venerdì 21 dicembre 2018

Bruno Di Pietro “Colpa del mare e altri poemetti” Òèdipus, 2018




Profondamente immerso nella cultura classica, Bruno Di Pietro, di cui qui si presenta la raccolta antologica dei procedenti suoi libri editi, “Colpa del mare e altri poemetti” Òèdipus, 2018, è poeta che fa risuonare nei suoi versi le antiche familiari voci, quelle filosofiche in primis, ove la parola viene forgiata sull’incudine esistenziale: alla prova dei ripetuti colpi, pare riemergere la visione filosofica eleatica ancor più temprata dal confronto con i fatti. Il divenire, la via del ritorno, e soprattutto quel dialogo fra ragione ed emozione che fa sfrigolare anche il metallo più tenace. E questi sono temi che si ritrovano nell’opera poetica, fin dagli esordi. Temi che agiscono in primo piano, ma che hanno sullo sfondo ben lunghe ombre, proiezioni antagoniste.

La natura è teatro, luogo senza il quale nulla si dà, e che incita, incute timore, riconduce all’ordine. Uno sfondamento nel proscenio ci rende avvertiti: di fronte a un mondo preordinato, che agisce senza curarsi di noi, fa riscontro un universo ‘altro’, parallelo, in cui bellezza regna; essa è un manto che avvolge le cose, ma che può anche scivolar via all’improvviso. Indicare che cosa sia la bellezza e che cosa produca in noi é forse l’insuperato intendimento di codesto splendido libro antologico, il quale si sottrae al compito di cercare fra le tante definizioni quelle giuste, facendole invece risuonare tutte insieme come noci in un sacco. Che la bellezza a tratti sgomenti, non provoca maggiore inquietudine dell’evidenza delle cose che non hanno significato, quelle ’”indigenti” parole “che hanno “poca confidenza con il vero”. Bellezza allora pare l’unico legame tra interno ed esterno e per questo arpiona tutto l’interesse del poeta. 

È l’occhio poetico che deforma ciò che è fisso, statico, e lo rende fluente, soggetto a desiderio, pur se pacata resta la voce autoriale, quasi avente uno scanzonato distacco. Lì, dove ragione non attecchisce, o quando sia troppo aderente alla superficie delle cose, fra questi due estremi lo spazio si ampia, si dilata, con il respiro del canto. Sonorissimi versi, in cui le rime ribattono proprio dove la ragione si distoglie, già consapevole dello scacco. Essi sono, in concreto, ancora uno dei metamorfismi con cui la bellezza ci seduce. Dalle stanche spoglie di un ordine creduto incistato nelle cose, tutto si volge, come per un contrordine in direzione avversa. Bellezza sembra il simbolo di quest’inversione, a tratti capricciosa, a tratti sfolgorante. Per tali vie si aprono nuovi assi di percorrenza, prospettive desuete perché “(il reale si ama se è segreto)”. Il nulla, quel nulla che non può mai essere immaginato, senza che vi si pongano pietruzze, occhi amati, utopie, cose concretissime, è ricondotto al tutto dell’attimo presente.

Proprio nella raccolta che dà il titolo all’antologia Colpa del mare, potenza del Dio, dell’uomo, dell’amore risiedono sulla stessa ruota: nomi diversi per un unico osservatore, che cerca equivalenze e punti in comune come leggendo figure della via Lattea. Proiettare ed essere proiettato: si può, non è progetto incompossibile. Pensiero e intuito collidono in un moto che non li estingue: come lembi estremi di cosa che roteando si confonde e prende forza. Forse bellezza è nelle connessioni fra le diverse attitudini della mente. Inseguendo il cosmo, Di Pietro ritrova l’amata e la propria mente.

II

Troppe stelle nel cielo e infiniti
numeri che l’abaco non basta.
Scolora quieto il tempo della notte
gonfio di aromi e spezie impasta
il vento libico le sabbie le vele
e spinge gole di nuovi coloni.
Tu greca portata fin qui dal mare
non guardare chi fa ricerche dotte
astrae chi studia il cerchio dal tuo seno.

Il fato sembra atto di deliberata scelta nel corto circuito fra incommensurabili grandezze e Di Pietro muove con leggiadria i battere e i levare di una materia favolosa. Imperterrita, la ricerca di spazi liberi da costrizioni dogmatiche s’impenna a ogni nuovo ostacolo.

