domenica 24 giugno 2018

La scrittura a matita su volatili reperti: “I microgrammi” di Robert Walser



Un succulento libro/catalogo quello ordito in occasione della mostra, tenutasi nel 2015/2016, presso la Casa Croci Mendrisio, a cura di Antonio Rossi, con la collaborazione di Anna Fattori e di Simone Soldini, di parte dei “microgrammi” dello scrittore bernese Robert Walser: circa cinquecento piccoli fogli riempiti da una grafia minutissima al punto da risultare apparentemente illeggibile. È questa davvero un’occasione ghiotta e irripetibile per conoscere alcuni testi, ma soprattutto le modalità dello strabiliante progetto a cui Walser si è dedicato negli ultimi anni della sua vita (1924-1933). Non senza però dimenticare i due studiosi Bernhard Echte e Werner Morlang, i quali per anni hanno lavorato con acribia su questi testi, curando la prima edizione dei Microgrammi in 6 voll. uscita negli anni 1985-2000 con il titolo “Dal territorio alla matita”, e gli studiosi del Robert Walser-Zentrum di Berna, la cui collaborazione si è mostrata preziosa.


Scrivere è un’azione già di per sé pregna di connotazioni: grafia, traccia, orma, segno. Quasi pare che il significato, il senso sia un elemento secondario, se si segue soltanto  l’atto estetico.  Viene in mente la scrittura araba che decora i monumenti. Walser edifica  un’opera monumentale, non solo per l’assiduità con la quale persegue il suo intento scritturale, ma anche per la piccolezza dei riquadri di carta sui quali scrive (biglietti di tram, frontespizi di libri, buste). Ogni piccolo frammento è da utilizzare pur di scrivere. Scrivere per scrivere, è l’impegno d’una vita.


Ora l’aspetto estetico è ciò che giustamente è stato messo in rilievo presso la Casa Croci Mendrisio che ha inteso attestare la doppia valenza di tale scrittura. Prima ancora di andare a verificare quale sia il contenuto, il curatore, Antonio Rossi, si è mosso per evidenziare la specifica qualità estetica di tali manufatti: precari, occasionali, ma dominati da una volontà autonomamente artistica. La mostra è soprattutto il racconto di una scrittura condotta con la matita, utensile di per sé precario, che ha il potere di spostare il peso dell’attenzione nel campo grafico. 


Scrivere è lasciare una traccia visiva, scolpire, cercare metodicamente la regolarità in una  porzione di carta risibile. Tale scrittura richiede un ulteriore passaggio per essere messa in bella copia, essere corretta al fine di giungere alla stesura finale: è infatti importante dire che una parte (all’incirca un terzo) dei Microgrammi è stata ricopiata e corretta dallo stesso Walser per la pubblicazione. Il primo stadio dunque pretende valenza autonoma, non di bozza, poiché non è riducibile al testo in bella copia, essendo qualcosa di diverso: immagine!


I fogli, mostrano una scrittura miniaturizzata, che quindi tiene conto della ridotta piccolezza del supporto, anzi si adatta ad essa. A partire dalla posizione iniziale raggiunge il bordo per poi dipartirsi con altra direzione (sempre ortogonale) per rinnovare il proprio rapporto spaziale col lacerto di carta. A volte, tale calligrafia è inframmezzata da lettere maiuscole, esattamente come accade nei manoscritti medioevali, oppure percorsa da segni a onda, sempre tutti rigorosamente eseguiti a matita. Altre volte, lettere più grandi si accampano sulla scrittura che diviene sottofondo.


Il catalogo/libro contiene  la traduzione dei fogli fotografati: lavoro arduo svolto da Antonio Rossi e da Anna Fattori. Difficilissimo individuare le parole, eppure quello che  emerge sono racconti brevissimi, porzioni di narrazioni del tutto coerenti e imperdibili.


