sabato 21 novembre 2015

Claudia Zironi “fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni”, Inedito



La scena che si svolge su una spiaggia, i moti atomistici o stellari che circondano i corpi come graziosi memento, le tracce e le traiettorie che sono quelle delle parole lanciate come fossero strali capaci di arpionare i pianeti: le poesie di Claudia Zironi paiono risalire dal libro di Lucrezio e condensare il passato col presente, e al medesimo modo il cosmico con il terrestre. Ma uno solo è il sentimento in grado di fare da collante a questi eterogenei elementi e idee, di incendiare, di dare propulsione: l’amore. Naturalmente, è un amore che quasi surclassa il proprio oggetto e riempie di sé l’universo intero. Siamo comunque in presenza di qualcosa che collassa, che non regge all’urto, altrimenti per quale ragione non si resterebbe aderenti alla pelle dell’altro? Una profonda insoddisfazione spinge a cercare un’armonia superiore, la ragione profonda dell’essere. Amore, dunque, come origine e come approdo. Ma a quale stazione? E, in ogni caso, non è l’artista che si rende simile al dio, ma colui che ama. La separazione dei piani è una costante almeno quanto la consapevolezza che pensarli uniti, coestensivi è un paradossale obiettivo. Forse, più dissipazione ha l’uomo in sorta e più  l’amore appare come lo strumento atto a rimarcare l’anelito e lo smacco. Eppure, perdita e smacco divini!


soli iscritti tra raggi o soli
velati, tengo le scorze strette
tra brillamenti e derive dove
tu. siamo assoluti d'assurdo,
paradossi di condanne, amori
e ancora. rotiamo torno torno
all'asse
imperscrutabile, inverso. sei bello.
e unico ti sgretolo, traccio un solco
cavo, ti raggiungo sul confine

limpido animale

***
nominami, dì il mio nome.
poi pronuncia il tuo

un diverso dire propongo
scollegato dalla ragione
proprio di divino amore.
non ripetere od usare
bensì ex novo, dal vecchio

nominare.

***
utensili naturali
conficcati nella carne
siamo pure storia
d'un'evoluzione
che lascia inermi
spoglie sulle spiagge
lucore d'ossa
che sognano altre ossa
ché non possono star sole
a farsi sabbia.
***
parliamo di un'ontologia a un'ape
citiamo l’essere guardando il cielo
con un telescopio. pensiamo
a un dio che a propria immagine
crei un batterio.
guardiamo al tempo
se ne siamo capaci.
consideriamo l’etica e la morale
per la loro durata e il loro effetto.
contempliamo l’inesistenza
poi, produciamo arte.
***
sfuggendo alla storia
aliteremo sulla cenere scopriremo
veri corpi arroventati nell'inerzia
saranno baci statici a piacerci
senza uno scopo in espansione
una meccanica infinita, attorno a noi.

non ce ne accorgeremo.

***
davanti alle vetrine Socrate
avrebbe saputo cosa dire.
balbettando io ne bevo
senza morire d’aspra luce
di un saldo entro le facce
degli automi. ma tu prendimi
- che nessuno ha davvero voglia
di esser solo – prendimi,
portami nella derisione
del tuo amore oltre un dio
di morta plastica e i manichini.
montiamo in vita a una spiaggia
di ciottoli roventi, stellari, scalzi
per danzare
ogni cara ipotesi di salva distruzione
della razza. poi restiamo lì,
penetrati, ceneri abbracciate
come inerti, frantumate ossa
per millenni, in felice dissipazione.

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