VII

Io rifiuto la questione trita
per cui una cosa deve avere inizio.
Ti aspetto sul ciglio della vita
nel luogo dove non c’è giudizio
né perdita o profitto se le dita
indugiano ai capelli al vizio.
Ti aspetto ai margini nell’interstizio
nel vento inquieto della via d’uscita
dalla paura di cui sei l’indizio.

Tutto è inversione in tali leggiadre trame, il concetto si dissolve per tramutarsi in variegate trasparenti forme: ogni cosa trapassa in un’altra e il giudizio non vi è inficiato grazie a una visione superiore che riannoda il tutto in un rinnovato intreccio. Usciti che si sia dalle strettoie delle contrapposizione, i cui termini non si possono scambiare, si è entrati nel mondo delle parvenze, delle concretezze sensoriali che mutano come la luce. Usciti che si sia dalle cose che hanno “l’umida natura di prigioni”, ci attende un mondo di rebus, ma tutti dorati e sfavillanti:

X

Ma quale infìda ragnatela d’oro
convince api ubriache di dolcezza
a farsi poi partecipi del coro
di unanime condanna dell’ebbrezza.


Solo bellezza può evitare che si precipiti in una vuota cavea. Non c’è altro spazio percorribile se non quello appena indicato, Pena il ricadere, come accade nella raccolta Velieri in bottiglia,  nelle tormentate peregrinazioni di una mente che gioca a comporre una figura intera con le tessere provenienti da diverse scatole.
Amore è la maniglia a cui reggersi per volgere le spalle a un mondo arido e privo di sorprese, è il tema di Avari fiori. Pur anche quando sia quasi impoverito, svuotato,  estinto, allora, si computano le parole, gli sguardi: fotogrammi senza soluzione di continuità che scorrendo riescono ancora ad annullare il vuoto. E ciò accade quanto più amaro è il calcolo esistenziale: la voce è sempre calda e vischiosamente aderente alle cose, anzi, ancora più avvolgente con le umanissime note affettive, in una mai dismessa ricerca di empatia persino con l’insensato, cioè con l’aspetto delle cose non investite dalla passione.
Nella più prosciugata misura della poesia, nella sezione Iscrizioni, che si esaurisce in una sola terzina, Di Pietro lavora la materia in senso quasi lapidario.
Quando il desiderio non trascina l’immaginazione, nella raccolta Acque/Dotti, il reale mostra tutte le sue incongruenze, e il poeta del tutto onestamente ne effettua il regesto, quasi tracciasse un diario di bordo, capitano in attesa di nuovi venti che trascinino al largo il veliero. 
Il Fiore del Danubio inaugura una nuova fase nella poesia di Bruno Di Pietro, allorché il fascino di alcune personalità storiche o poetiche lo inducono ad assumerne l’identità in un “travestimento” che meglio serva a restituirne la complessità. Ma, come tutti i travestimenti, essi non sono che l’espressione di un ennesimo esercizio del sé. Tuttavia, l’innesco del tempo storico produce, un riavvicinamento più tollerante verso quella ragione che Di Pietro aveva voluto sempre volgere in immaginazione.