La sua scrittura, irrorata da una lucidità che non riesce a perdere smalto pur nell’assoluta ingenuità del sentire, resta la cifra altissima di uno dei maggiori autori del Novecento. Walser è uno scrittore che non ha perso l’infanzia, anzi ne ha fatto l’unico regno dell’esistenza. Reclamando, inoltre, un pensiero, che per essere beatamente nullo, non per questo è meno sostanzioso e importante: “Alcuni bambini mostrano una sbadataggine sorprendente che sfocia nella noncuranza. Non sono simili ai pensieri, coloro che non pensano a nulla e che sono in sé del tutto spensierati? Il pensiero in sé non pensa a nulla, è semplicemente il pensato, non il pensante, è una capacità da cui deduco che un bambino è in qualche modo una certezza”.


Un altro tra i temi di questa incredibile collezione è quello dell’amore per i libri, per la cultura, per la lettura. Vivere nei libri consente al non “inscrivibile” Walser di avere un suo mondo, che non si consuma, finché può avere ancora matita e carta. Sogni, tralicci di dialoghi immaginari, favole per adulti si impilano formando una magnifica stalattite di fogli. Non è questo il mondo?


Il contenuto viene qui costretto a lasciare il trono. Dalle righe può in tal modo rifiorire la stilla di un sentimento estatico. Non sarà giammai l’aderenza con il reale a insediarsi, ma l’assoluta estraneità ad esso, condotto però con mano complice e celestiale. 


Azzardiamo che solo la consapevolezza della non-coincidenza del sé con la realtà e con gli altri è il vero teatro della scrittura di Robert Walser. Se la natura non riconosce l’individuo, anche gli altri, però, non lo riconoscono. Le porzioni scritturali disegnano a nostro avviso la solitudine di un individuo che comprende e che non è compreso e che si consola con ironica filosofia: “I giovani a volte desiderano essere già vecchi, i vecchi di nuovi giovani, tuttavia ognuno deve accettare ciò che gli è dato di essere”. Ciò non intacca il suo meraviglioso rapporto con le entità estranee. C’è del meraviglioso in questa attitudine e la si può scoprire nel libro  I microgrammi, anche solo con gli occhi.


Uno dei rari esempi di assoluta intrinseca adesione, di inseparabilità tra scrittura e  disegno. Quasi che il disegno fosse già indice di una non oltrepassabilità della scrittura rispetto al suo significato semantico, al modo stesso in cui il soggetto non può entrare nel reale.


