mercoledì 28 settembre 2011

Lucio Saffaro “Disputa cometofantica” Sossella, 2011



La prefazione di Flavio Ermini al volume di Lucio Saffaro  Disputa cometofantica” Sossella, 2011, consente di comprendere come un testo che ponga l’iterdisciplinarietà di arte, letteratura e scienza come oggetto e stimolo del suo costituirsi, faccia riferimento a una cultura tanto vasta quanto complessa (complicata dagli intrecci di tali intersezioni), fungendo da necessaria griglia di riferimento per il lettore, necessaria perché poche  letture sono così perigliose. A tale prefazione, non possiamo aggiungere, se non alcune notazioni, qualche lampo, illuminazione e inevitabile caduta nel buio. Tale è la condizione in cui il lettore si viene a trovare, sorprendendosi di tale meravigliosa evenienza. Il libro è oscuro come risulterebbero oscuri testi di interpretazione, di iniziazione, ma è solo prima fugacissima impressione, poiché immediatamente dopo ci viene conforto da quello stesso testo che crea, inventa relazioni inaspettate, ci incanta e meraviglia: sotto gli occhi fra le parole si dispiega la soluzione, la chiave sono le parole stesse che formano una sorta di combinazione:

7.
Un sentimento affiora sul muro del mistero, quando il termine oscuro, apertosi alla fine del mondo, uguaglia se stesso nel nome del nulla.

10.
Se solo si sapesse reggere la gran vela della fine, si potrebbe placare l’orizzonte imperversante del futuro”

Come in un diario di bordo l’autore annota strategie,  controlla e affila gli strumenti, elenca quello che ha a disposizione, ciò che non si accorda con l’altro, ciò che si scolla dal tutto, il nulla che affiora come salsedine dalle formelle di cotto. E dove il tutto viene messo a operare insieme a capacità spurie, “l’integrale virtuoso del pensiero” che resta “ostaggio della poesia” nel suo infinito tentativo di raggiungere la pienezza di un limite in cui la poesia sembra invece risiedere da tempo.   La memoria poi vi gioca tutti i ruoli, non solo quello afferente a cose del passato, a cose che accadranno nel futuro (cioè prefigurate) ma gioca su più tavoli la medesima partita, dal che si ottiene un diverso punto di vista del medesimo oggetto. Basterebbe cambiare posizione, abbandonare il libro, rigirare la mappa e si otterrebbe l’intersezione creduta impossibile, la quadratura del cerchio, la compresenza di tutto ciò che fu, è e sarà su queste pagine.

Per questo il libro di Saffaro vale come esperimento esistenziale, inverte le rotte, ci mostra i vuoti, le ombre, le ramificazioni e ci dice di cambiare i punti di riferimento per compiere la traversata da un altro punto di vista. Gli stessi oggetti infatti sono diversi in relazione alle modalità in cui li esperiamo: se parliamo di distanza, l’astrazione ci gioca un brutto tiro e il presente appare “quasi fosse un ricordo diminuito”, se ci situiamo sulle sponde della memoria “si potrà assistere alla deriva dei sentimenti”. Non ci sarà mai una posizione riassumibile: ecco il perché degli “strati” nel testo a cui fa riferimento Ermini. Ciò che ci sembra più irraggiungibile è quanto c’è di più vicino perché fluttua nel silenzio, ove si veda che la nominazione, l’interpretazione sono la via esperienziale: l’arte, appunto che è la grande impresa della vita di Saffaro. I sogni trovano un limite solo nel nostro timore. Futuro, presente e passato costituiscono dei limiti autoimposti: possiamo svellere le categorie, crearne di nuove: non è il gioco delle permutazioni infinite, perché l’esistenza è oggetto invischiato nel loro miele, ed è nell’esistenza che si trova il fondamento.

”Solo l’alfiere privilegiato può scegliere l’arco arcano, quello che conduce al giusto intendimento”. Esistono soluzioni individuali, atti e pensieri giusti, risolutivi. Ecco! Il labirinto non è un marchingegno in cui tutto viene dissacrato, rovesciato come un guanto, in cui vengono disvelate  interiorità false e in cui lo smacco è la moneta corrente. La lingua vi ha davvero un valore risolutore: “L’annuncio di un vocabolo è un rischio nuovo, da completarsi sulle tavole di riporto”. Ed è anche di volta in volta soluzione locale, diremmo. Il futuro come “iperbole del linguaggio”.   D’altronde, le relazioni tra memoria e infinito, tra solitudine e il suo segno, tra il “sostegno segreto dell’assoluto” e “gli oscuri polinomi del tempo” sono di fatto rese possibili da un linguaggio che si avventa contro i suoi limiti. Ma sono rese possibili anche da un pensiero innervato d’immaginazione, per cui è possibile che si ricompongano “ tutti i sentimenti inespressi” fino a  sentire il loro decadere “nell’oscurità del pensiero”; oppure “87. Chi confida nell’inizio, ne troverà alla fine tutte le diramazioni”. O, ancora “84. Gli archivi vellutati della memoria sono il vanto della coscienza”.   

Non altrimenti che col linguaggio possiamo sfiorare la spirale della conoscenza. E con la creatività, persino i numeri superano la propria definizione nei recinti della logica. A riprova che le varie discipline non sono in contrasto o in guerra come la vulgata pretende, ma condividono un medesimo afflato, persino medesime capacità di sorprenderci e di sciogliere i nodi.    Ecco in che cosa consiste la “mappa trasgredita delle risonanze del pensiero”. Ma ci fermiamo qui perché è un libro inesauribile e circolare al tempo stesso, invitandovi ad attraversare questa mappa straordinaria.

