mercoledì 29 marzo 2017

Max Läubli, "Il Raccontastorie", presso lo spazio polivalente Arte e Valori, Giubiasco dal 4 marzo al 2 aprile 2017




Negli impressivi quadri di Max Läubli, ticinese d'adozione, il colore svolge la funzione di traino per la ricchezza dei rinvii molteplici, degli elementi accentuativi, dei contrasti morbidi: è il segno principe, meraviglia del creato. Colore, come gioia di sé medesimo, quasi si liquefa, si raccoglie scivolando nei panneggi, si rifrange sulle oleose piante tropicali, sulle donne intente in smussate inattività. Se il colore ci addentra nella felicità del pittore è anche gioco favoloso che diventa nostro.

È necessaria una coscienza della sostanza cromatica, delle sue vibrazioni più sottili, per comprendere meglio la costruzione del disegno e del vario commercio che la luce ha con le forme, le quali le consentono studiatamente sempre maggiori irradiazioni e iridazioni. La scena principale ha plurime diramazioni, divagazioni ove simboli svolgono la loro funzione come in un rebus visivo e il senso è equilibrato dal fulgore supremo delle tinte. Luce diviene fiamma e poi aurea. Il significato va trascolorando assieme al colore.

Restare legati alle forme vuol dire semplicemente accondiscendere a una meraviglia di grado inferiore e, in ogni caso, di sostegno alla poliedricità delle tinte. Il corpo ha una sua verità plastica solo al fine di graduare la ricchezza cromatica. Tuttavia, Il fastelletto di mezze figure popolarissime e la collezione di simboli disseminati nel proscenio costruitissimo, l'uovo, il pesce, l'arcobaleno, mostrano che è il soggiacente disegno a costruire la complessità dei piani, avvolti da larghi orizzonti sereni.

È come salire su una giostra, prendere l'abbrivio per un passato prossimo, immergersi nell'infanzia, pur col suo portato di mistero e crudezza, nell'infanzia propria e dei padri, ritrovando un linguaggio comune. Non mai popolare, poiché ogni elemento reclama invenzione e rielaborazione, ma certamente capace di parlare a tutti col suo registro da favola colta, sostenuto. 

Nell'opera di Max Läubli vi sono ramificazioni che, per quanto provenienti dal passato, delineano un racconto visivo contemporaneo: l'uomo tecnologico accanto alla madre con bambino che fuoriesce da una conchiglia-fiore. Non siamo soltanto in un'onirica visione, ma immersi nella reinterpretazione simbolica di oggetti che per noi è impossibile dismettere, che ci ritroviamo nelle tasche, sotto lo sguardo e che costantemente condensano il tempo del nostro presente.

Si accoglieranno come addirittura aventi derivazioni metafisica certe tele costruite assembrando elementi geologici e costruzioni umane, cieli fucsia e pesci su basamenti, ma, in verità, Max Läubli è pittore che accoglie la pittura tutta, che non perita s'insediarsi nel carnaio del giudizio universale michelangiolesco, sebbene rifatto alla sua maniera. Non intendendo por freni ai materiali visivi che cadono nel vortice della sua tela, egli richiede però una grande attenzione alla sua personale misura: certi tasselli quattrocenteschi, la pittura nordica del delirante Bosch, il paesaggio a terrazze con le rocce giottesche non testimoniano che di una capacità onnivora che però guida inesorabilmente il colore verso la verità del suo splendore, verso una sua modulata crescente variazione, in cui il creato è prima di tutto lussureggiante fenomenologia.

Dal circo ai segni zodiacali, dai paesi medioevali arroccati a una zoologia fantastica: ecco perché, più che in un'area surrealista, pensiamo a una fagocitante capacità di assorbire la storia della pittura nel suo vocabolario e nella sua sintassi. Lungo l'asse diacronico del racconto c'è la sintesi di un'immagine che si coglie assieme alla dolcezza del vivere. Se la vita è problematica, l'indole carezzevole dell'artista, delicata e cortese, potrà lenire col suo sontuoso colore la durezza delle asperità concettuali.