                                                                                                                             Rosa Pierno




lunedì 11 giugno 2018

Lucia Papaleo: lo spazio nei libri di Maurizio Cucchi




I testi di Maurizio Cucchi descrivono spazi, luoghi interiori, che trovano nella casa la perfetta rappresentazione.
Che la casa sia un topos psichico importante nella produzione poetica di Maurizio Cucchi appare già nell’epigrafe: 
“Anche la mucca ha il suo principio d’interiorità. Esige una casa, l’ambiente modesto e segreto dove l’inconscio vive” (Il diritto di sognare, Gaston Bachelard).
Lo spazio della casa è anche nei testi di Cucchi: 
La mia memoria infatti è una cantina
e nell’umido dei suoi muri marci
sgretolati, sento l’impronta strana invisibile dei defunti delle loro mani
come nei sordidi recessi nascosti
albergano funghi, mucillagini e insetti,
topi che guizzano e acute muffe
” (Malaspina)
È la poetica dello spazio, che va “dal soffitto alla cantina” (ancora da Bachelard, La poetica dello spazio), a rappresentare lo scambio dentro-fuori, il dialogo tra gli oggetti presenti nell’ambiente che in cui siamo cresciuti e ciò che si è stratificato dentro come effetto graduale di quel dialogo.
Uno spazio che si percorre verso l’alto e verso il basso, ma è nel piano che si riconosce la verticalità e ci è permesso di orientarci, di stabilire dov’è la soffitta e dov’è la cantina.
Il piano è lo spazio geografico nel quale Maurizio Cucchi si muove e da cui prende avvio il suo scrivere, coi piedi ben saldi nel presente:
perché solo il presente contiene
tutto quello che è stato
ma il presente sospeso, la luce,
questo blocco di terra pressato
(Malaspina)
Un blocco di terra pressato, che quando è rimosso dalle macchine movimento terra (un altro titolo di Cucchi in Malaspina) scopre tutto il brulicare di vita che lo compone.
La poesia corre sull’asse temporale nelle due direzioni e lega tutti gli elementi che la compongono a partire da Il Disperso, sua prima opera poetica, fino a culminare in Vite pulviscolari e Malaspina.
Il disperso è una poesia per accumulo, come scriveva Giovanni Raboni nella quarta di copertina. Ma nelle ultime opere di Cucchi, gli elementi “pulviscolari” trovano la loro compiutezza di oggetto intero che può trasformare il sepolto passato in vivida esperienza di relazione col mondo.
La ricerca che l’io tenta di fare, rivolgendo lo sguardo verso il proprio stesso fondo divorante, se è questo che si intende per passato, distoglie però dal destino. 
Meglio allora volgere gli occhi fuori, uscendo dall’intimo lavorio, per scorgere, tramite il nostro stesso destino, che non ne avremo uno diverso da quello che ci è dato conoscere. Compito dell’uomo è rintracciarlo.
Nel “fuori” Maurizio Cucchi ricerca - insieme alla destinazione - quegli antenati che hanno lasciato tracce persino nei suoi gesti, ad esempio quelli di sua madre (ti ritrovo ogni giorno di più nei miei gesti), di sua nonna (e se il dolore/a volte mi confonde credimi/non ho mancato la mia vita); risalendo fino a Ovruch in Polonia, da cui i suoi antenati, gli Ittar - architetti del barocco siciliano (Se fosse vero/che ti somiglio?io?) - partirono per arrivare in Sicilia, non immaginando il vuoto radioattivo che avrebbe cancellato nel tempo a venire quella loro terra, vicina a Pryp’jat, vicina a Chernobyl. 
Sottraendosi a questo futuro devastante, per spostarsi a ovest, restituiscono lo sconquasso nel movimento concitato del barocco, fatto di pietra che assorbe luce e calore da togliere il fiato. 
Tracce della madre anche nei sogni (se mi sogno, mi sogno col tuo viso) e questa è materia che scalfisce la superficie fino a renderla porosa; porosa, una parola che sta nel cuore e nel vocabolario di Cucchi poiché sembra avere la capacità di trattenere l’orma del passaggio, rendendo consapevoli che quell’orma deve essere un inno al mondo attuale.
Un mondo che si costruisce dunque anche dalle scorie rimaste dal paesaggio dell’umanità, che il poeta recupera e trasforma; la poesia è nel ritorno, sostiene Milo De Angelis: “tutto nella commozione assoluta del ritorno, si deposita in noi e attende di essere nominato”
Ritorno che non è nostalgia del passato o ricerca delle origini del trauma, ma un futuro aperto, che quando trova la sua nominazione è già presente, ed è via per uscire dall’io estremo, enorme e divorante, consentendo una tregua con sé stessi, di sperimentare la pace all’interno dell’armonia dell’universo.
Questo, forse il senso del ritorno, un andare a rintracciare il tema musicale dell’inizio che si sviluppa in nuove tonalità armoniche. Alcuni versi di Cucchi percorrono questo filo temporale a ritroso partendo da un tempo verbale futuro per rivolgersi al passato, come l’Angelus novus di Klee.
Presto saremo tu e io senza ormai tempo
La poesia quando non può salvare la vita, la trasforma: il poeta esce da se stesso, offrendo i suoi versi affinché ciascuno trovi ciò che cerca e il lettore scopra in sé ciò che vive e non sa nominare.

                                                                          Lucia Papaleo


Le poesie sono tutte tratte da  Maurizio Cucchi, Poesie 1963-2015, Oscar Mondadori 2016.