                                                                                            Rosa Pierno

sabato 24 settembre 2011

Edith Urban “DONNE.VOCI.”


Una serie di quadri di piccoli formato, acrilici su legno, che richiamano il formato del libro aperto,  meno per la dimensione e più per la presenza di suddivisioni e cornici grafiche caratterizzanti la superficie pittorica, determinano il nuovo corso nel lavoro di Edith Urban.  Si vedrà subito come peraltro l’ambiguità del mezzo (quadro o libro) si trasferisce anche alla superficie (planarità o bassorilievo)  e al contenuto della rappresentazione (simbolo o figura).

L’ambiguità visiva così tenacemente cercata, ma anche così raffinatamente esibita, si articola in una oscillazione perdurante, volutamente non risolta, tra ciò che ha un corpo e ciò che ha un significato; tra ciò che ha un formato e ciò che è informale; tra ciò che ha tramite fisico e ciò che è solo mentale.

Quest’ambiguità, percettiva e non solo, è costitutiva dell’atteggiamento artistico che Edith Urban inaugura con la serie DONNE.VOCI.  Sebbene elemento sempre presente nei suoi quadri, la scrittura assume questa volta posizione predominante o intreccia  un equilibrato dialogo con i simboli visivi, semmai si possa parlare di equilibrio tra mezzi espressivi così distanti come la letteratura e le arti visive.

Il quadro si complica, staremmo per dire. Realizza un’azione paradossale, qualcosa che vuole uscire dai suoi limiti, che si avventa contro i limiti dell’arte plastica (per parafrasare Wittgenstein). E, come se non fosse sufficiente, l’artista include nel titolo della serie la parola “voce”.    In una convocazione di per sé eloquente: si fa il quadro con tutto quello che si ha a disposizione, con tutta la propria cultura, finanche col proprio corpo.


Le voci di donna, che danno il titolo a ciascuna tavola, sono fra di loro distanti per epoca e condizioni. Le accomuna  un’esistenza condotta ai margini, che ha causato loro dolore, ma che è contemporaneamente testimonianza della loro resistenza, del loro rifiuto ad accettare dogmi e verità preconfezionate. La Marie di Wozzeck, l’Orphelia di Heiner Mueller,   la Candy di Lou Reed sono figure emblematiche, si accampano in aree vergini, non esplorate. Queste voci vengono di fatto a costituire il sottofondo della nostra visione: di fronte a questi quadri la percezione è richiamata da luoghi diversissimi, subisce sireneo ammaliamento.  

Alcune opere recano il segno di una corda, ora distesa a segnare un percorso lineare con i suoi andare a capo, ora raggomitolata, ora groviglio inestricabile, ora incisa nella materia pittorica, ora affiorante in grumi: in ogni caso imprimente in noi il medesimo segno forte. Anche qui, l’oscillazione tra oggetto e simbolo viene sospesa, tenuta sulla “corda” della nostra attenzione.

Seguendo il percorso costituito da ogni quadro, rileviamo la presenza ferma, ma variamente declinata, per intensità o diluizione, del rosso: colore che finora ha caratterizzato le opere della Urban, sia come simbolo  sia come puro significante, ma anch’esso, nei nuovi lavori,  fortemente equilibrato dalla presenza di luminose e accoglienti gradazioni  di colore crema, le quali  ci invitano alla riflessione, a meditare sui molteplici fili restituiti da una tale percezione. Tuttavia è alle zone  di confine, di trapasso che Edith Urban affida il compito più cogente, certa che un nuovo senso lo si può rintracciare soltanto in quelle zone esistenziali e artistiche in cui l’esperienza   non sia esente da rischi.

                                                                                                    Rosa Pierno

martedì 20 settembre 2011

Gio Ferri “L’assassinio del poeta. Canti I-IX” Anterem, 2003

Gio Ferri è giunto al quarto libro edito del poema “interminabile”: “L’assassinio del poeta. Chanson de geste exécrable”, mentre un quinto è in fase di stesura.  Ripercorriamo i canti iniziali (I-IX) del primo libro (edizioni Anterem, 2003). Si tratta per esplicita dichiarazione autoriale di un progetto che è un racconto poetico popolare che si sviluppa per ottonari (multipli e sottomultipli), vero e proprio poliziesco: non si sa quanti canti seguiranno, chi è l’assassino, se ci sarà una soluzione, chi è l’assassinato, se il poeta sia l’assassino o l’assassinato o sia la poesia “la vera colpevole: ai danni di ogni discorso comune e di buon senso (cosiddetto)”. Con queste premesse viene  da pensare che il genere venga  totalmente svuotato e che si debba andare a caccia di ben altri colpevoli. Tant’è che già sulla prima pagina è evidente il disegno di una microfosica del potere:  

in coscienziosa vacatio
e timorosa al sostegno d’una ratio, sazio disdegno,
violenza d’una sapienza antica e più innimica
la pietosa rimordente coscienza che pur sollecita
giustifica disquisita disponibile passione
civilissima e crudele
tanto che nessuno può essere punito d’un fatto,
articolo uno, che legge non voglia per quanto reato;

ove non è ragione di dubitare che alla poesia appartenga quella capacità di pensiero che può sovrastare,  comprendendole, le altre discipline. Facciamo riferimento a una microfisica per la relazione che sulle pagine viene tracciata  tra sapere e potere, ove la poesia può giocare un suo ruolo alternativo. Il quadro indiziario, il processo che vi si sta per svolgere è al medesimo tempo il tribunale della ragione, ove però quando si tratti della poesia è a un altro tipo di ragione che si deve fare riferimento. Esiste, infatti, una specificità del pensiero poetico rispetto a quello filosofico.