                                                                                         Rosa Pierno

giovedì 23 marzo 2017

Maria Grazia Insinga “Etcetera", edizioni Fiorina, 2017





https://www.fiorinaedizioni.com/

Abbattuti i confini tra umano e divino, la favola incombe occupando l'intero spazio e i reliquiari ora divengono ceste di simboli, i quali, avendo perso la loro collocazione funzionale, restano a galleggiare nell’aria liberati dalla forza di gravità dei diversi contesti.
Ex-voto, rami di corallo, cuori, seni, calzari, in bilico tra i regni della religione e della mitologia, se sembrano roteare nell'aria senza ancoraggio sono anche contemporaneamente disponibili a un nuovo uso, ad assumere, pertanto, una nuova significazione.
La macchina che abbatte tutte le separazioni esistenti tra i regni - ove alcune  delle cesure precedenti erano il frutto di un'attività separatrice derivata dalla necessità della classificazione scientifica aristotelica o di contesti che per la loro complessità semantica e per le loro caratteristiche ibride, mal  sopportavano la presenza delle categorie, - è al centro del nuovo libro che Maria Grazia Insinga ci consegna sotto forma di pregevole leporello nelle edizioni Fiorina.
In ogni caso, sia le separazioni, sia l’indistinzione fra le classi sono il frutto dell'invenzione umana e per questo si può parlare di un'ombra estetica che  ricolora tale scenario, donandogli una maggiore profondità
La Insinga restituisce a questi separati regni una contiguità che ripristina la loro interezza, costituendo un unico serbatoio da cui scegliere per ridonare una seconda vita ai materiali e conferendo loro, in tal modo, una duttilità che consenta al suo gesto poetico di tracciare un nuovo disegno, più adeguato a rappresentare la visione che la poetessa siciliana ha della realtà.
Tuttavia, è proprio grazie alla polisemia straniante che i simboli assumono con questo atto ricostituente - e l’imprecisione è parte integrante del riconoscimento della complessità irriducibile dell’oggetto - a far loro acquisire il potere di trasformare le contraddizioni in una logica dell’assurdo. Non siamo di fronte alla costituzione di un nuovo sistema, poiché vi è  la volontà di non espungere i significati oppositivi, di conservarli, cioè, come necessari, come risultato definitivo.
Sfilano dinanzi agli occhi il mostro e la bella, la fine che non si conclude mai e l'inizio che non può aver luogo. La divinità è declassata dalla sua incapacità di  non poter "toccare terra", la bestia è un'invenzione più vicina all’umano di qualunque altra cosa, che sia mostro mitologico o ridotto al rango di vittima nella favola popolare, mentre il personaggio dell'avvelenatrice sembra essere colei che se avvelena con il suo pensiero separatore, è anche colei che consente la circolazione tra i regni finalmente comunicanti. È la madre che genera, ma è anche la terra percorsa, è mostruosa a sua volta, oltre che dispensatrice di beni. In un formidabile nodo che stringe materiali distantissimi, Maria Grazia Insinga ci offre una possibilità che a ogni passo si svolge in una negazione per aprirsi alla variazione. È per questo che abbiamo parlato di arte e, naturalmente, un’arte che mette in comunicazione varie forme espressive!

                                                                                         Rosa Pierno


LA DEA



                         ora che lei è relegata
                             a divinità ora che lei è
                             legata da divinità ora
                             che lei è relegata a


il sole non è degno di splendere

sul suo capo ma l’altra dall’altro
capo non ha eppure splende
e dovrà sette anni digiunare
in totale oscurità fustigata
da guardiani a difesa di protocollo

