente rivoluzionari (!), rivolti solamente alla loro ormai chiaramente persa battaglia  letteraria per  condurre le masse alla cultura e anche, perciò, alla poesia!
Commovente è comunque la conclusione di Orbilius che vuole ricordare con nostalgia almeno uno dei più notevoli novecenteschi poeti antichi: Roberto Roversi, che raramente pubblicava e scriveva poesie in ciclostile per donarle umilmente agli amici.

Giorgio Bonacini, in “Infanzia dei nomi” “, 2015
ci conferma per la poesia l’insufficienza di una qualsiasi ragione esaustiva e riprende il discorso sulla poetica dell’indeterminatezza.
Si potrebbe aggiungere dell’ambiguità. Che apre tempi e spazi mai circostanziali alle cose, ai nomi (oscuri nella loro genesi), indefinibili alla ragione appunto:
           E dove il tempo degli occhi / finiva, uno spreco inusuale / nella generosità di se stessi / avrebbe attraversato l’incanto / con la velocità della notte / parole, scivoli ormai intrattenibili / presi da una allucinazione / nel sintagma di un cuore isolato
…………

          
           Si colgono con grande curiosità in merito alla più recente poesia i testi de “La creta indocile”. Si tratta di alcuni inediti del 2015 di
Ivano Mugnaini che propone una sorta di racconto, quasi un poemetto, in cui poesia e narrazione si sovrappongono. Si legge in una nota introduttiva di una “incoercibile inclinazione a narrare” che si incontra/scontra sempre con una, forse inconscia, volontà di poesia:
                       La stazione
Giunto in anticipo di fronte / a questa stazione, fermo, / senza aspettare alcun treno, non vorrei, / stavolta, che arrivasse alla mente / una poesia.
Vorrei che da quella porta rugginosa / dell’atrio uscisse trafelata la carne
imperfetta di te, accesa, sudata / rossa di follia
………

* *  *
Particolare attenzione, ovviamente, merita – anche in relazione alle basilari motivazioni della ricerca di questa rivista – il saggio introduttivo, acuto,inaspettato e assai propositivo di Rosa Pierno sul pensiero dello storico Jean-Pierre Vernant , “Edipo senza complessi” (Ed.Mimesis 2013).
Vernant critica le affermazioni di Freud sul Complesso di Edipo considerando del tutto arbitrario fino alla banalità quella affermazione antistorica, fuori da ogni probabile realtà individuale e sociale, perciò del tutto arbitraria, la generalizzata affermazione di una universale considerazione sul quel complesso riferibile all’uccisione del padre di contro all’amore per la madre. Vernant chiude il saggio con un invito conclusivo e aspramente ironico : “Si potrebbe proporre agli psicanalisti di farsi più storici – è un’altra massima da appendere sopra ogni lettino in cui si applichi lo smercio di una assurda verità”.
Qui ci si può domandare perché uno psicanalista dovrebbe diventare uno storico:  Freud non era uno storico e non poteva esserlo. E nemmeno poteva esserlo un ‘teatrante’ come Sofocle. Non c’è storia nella storia ellenica e preellenica offerta a un pubblico che voglia ‘divertirsi’ piangendo (quello che facciamo ‘godendo’ di un film tragico o dell’orrore!). Come non c’è storia in senso… storico-oggettivo (!) quando si voglia come Freud indagare sulle origini dell’uomo, e dell’universo di cui non si può conoscere né principio né fine. Se non muovendosi per ipotesi storicamente indimostrabili. Lo storico e Freud percorrono strade del tutto diverse: il primo va avanti e indietro sulle vie tracciate dalle scoperte documentali, Freud va avanti e indietro per le vie corporali-individuali della mente (impalpabile e intangibile) – non si pone problemi fattuali o… neurologici  se non per constatare l’abisso che ci separa dall’ignoto qual è l’inconscio nella sua primigenia  profondità. È forse questa la verità:  Vernant confonde il complesso inesistente in Edipo, se non a livello teatrale-favolistico con il mito. Solo per fare un esempio: il mito biblico provoca in realtà il complesso universale del peccato originale…
Sul problema dell’inconscio si può con seppur relativa convinzione  riprendere il pensiero di Jung (“Complesso e Mito” in “Problemi dell’inconscio nella  psicologia moderna”, Einaudi 1977. Pgg.252-253): …”Nella dottrina di Freud il mito di Edipo è a dire il vero, soltanto una geniale visione del maestro, non una esperienza vissuta con commozione dal paziente. Ciò che il paziente vive è il suo complesso come fatto per il quale gli viene offerto a guisa di metafora  la tragedia di Edipo in astratto – ridotta  ad uso degli incolti. Orbene Jung non afferma che questo o quel complesso, come fatto non esista, ma va alla ricerca dell’immagine di questo complesso… e si trova subito nel mitologico…”
Forse non  ci rimane, ad eliminare ogni ipotesi o diatriba, che rifugiarci ancora nell’ultimo mito presente e totalizzante: la Poesia.
                                                                                                                 

                                                                                                  Gio Ferri