E che s’ingaggi, immediata, una contesa, un torneo, tra” norma incriminatrice” e  “Orazio fanciullesco” vale come conferma per le nostre intuizioni. In tale contesa fa capolino un io che chiede statuto, ruolo, autorità, riconoscimento con uno flusso irrefrenabile di parole, a testimonianza dell’uso della lingua come arma. Il linguaggio manifesta la sua carica eversiva: “Verginità e amistà sbrodola alla scrofamùta / e la predica s’inchiavica s’immalizia spudorevole / improbata / stessa giustizia e nequizia”; arma irrinunciabile, dunque, per non cedere all’addomesticamento, di cui Nietzsche si fece strenuo oppositore.

Quello di Gio Ferri è un linguaggio che muta incessantemente, reso con sapienza duttilissimo strumento al fine di esprimere un contenuto non disgiungibile dalla forma. Lì dove c’è necessità di descrivere la noia della redazione del verbale relativo al rinvenimento del cadavere, la scrittura rallenta il ritmo, lo fa incespicare, non scorre come non scorrono i minuti in quel repulsivo lavoro: “ Lambrate pulvea e deserta  alla strozza  del curvone / mostruosa e maleodorante la catatonica al sole“ e l’intersezione di un’aurea citazione dantesca è trattata come materiale linguistico perfettamente cesellato all’interno dell’economia del testo. La vicenda narrata è espediente per una rivisitazione delle forme poetiche della tradizione, ripercorse e come rinvigorite dal flusso sanguigno di  Giò Ferri. Vi è necessità di usare tutte le forme a disposizione, poiché ogni forma consente una espressività che non potrebbe essere esplicitata in nessun altro modo se non in quella particolare forma, col che viene a cadere qualsiasi altra necessità di giustificare il ricorso alla tradizione. Le forme non possono essere superate, esse devono sempre costituire il bagaglio del poeta, nessuna esclusa, nessuna considerata fuori corso.

Allora il ritrovamento del biglietto con la poesia, il sogno in cui il personaggio descritto nella poesia ritrovata occorre al Commissario, gli infidi riconoscimenti del cadavere, con le prime illazioni sull’assassinato non sono che stazioni di un gioco da tavolo, in cui la poesia disegna corsi e ricorsi e in cui appaiono le dimensioni incommensurabili tra un’inchiesta condotta con passi logici e una poesia che mostra nelle sue fibre di voler addivenire a puro suono, riducendo la verità a mancanza di senso: “Parola senza parola  / se dice poesia dice /  in tutta poesia nient’altro”, ove il riferimento è all’inesprimibile, compreso e disatteso al tempo stesso.

Né è lasciato inevaso il confronto tra la banalità del quotidiano e la tragicità dell’evento o quella insita nel pensiero, che lo sfondo poliziesco permette d’inscenare, né l’investigazione di alcune situazioni culturali (una serata PATAFISICA), le quali con crudeltà massacrano”ogni senso sensato”,  quasi in Gio Ferri sempre esista l’istinto a tastare col piede il terreno contiguo tra poesia e realtà, se mai esso esista:

Stare alla vita  che ormai più non può essere vissuta.
E beatamente morirne. Oppure capirne l’innata
colpa dell’essere: nel suo divenire può darsi
ancora come l’ultima  illusa (il)libertà?

Domande che appartengono all’ambito filosofico, giacché questo è un poemetto che intreccia nel suo tessuto i due livelli dell’esistenziale e della riflessione su di esso. E dove la poesia, nella concretezza del suo tessuto, mostra la distanza e la specificità d’un pensiero proprio che non coincide con quello filosofico. In fondo, l’inesprimibile è al regno dell’arte che appartiene. E Gio Ferri lo pedina, lo insegue, quasi lo acciuffa. Dovunque questioni irrisolte. Eppure il poeta promette proseguimento: la poesia non è morta (come vorrebbe hegeliano dettato)…..