ma non ricordo più il perché 

il sole sul suo capo ma l’altra 

splende e splende sette anni


                             se un cane entra nella casa
                             il cane è ucciso


l’altra è incoronata senza testa e corona
da quel momento cammina sulla tigre 

e il piatto d’oro e per i resti e la vita 

non permetterò ai suoi piedi di toccare

nuda terra: per calzari pelle di cinghiale

assi di legno tappeto di foglie i miei piedi

a scaricare al suolo tutta quella divinità
carica di elettrico isolamento non è 

cosa di isole detonare è togliere tono 

a suono a suolo e rimangono allora
tabù reliquie micce feticci e fuochi

mercoledì 15 marzo 2017

Il grande libro della pittura di Gianni Paris






La cresta di luce fra le due accostate stesure di Terra di Siena Bruciata ritaglia orizzonte e fuga insieme.

Graffiando con la mina la carta, procura un nitore chiaro, smussato, enfio e quasi tiepido, sorta di polmone, sacca di lucore.

La calotta artica trattiene il cielo specchiandolo. Si può, cambiando le carte in tavola, fingere che sia una collezione di paesaggi, nei temperati ocra dei tramonti, mai visti da alcuno.

Si può scorgere sempre qualcosa, pur nel buio più intestino, veder apparire un segno luminoso e proteggerlo con la mano, quasi la troppa luce lo scolori.

Vi si scorgono figure: vedono la luce del tutto casualmente, nell’andirivieni del pennello, ora carico, ora scarico.

La luce sorge sovente da un ispessimento della materia, da un suo corrugarsi, da uno stratificarsi dell’impasto; meno frequente è il caso del levare, quando anche l’occhio vuole sollevarsi dalla mischia.

Lingue di fuoco o selve rugginose, lo sfondo si forgia a partire da quel che si miscela.

Non si riesce a distinguere se tali rivolgimenti e cataclismi stiano avvenendo in terra o in cielo, poiché anche le nuvole grondano ruggine e si muovono come le marine onde.

L'inizio si mostra come una fessura, una gelida spelonca, un rinsecchito fiume nel deserto, o meglio: un universo solo colorato.

Il lattiginoso sole, velato da una nube che nei suoi vortici perde polvere di grafite, pesa sull’esofago: non si può respirare dinanzi a tale turbinio.

I lontani si sono formati in un notte obliata, ma ancora sulfuree vampe e nubi di vapore si levano, forieri di simboli, dal sogno che tutto precede.

Polverulenti nebbie e un sole malaticcio, che non illumina l’amara terra, conservano,  grazie all'impasto, l’origine comune.

È un pianeta disabitato, i lucori ancora impastati agli ossidi non hanno dato vita all’organico. L’acqua si è completamente asciugata sul foglio. 

Le colline si susseguono secondo una scansione ordinata, mentre colore guida l’occhio al centro dell’immagine che coincide con il suo punto più profondo.

Pur anche le nubi sono collassate a terra per il peso del pigmento terroso che enfiava il loro gravido ingombro.

È tutto affidato al colore. Non si darebbero forme senza colore. Nemmeno luce potrebbe molto giacché non esistono profili. Spesso le zolle di colore s’incaricano di fingere volume per indicare la mendace presenza della luce.

I colori si fanno più ambrati e liquorosi per la presenza di folte macchie di verzura.

Geometria è infitta sulla crosta terrestre e da questa inseparabile. Anche la visione è dettata da una volontà geometrica il cui assioma è che sia il colore stesso a dare forma al mondo.

Create che siano la terra e le nuvole, sia  pure prive di cilestre fuga, vortici bianchi e sfiatatoi rossi sporgono dai pendii scoscesi.

Partizioni del foglio già riquadrato valgono come primigenie divisioni fra forme uguali: le distingue il modo in cui il colore si distribuisce sulla superficie.

Prende fuoco il pigmento nella fucina. Fumi creano solide forme.

Sulfuree lotte avvengono tra masse catramose e nembi violacei. Un informe paesaggio che si geometrizza solo quando si raffredda. E pare di leggere la storia della pittura, tutta.