                                                                                                                     Rosa Pierno

domenica 18 settembre 2011

Olivier Roller “Figure di potere” presso la galleria Spazio Nuovo, Roma


La prima mostra personale in Italia di Olivier Roller (Strasburgo, 1971), presso la galleria romana “Spazio Nuovo” (dal 6 ottobre 2011 al 7 gennaio 2012), con l’alto patrocinio dell’Ambasciata di Francia e curata da Peter Benson Miller e Paulo Pérez Mouriz, per uno strano caso, riporta a Roma immagini familiari e straniere al tempo stesso: ritratti di una statuaria romana che si è dispersa per le provincie del mondo (Museo del Louvre, Museo di Copenaghen “Ny Carlsberg Glyptotek”, Museo d’Arte Antica di Arles,  Museo Archeologico Nazionale di Cagliari) e che ora ritornano in modo provocatorio pur se in forma classica, come estranee pure se originate a Roma.
I volti marmorei che costellano le pareti della galleria sono quelli di Giulio Cesare, Lucio Vero, Caligola, Marcello, Caracalla, ma immersi in aloni neri, in un nero denso, che si sta ancora espandendo come l’inchiostro del polpo, se la fotografia fosse la superficie di un volume liquido, avvolgente e ghermente. O un nero fumo, se essa fosse il prolungamento prospettico dello spazio in cui siamo, e che fra poco avvolgerà anche il volto, lo restituirà al niente del tempo. Tempo, in questi lavori, solo apparentemente è snodo, pure se ha l’effetto del magnete sui ferrosi discorsi  determinati da un tale imponente oggetto: la rappresentazione di persone che hanno avuto un ruolo straordinario e che hanno esercitato un potere senza limiti. Sulle fotografie che Olivier Roller ha con tale forza costruito, emerge con algida veemenza, diremmo, il rapporto tra la fisionomia e la personalità, corrotto peraltro dalla perdita della vita. Di un’esistenza esemplare nel bene o nel male ci restano documenti e opere d’arte. Simulacri su cui si arrampica la nostra tendenza innata all’interpretazione, alla restituzione, alla ricostruzione del senso. Questi volti repentinamente illuminati da una forte luce, abbagliante, di cui veri occhi non sopporterebbero l’affronto, restituiscono fattezze sbrecciate o macchiate, abrase o levigate.  

Roller abilissimo, ce ne offre in sovrappiù squarci visivi, tagli sbiechi, riprese dal retro, quasi a rendere più problematica la lettura o a offrirci un’insospettata diversa modalità di catturare informazioni, quelle sfuggite alla storia: poiché è di umano che si tratta. Rileviamo che guardare un busto al museo è operazione differente dal guardare le fotografie di Roller. C’è qui una sospensione dal potere e del tempo, più che una messa in rilievo, c’è la sottrazione di tutto ciò che conosciamo: la ritrattistica romana, realistica, rispetto a quella ideale dell’arte greca, il ruolo politico di imperatori o quello culturale dei filosofi, il ruolo di giudici, senatori, tutti aventi titoli per farsi effigiare nel marmo. Tutto è sospeso in queste fotografie dove il vero problema è  il rapporto tra volto e carattere. Con quali strumenti possiamo penetrare nelle menti attraverso i volti? Al di là del rintracciare attraverso la fisionomia il carattere, poiché il tentativo sarà comunque tentato e i risultati saranno scarsi, emerge limpida, come limpida è l’immagine così drammatizzata fra bianco e nero, ove i grigi hanno solo il compito di rilevare asperità e difetti del marmo o i segni delle cesellature e dello scalpello, emerge, dicevamo, un tema di singolare rilievo che attraversa tutta la nostra tradizione visiva e letteraria: la vita delle immagini la cui persistenza, fra immobilità e movimento,  passa attraverso la loro estraneazione con la perdita del senso originario e la capacità simbolica di riattirare nuovi eventi di senso. Attraverso la visione afferrata di scatto, che forse non resisterà che per lo spazio di uno sguardo, tanto è chimerica, di qualcosa che è scomparso ma che si vuole tenere tenacemente nella memoria, di cui  appunto è il simulacro il volto scolpito nel marmo. E’ con esso, ne siamo certi, che Olivier Roller  ingaggia la sua più strenua battaglia: far rivivere un simulacro, come viva persona attraverso la nostra percezione e il prestito della nostra interiorità. E’ davvero un invito squisito a cui nessuno di noi vorrà sottrarsi.

                                                                                                                    Rosa Pierno
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

mercoledì 14 settembre 2011

Gabriella Drudi “Biografia” 1995 sul n.74 di Anterem

Testo presente nel catalogo Martha Boyden, Gabriella Drudi “Doppia immagine” Roma, American Academy 1995 e pubblicato sul n.74 di Anterem 2007

Un corpo a corpo con la scrittura per opporsi a qualsiasi tentativo della stessa di divenire narrazione, mentre il testo inevitabilmente lo diviene, quasi per ineludibile spinta interna, per un meccanismo non disattivabile. Persino lo sguardo che s’avvicina alle cose con modalità cinematografiche -distante, vicino, angolato, che ricomincia da un diverso punto di vista - non può impedire lo svolgimento di una storia e ovviamente il tempo non vi ha un ruolo incolpevole. La lotta strenuamente condotta contro tutte le componenti narrative vede nella memoria l’avversario principale e forse qualcosa c’era da dimenticare, da seppellire, qualcosa che invece continuamente rinviene nelle maglie del racconto: la disattenzione, il disamore della persona amata: 

“Spogliare il percorso liberare i tanti passi dispersi e soste esultanti a mano a mano che vanno come chi non amando nessuno ama chi non c’è subire una sorta di affetto qualcuno che ti scopre sul suo cammino senza esserci vivere insieme sguardi inequivocabile  complici prospettive sguardo scomparso  amare minimo riamati al meno rinviati ad amori di percorso essere amati in una sosta passeggera, lasciarsi suggerire e proseguire”.

Che il testo s’intitoli “Biografia” ha qui il sapore di un’ulteriore sfida: e più che biografia parrebbe unico momento fondante, unica verità che si ripercuote su un’esistenza intera e la marchia a fuoco, brucia tutti gli altri fotogrammi, quelli relativi appunto a un’intera esistenza e ne diviene l’emblema incenerito: verità ineliminabile, unico fotogramma di un intero film in una moviola bloccata. 

La tecnica usata da Gabriella Drudi è una tecnica che frulla la sintassi e la ricompone. Sorta di collage, ma non casuale, perché i nessi presi a martellate sono ricostituiti secondo modalità che innescano spaesamento e ferrea consequenzialità insieme. Il lettore deve dapprima isolare il nucleo sintattico dotato di senso per comprendere dove inizia il successivo e poi rileggere. La Drudi, pertanto, costringe il lettore a un continua messa a fuoco, stasi e ripartenza, continuamente innescata e che mai giunge a risoluzione. D’altronde, vere e proprie indicazioni meta-letterarie sono disseminate lungo il testo per non tentare il lettore con l’inutile ricerca di una storia e di un finale o semplicemente per esorcizzare entrambi:

“Mi devo raccontare più in fretta altrimenti la storia diventa evidente e contestabile. Nessun finale. Si vede dai giri e dai rigiri sulla pista”. L’intero testo è scandito-puntellato da lapidarie frasi isolate: “Se questo fu il racconto io non me ne rammento”, “Del tragitto e del traguardo il racconto fu scarno” e “ Il racconto rallenta insieme all’ora del tempo consunto”.

E certamente riconosciamo una diretta filiazione dalla prosa beckettiana, ma è qui un omaggio esplicito, in cui pare quasi che la biografia personale o del personaggio coincida con la memoria di Beckett:

“Così per me non insieme il tempo che non passa mai si sarà fermato ricomincio il calcolo saranno venti metri rasenta il recinto e dieci o giù di lì e già lì accoccolato le mani si accanisce ad aprire barattoli se crede che lo lasci alle pietre riverso sulla seggiola bianca senza un pretesto”.         

La memoria batte nella mente, la percuote con una mitragliata di immagini che costringono l’autrice a porre un ordine, a dettare una scansione, a effettuare una cernita, poiché non c’è solo una memoria volontaria:

“Nella memoria una qualche memoria tollerante in una memoria intorpidita fino all’acquiescenza c’è uno scambio di pietre con pecore ma il segnale rimane indeciso e se dico null’altro che nuvole la mia voce di allora mi smentisce coi suoi gridi le risa i tonfi dei piedi nudi sul piancito esultante. Per ingannare la memoria ci vuole un principio e un poi dopo. Fino alla fine quando la trama passa di mano”. 

Impossibile, pertanto, anche gabbare la memoria, poiché sarebbe necessaria una trama che ricostruisca a posteriori, con cui si possa manomettere il dato esistenziale. Si pensi qui anche  alla traslata scala della storia collettiva (che la Drudi ha affrontato nel suo “Beatrice Cenci” ). Proprio quella trama che così tenacemente si vuole tenere fuori. Nessuna trama se c’è un’unica verità che devia la realtà come un campo magnetico. E la memoria, non ingabbiata dal racconto, non può che ribatterla.  

In questo splendido breve testo, di appena quattro cartelle, la scrittura appare come una costellazione fittissima, talmente fitta da valere per un’intera biblioteca. Il tempo, siamo certi, collassa solo in testi di tale altezza. 

Rosa Pierno

venerdì 9 settembre 2011

Walter Benjamin “Infanzia berlinese” Einaudi


Che un filosofo possa scrivere un’opera letteraria non è sorprendente. Lo è quando l’opera è un capolavoro: si pensi a un’opera per tutte: il “Simposio “di Platone. Anche “Infanzia berlinese” di Walter Benjamin è un’opera letteraria a pieno titolo. L’infanzia   a Berlino è il collante che tiene insieme i brevissimi paragrafi che si susseguono nel libro, i quali se presi uno per uno, così come si prenderebbero i singoli fiocchi di neve, si scioglierebbero fra le mani, per delicatezza e impalpabilità, pur dotati di disegno preciso: particolari e unici. Presi nella loro totalità, invece, si compattano in una sostanza che ha una proiezione eidetica fortissima: il rapporto col presente in funzione del futuro. Quasi uno sforzo di predizione in cui la mappa della realtà si configura come mappa indiziale, già grondante della conformazione che essa assumerà inevitabilmente nel futuro.     E, insieme,  contenente ciò che nel futuro è destinato a perdersi, a non essere più visibile. Si stagliano, su questo sfondo, i due temi che sono l’oggetto della narrazione: l’infanzia, e, più che Berlino - la quale è soltanto riconoscibile nella toponomastica e nelle atmosfere - la storia della Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. L’infanzia è uno stadio dell’essere umano in cui sono già presenti tutte le caratteristiche dell’individuo adulto: le percezioni vi hanno una chiarezza e una limpidezza esemplare. Se a questo si aggiunge l’incombente proiezione di tragici eventi  storici la cui bestialità è inaccettabile e incomprensibile, unicamente distruttivi di ogni principio morale, esistenziale e sociale, allora si riuscirà a comprendere quanto le percezioni dell’infanzia si leghino in Benjamin al disastro che ha cancellato l’infanzia stessa, in quanto ne ha anche spazzato via i segni sostituendoli con quelli di un abbagliante terrore. Benjamin ha voluto uscire prematuramente di scena, non resistendo a tale orrida visione. Non si può leggere il libro se non avendo sempre presente questo doppio taglio temporale, del presente in quanto ricordo eterno poiché stratificato nell’infanzia e del futuro che si sta avventando sull’adulto con la sua capacità distruttiva. Non ci può essere, infatti, più nessun punto di contatto fra il presente del bambino riattualizzato nella scrittura e il presente dell’adulto nel periodo storico in cui Benjamin ha vissuto.   E’ questo che rende non confrontabile “Infanzia berlinese” con “La ricerca del tempo perduto“ di Proust, di cui Benjamin è stato traduttore e di cui si avvertono i pur molteplici stimoli nella sua opera. Lo schiacciamento, il precipitare del tempo presente è talmente concreto che risulta innaturale pensare che il racconto sia collocato in un tempo remoto. Il tempo trascorso è definitivamente perduto. Se la madeleine proustiana rende il ricordo indistinguibile dalla realtà presente - passato che si sostituisce al presente tramite la memoria - l’epifania benjaminiana è già bruciata ai bordi, ingiallita nei colori, carica di elementi devianti che ne minano la vivibilità, la sostituzione perfetta col presente. Denunciano il futuro, avvisano che è sempre possibile leggere nella propria esistenza le linee che gli eventi seguiranno, quasi una predizione cassandriana che dovrebbe consentire di non accettare supinamente ciò che ci renderà così irrimediabilmente diversi.  Molti sono i punti in cui Walter Benjamin esplicita questi rapporti con il tempo; si pensi alla frase, bellissima: “L’orologio nel cortile della scuola sembrava danneggiato dalla mia colpa. Segnava “un ritardo””.  La prosa di Benjamin si snoda attraverso metafore che istituiscono la fisionomia dell’interiorità tramite la percezione dell’esterno: “un polveroso tetto di foglie sfiorava mille volte al giorno il muro della casa, lo strusciare dei rami fu per me un apprendistato di cui non ero all’altezza. Perché nel cortile tutto per me si tramutava in cenno”. Ove imprescindibile e non recidibile resta il rapporto tra ciò che si vede e riflessione, e se risalente all’infanzia, attesta il modo in cui il bambino ha costruito se stesso come uomo. In ogni paragrafo, tali metafore costituiscono  la chiave di lettura della relazione dell’adulto con i propri ricordi e della relazione che l’adulto può intrattenere con il bambino che è stato. Poiché l’adulto precipita allo stesso modo sul bambino, collassando insieme al tempo. La lettura di queste epifanie, in cui il bambino scopre il mondo insieme a se stesso, ci dà modo di meglio comprendere lo stile filosofico di Benjamin, ove le idee mai verranno separate dall’esperienza.