                                                                               Rosa Pierno






martedì 7 marzo 2017

“Il limite estremo", mostra personale di Giulia Napoleone presso la galleria Contact, Roma, curata da Rosa Pierno






Giovedì 9 marzo 2017, alle ore 18:30, sarà inaugurata nei locali della Galleria CONTACT artecontemporanea, in Via Urbana 110 a Roma, la personale di pittura di Giulia Napoleone dal titolo “Il limite estremo”, a cura di Rosa Pierno.

Nel presentare la mostra personale di olii di Giulia Napoleone, vogliamo indicare come una legge ordinatrice soggiaccia all'opera omnia dell'artista, caratterizzando la sua posizione di grandissima sperimentatrice di tecniche al fine d'indagare aspetti del visibile che si mostrano irriducibili l'uno all'altro tramite segni. Quasi l'equivalente dell'attacco sferrato con la ragione alle forme mutevoli e inafferrabili del reale. Tale legge non è ravvisabile nella struttura del reale, ma è quella che riguarda la statura dell'artista che si pone di fronte a esso senza cedimenti.

Il ricorso a un vocabolario astratto-concreto, che si installa fra la visione di "un entomologo e, al limite opposto, ad un astronomo", è in realtà correlazione dell'uno all'altro: il moto di reazione verso la tradizione (il figurativo) si trasferisce dall'analogia col concreto, all'interno stesso dell'immagine, nella quale entrano in conflitto gli elementi utilizzati e il contesto significativo nuovo e diverso in cui le analogie visive sono immesse e che è, appunto, quella dei segni astratti, sempre percepibili individualmente e, contemporaneamente, nelle galassie che formano. Il processo di produzione dell'immagine che consta per lo più di traslazioni concretissime e  di fulminanti accostamenti tra astratto e concreto non intende dissolvere il reale in equivalenze sentimentali o fantastiche, psicologiche o soggettive, quanto restituirne la precisione, il netto stagliarsi del fenomeno nella sua polivalenza.

Attenuati che siano i due versanti, del concreto e dell'astratto, nelle opere ad olio, si fa ancora più algida e algebrica la materia del contendere. Poiché di materia si tratta, e qui più che mai, e materia che trova nel colore il suo diaccio o sulfureo intendimento. Quasi ristretti e resi più arditi gli ambiti sperimentali in cui attuare il segno-traccia, quel segno che equivale a costruire, ma privato della sua individualità in favore del colore che ne prende il posto portando al limite estremo le possibilità analogiche delle opere, si possono mettere in rilievo alcune precipue caratteristiche in un insieme che, se rastremato, è anche più pulsante e profondo.

Vediamo come la marezzatura del pigmento sia procurata con un pennello a formare celle di colore, le quali variano per impercettibili gradazioni. È quasi un tranello portato all'occhio, il quale deve percorrere la superficie pittorica in lungo e in largo per tentare di captare la cella in cui inizia il digradare coloristico,  lasciando, inoltre,  la sensazione che sia la luce  a tessere le sfumature con giochi di contatto, riflessione, intensità, in altri termini, di luminosità geometricamente dosata, e non la materia del pigmento. Col che si è come pervenuti su un crinale in cui, a colui che guarda l'opera, sembra smarrita la capacità di situarsi nel reale avendo assunto i bordi del quadro come i propri confini percettivi, la luce come sorgente del colore, il pigmento come mero sostrato materico,  avendo cioè capovolto il riferimento esterno con quello dell'opera.

Sarà, pertanto, la ragione artistica a ridistribuire valori e significati agli elementi fisici. Ciò  non risolve lo scollamento tra reale e mentale, non ci fornisce essenze, poiché come abbiamo già specificato l'artista affronta il problema, non lo cela, né lo traspone in spazio illusorio, producendo, proprio per questo, una sorta di ardente avvicinamento alla sorgente della ricerca artistica, a quella conoscenza che è tanto più vera quanto più complessa e contraddittoria si mostra nei suoi risultati.

                                                                                           Rosa Pierno


Estratto dal testo presente nel catalogo


www.galleriacontact.it