Rosa Pierno

mercoledì 7 settembre 2011

Paolo Terni “Giorgio Manganelli, ascoltatore maniacale“ Sellerio, 2001

Nel delizioso libretto, “Giorgio Manganelli, ascoltatore musicale“, pubblicato dalla casa editrice Sellerio (2001), Paolo Terni raccoglie i testi di quattro trasmissioni radiofoniche, ideate insieme a Manganelli, e ci consente di entrare nel vivo dell’esperienza di ascolto di uno fra i  più originali scrittori del Novecento italiano. La musica, nella cultura italiana già di per sé patente, soffre in maggior misura e le parole di Paolo Terni denunciano, inoltre, il confinamento della disciplina in ambiti chiusi e inaccessibili: vi è “la reale incapacità di far ascoltare, direttamente, il linguaggio della musica, il suo dire di per sé” anche da parte degli stessi “operatori culturali”. La volontà di abbattere questo muro creatosi intorno alla musica  conduce Terni all’ideazione di un ciclo di trasmissioni radiofoniche in cui uomini di cultura vengono invitati a parlare del loro rapporto con l’ascolto musicale.

Manganelli, “non un buon ascoltatore, ma un ascoltatore maniacale”, introduce immediatamente il rapporto fra strutture musicali e strutture letterarie: “Sono, è vero, un ascoltatore maniacale perché m’interessano alcune strutture, soluzioni, invenzioni che nella musica sono esplicite e che poi mi seguono in qualche modo quando io lavoro”. E specifica: “Uno che scrive ha in mente certe strutture che non sono necessariamente quelle tipiche dello scrivere. E per me molte volte sono le strutture della musica. Non solo di quella. Anche dell’architettura direi. Che sono due forme che in qualche modo nel mio cervello...”. E fa l’esempio della “variazione che in letteratura è cosi difficilmente, preziosamente trasferibile…”. Manganelli esprime la propria affascinata ammirazione per lo schema  geometrico che la variazione adopera (la sua intensità e feroce pulitezza della forma) in cui la continuità viene infinitamente moltiplicata, rispecchiata e diversificata: “è vano cercare forse in qualunque altra forma di espressione artistica” la medesima possibilità.   

Il rapporto tra musica  e letteratura è affrontato da Manganelli non come una semplice traduzione, ma come una forma mentis, ove la ricezione musicale funge da stimolo, pone un problema, così come nell’ascolto la conoscenza letteraria dà luogo a percezioni multiple, a  interpretazioni potenziate, le quali sono testimoniate dalle considerazioni che si svolgono intorno all’ascolto dei brani proposti da Manganelli (da Haydn a Mozart, da Schubert a Beethoven, da Stravinskij a Ives), con preziose considerazioni sulla musica da camera, sull’uso di stilemi popolari nella musica colta (Schubert e Mahler), sulla funzione del silenzio in musica e sul rapporto tra musica e parole in Verdi.

Altro punto focale è quello dell’assenza di significato della musica, che ricorre più volte nella conversazione svoltasi tra Terni e Manganelli. Quest’ultimo riprende il confronto con la letteratura: ”Lo scrittore ha il problema di scrivere adoperando qualche cosa che si può presentare e descrivere come un significato e deve contemporaneamente liberarsi dal significato”. Problema che “nel caso del musicista, è completamente assente”. Infatti, è focale “il principio dell’assenza di significato  da cui il musicista non è esentato, ma da cui deve liberarsi!”. E ancora: “C’è un furore dell’astrazione che la letteratura brama”. Anche la citazione assume una funzione diversa in musica e in letteratura. Se in ambedue la citazione non perde la sua caratteristica di rimando, in letteratura essa assume importanza fondamentale, poiché ne conserva la mappa semantica, l’origine del contesto, mentre in musica “la citazione deve funzionare musicalmente in primo luogo”.

Come chiusa di questa nota di lettura, scelgo due frasi di Manganelli: “la coscienza di qual è la segnaletica dell’astratto è, in primo luogo, musicale “ e “Forma che non è mai così forma come in musica”. Queste due definizioni, a mio avviso, ci donano una diversa capacità di comprensione (una sorta di ampliamento d’orizzonte) quando riprendiamo la mai dismessa lettura dei testi manganelliani.

Rosa Pierno

domenica 4 settembre 2011

I quadri-scultura di Mats Bergquist

Quadri-scultura: non credo si possano definire diversamente le opere di Mats Bergquist, il quale parte da supporti lignei e con un procedimento laboriosissimo giunge a un oggetto volumetrico: le sue opere hanno superfici concave o convesse su cui la mano può – deve – scorrere per sentire la levigatezza che l’artista ha ottenuto attraverso i molteplici passaggi che sono vere e proprie vie esperienziali: sottilissimi strati materici con cui viene letteralmente costruita la consistenza fisica del quadro (colle, gesso, pigmenti, gesti abrasivi e tecnica ad encausto su legno e successivamente su tela) equivalenti a pellegrinaggi, gesti che consentono un’ascetica partecipazione per giungere all’essenza. Ancora una volta l’immanenza non è disgiunta dalla trascendenza, secondo l’indicazione di Walter Benjamin.     

Vi è totale assenza di segni, siano persino quelli che la stesura potrebbe lasciare sul pigmento. E’ per questo, osiamo dire, che l’opera subisce così tante stesure: si deve ottenere una superficie simile a quella degli smalti: sparita qualsiasi possibilità di recepire la traccia di uno degli stati precedenti, la sublimazione sarà allora un processo in cui sono sparite le fasi costruttive, lo sforzo fisico e mentale, le tracce del lavoro necessario per giungere all’aspetto finale. Sublimazione è salto di scala, è visione diversa, liberata, ma non dal fisico, non dai sensi. Accediamo a questa diversa esperienza mentale proprio attraverso essi. Il lavoro dell’artista sarà consistito nel trascendere i sensi, eliminando rozzezza e stati spuri.

Se il tempo è elemento coinvolto nell’ottenimento di una simile opera è anche vero che esso è considerato in maniera implicita: è strumento. E riteniamo che nel risultato finale non sia elemento percepibile in maniera primaria. Non così per lo spazio. Si pensi alle opere realizzate tramite una disposizione/dispersione spaziale. Esse sono collocate sulla parete: i singoli elementi colloquiano fra di loro a comporre la totalità dell’opera e questo parteggia per una netta divisione delle categorie spaziali e temporali. Lo spazio  assume, attraverso la collocazione di queste opere/frammento il valore di uno spaesamento/ricongiunzione. I frammenti-opera si ricongiungono anzi, solo nella spazialità. E’ nello spazio che si ha l’unificazione, che si giunge alla totalità.  Segno che l’ascesi si spazializza ma dissolve il tempo, lo volatilizza. Anche lo spazio, comunque, avrà perduto i segni che lo particolarizzano, la parete in cui sono collocati gli elementi non sarà più riconosciuta come parete specifica.

E’ in questo senso che il lavoro di Mats Bergquist si avvale delle denotazioni  di equilibrio e di peso, delle relazioni di moto simmetrico, degli accenni di rotazione, in una vera e propria collezione di relazioni spaziali, ove il colore (monocromie, bicromie, tricromie) partecipa alla determinazione di equilibri, forze e moti (con il colore vengono create croci che ritagliano quadrati e rettangoli). Qui ritorniamo al concetto di quadro-scultura da cui eravamo partiti.  Le opere di Bergquist, pur avendo come immediato riferimento visivo l’opera di Piet Mondrian, di Theo van Doesburg, di Kazimir Malevic si pongono in singolare posizione poiché l’astrazione in loro non è la medesima che in Bergquist. Le opere di quest’ultimo afferiscono all’arte astratta, la quale si esprime esclusivamente attraverso rapporti, tuttavia esse esprimono non solo rapporti tra gli elementi plastici (linee, piani, volumi, colori), ma anche un rapporto con l’esperienza in metafisica, ovvero sono un  sistema complessivo di oggetti già essenzialmente gnoseologici.

                                                                                                  Rosa Pierno

giovedì 1 settembre 2011

Giorgio Agamben “Ninfe” Bollati Boringhieri 2007

Nella complessa ricognizione effettuata da Giorgio Agamben nel suo breve quanto intenso saggio “Ninfe”, il punto focale dell’indagine riguarda non il mito, ma l’immagine e le modalità in cui l’immagine può raccontare una storia.  Agamben analizza il video di Bill Viola “Passion” in cui i personaggi apparentemente immobili, compiono invece impercettibili movimenti e, muovendosi, si caricano di tempo. I video di Viola “non inseriscono le immagini nel tempo, ma il tempo nelle immagini” e questo determina la possibilità della loro trasformazione nel tempo. Esse vivono in noi e assumono nuovi significati. Ma vi è un particolare modo in cui esse si caricano di senso: trascorrendo in un stato interstiziale: passaggio fra due istanti precisi. Agamben richiama un testo di Domenico, coreografo e maestro di danza alla corte degli Sforza di Milano e a quella dei Gonzaga a Ferrara, poiché nel suo testo è presente una particolare definizione di fantasma: “un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica”.  Memoria ed energia dinamica insieme.

Ed è attraverso questo elemento, “fantasmata”, che Agamben si riallaccia alle riflessioni compiute da Aby Warburg sul tema delle ninfe e della sua trasformazione nei secoli: “dalla portatrice d’acqua di Raffaello fino alla contadina toscana fotografata da Warburg a Settignano”, ribadendo che sarebbe un errore andare in cerca dell’originale o dell’archetipo rispetto al quale si debbano  cercare invarianze: “La Ninfa è un indiscernibile di originarietà e di ripetizione, di forma e materia”. Ove il tempo ha una funzione essenziale poiché la sua forma è ”indiscernibile dal suo divenire”. Le ricerche di Warburg, che sono contemporanee alla nascita del cinema, e hanno in comune con esso “il problema della rappresentazione del movimento inerente alla persistenza nella retina che coinvolge la memoria delle immagini, individuano anche il tema della “sopravvivenza” relativa a quella “vita delle immagini”, della quale si rintraccia la persistenza nel corso dei secoli e nei luoghi più impensati (gli dei pagani, nei quadri cristiani, ad esempio). La loro sopravvivenza non è, pertanto, “un dato, ma richiede un’operazione di tipo interpretativo, la cui effettuazione è compito del soggetto storico”.  

L’aggancio con la teoria elaborata da Benjamin nel libro sui “Passaggi parigini” è offerta dalle “immagini dialettiche” e per Agamben è chiaramente connaturata al discorso fin qui condotto, poiché: “l’immagine è dialettica in situazione di stallo”, soglia cioè fra l’immobilità e il movimento nella “pausa carica di tensione tra di essi. Adorno riprenderà il concetto di “immagine dialettica” formulato da Benjamin: “Estinguendosi nelle cose il valore d’uso, le cose, estraniate, sono svuotate e in quanto cifre simboliche, attirano significati”. Dove, cioè, “il senso si sospende, là appare un’immagine dialettica” e  “in un’oscillazione irrisolta fra un’estraneazione e un nuovo evento di senso”. Il meccanismo non è logico, ma analogico e i due termini non sono composti in unità, ma rimangono “in una coesistenza immobile  e carica di tensioni”. Agamben ritorna a Warburg e al suo modo di confrontarsi con le immagini, ricevute attraverso una memoria storica. E’ pertanto nell’incontro con un individuo vivente che le immagini possono riacquistare polarità e vita. L’obiettivo di questo incontro non è dare fissità all’immagine. L’atlante è, in questo senso, “una sorta di stazione di depolarizzazione e ripolarizzazione” , in cui “le immagini del passato, che hanno perduto il loro significato e sopravvivono come incubi o spettri, sono tenute in sospeso nella penombra in cui il soggetto  storico, fra il sonno e la veglia, si confronta con esse per restituire loro vita – ma anche, per destarsi eventualmente da esse”.

Agamben rifocalizza la propria attenzione sulla ninfa che era oggetto di conversazione nella corrispondenza tra Warburg e Joelle e puntualizza come a entrambi fosse nota anche la teoria del Paracelso: quel ramo esoterico che la designa come oggetto per eccellenza della passione amorosa. Ninfe come spiriti elementari che non hanno anima “e non sono quindi né uomini né animali (in quanto posseggono ragione e linguaggio), e nemmeno propriamente spiriti (in quanto hanno un corpo)”. Tuttavia, le ninfe possono ricevere un’anima unendosi con un uomo e generando un figlio (da qui il loro legame con il regno di Venere). Le ninfe sono dunque una sorta  di imago dell’uomo, come l’uomo è immagine di Dio. Il concetto della ninfa come oggetto d’amore sarà ripreso da Dante e da Boccaccio, (per un approfondimento della questione letteraria in Dante e Boccaccio si rinvia alla raccolta di saggi “Categorie italiane” di Agamben), ma mentre per Dante “l’oggetto dell’amore rappresenta il punto in cui l’immagine comunica con l’intelletto, in Boccaccio è il rapporto tra vita e poesia”. Boccaccio è anche colui che “apre una cesura insanabile fra  le Muse e le donne da cui consegue “la cesura tra realtà e immaginazione. Attraverso tale frattura penetrerà il flusso farsesco della letteratura. L’immaginazione, scoperta della filosofia medioevale, si situa “al limite fra corporeo e incorporeo, individuale e comune, sensazione  e pensiero”, andando così a sottolineare l’esistenza di una zona di passaggio. L’amore stesso viene pensato come “amore di una imago, di un oggetto in qualche modo irreale, esposto come tale, al rischio dell’angoscia” e del mancamento. Le immagini sono il luogo dell’incessante mancare a se stesso dell’uomo. Per Warburg lavorare sulle immagini, infatti, voleva dire lavorare proprio sulle zone di confine, dove le immagini sono afferrate nella loro vita puramente storica, la quale coincide sempre con la storia dell’umanità.

                                                                                                    Rosa Pierno