                                                                                              Rosa Pierno


venerdì 14 dicembre 2018

Ranieri Teti su Vito M. Bonito, fabula rasa. Oèdipus 2018





La veste editoriale ci consegna un’opera poetica che non contiene pre/postfazioni. Non è una novità per questa collana, “Croma K” curata da Ivan Schiavone, ma nel panorama della poesia contemporanea rimane un tratto da rimarcare, un’emancipazione.
Da evidenziare è l’uscita del nuovo libro di Vito M. Bonito, tre anni dopo “Soffiati via”.
Tre anni sono stati il tempo necessario per distillare queste parole cresciute intorno alla nascita della bambina bianca, che di fatto innerva tutto il testo. Da una genesi a un’estinzione, che avviene nel fumo, nella nebbia, nel fuoco “che solo m’affina”: una nuova vita sembra portare al termine una vita precedente, in un passaggio che la scrittura di Bonito racconta come un superiore atto d’amore. 
Questa fabula, nel suo narrato, rimuove stereotipi. Decolora l’innocenza. Osserva qualcosa che si muove sotto la superficie di un ipotetico giardino d’infanzia, descrive l’espandersi in questo terreno di una radice sotterranea, lo fa con le innumerevoli possibilità della poesia, dell’esperienza (“la felicità resta l’inganno supremo / il fondamento dell’usura”) e della conoscenza. 
La bambina bianca entra nel testo in corsivo, con un delicato “toc toc”, e collabora a una poesia che spesso diventa dialogica, nell’alternanza delle voci. 
Dal “buio del creato” nasce quest’opera complessa e caratterizzata, proprio perché così deve essere data l’idea generativa, dalla prevalenza di un versificare breve, da rime e assonanze che ci sono offerte dalla coppia padre-figlia, a tratti cantilenante. È come se via via, pagina dopo pagina, le dolcezze, la consapevolezza della perdita e del dolore (“la luce è perfetta / inizi il dolore”), compresi i ricordi più ilari - straordinario quello della lavatrice - fossero affidate al paterno, mentre le durezze fossero tutte caricate nelle parole del filiale: “padre ‘sto cazzo / caro papà”, oppure “per te / ho apparecchiato / l’inferno”, cui il genitore idealmente risponde qualche pagina più in là, alla fine, “o mia pèue ti temo / sei fata morgana / di una mente allo stremo”. Pèue, scrive Bonito nell’aletta, è il senhal della bambina bianca, il suo nome-suono prenatale, pregrammaticale.        
Lo sdoppiarsi dell’autore, in questa prova divisa in due voci così differenti per temi ma del tutto unitarie per stile e tono complessivo, tra “respiri e smarrimenti” produce effetti testuali inediti: il libro ridefinisce una parte centrale di mondo, la rinomina come prima non era stato fatto. 
Teneramente spietata, “fabula rasa” ha una grandezza che ammalia, che invita a ritornare sui testi.

                                                                           Ranieri Teti



giovedì 29 novembre 2018

Antonella Lucchini “Il femminino e la sua voce”, Il Seme Bianco, 2017




Interamente dedicato alla femminilità, la dianoia del libro di Antonella Lucchini, Il  femminino e la sua voce, si snoda con la portata di un fiume nelle sue diverse stagioni: ora straripante, ribollente di metafore barocche, ora flebile, quasi un esile tratteggio che richiama stilisticamente i dipinti messi in scena nell’haiku.
Tale scelta stilistica è strumentale alla restituzione dell’irruenza e della delicatezza delle manifestazioni della natura, le quali si riflettono, senza mediazioni, sulle percezioni: la Lucchini è specchio sensibilissimo di quest’alternanza continua, registrando sulla propria pelle, nelle ossa, la relazione con l’ambiente.
Il corpo femminile è sempre in dialogo con la natura, spesso si tratta di un incontro fisico vero e proprio: “Adesso che il rombo del vento / mi ha trapassata / da pelle a midollo”. Il sesso femminile sembra dunque avere una prossimità maggiore con la natura e inoltre poco ha a che fare con la cultura. Trapassa e trasuda direttamente dalla terra, rifluendo attraverso il corpo, l’energia vitale che la donna ha necessità di esprimere con virulenza, a tratti con aggressività. 
Siamo lontanissimi da un cliché di femminilità, vicinissimi al corpo che detta le sue regole alla ragione. Lontanissimi da chi non reagisce, da atteggiamenti passivi (e persino nella descrizione di scene in cui subisce violenza, la donna proclama ancora parte attiva, quasi un’impossibilita di non essere in ogni caso la protagonista). 
La donna è forza atavica e distruttiva, lenitiva e creatrice. Il pensiero stesso si modella sulla conformazione fisica: “lo scivolo del naso / incrocio e rottura dei fossi / che scendono dai vulcani degli occhi”. Una dichiarazione di potenza che non disarciona però gli aspetti di fragilità e di decadimento.
La morte non sfugge a quest’ordine: è al seguito delle pulsioni del corpo, è strumentale all’espressione più piena della vitalità. Bisogno, inconscio, sogno battono alle tempie e spingono all’esercizio del sé, fino all’ultimo respiro e senza tregua. Se esiste il pensiero del corpo, questa è la sua forma più concreta e sanguigna. La natura nella quale la Lucchini cerca sponde e riconoscimento identitario è quella stessa a cui la poetessa consente di avere senso.
La poetessa delinea una natura partorente e a sua volta partorita, senza soluzione di continuità. Alcune poesie presenti nella raccolta descrivono cicli stagionali, dove i mesi sono in relazione con il relativo raccolto, al modo in cui è affrescato il palazzo Schifanoia di Ferrara. Il limite della natura è anche la sua forza, la rigogliosa germinazione fa il paio con la possibilità di mettere al mondo bambini.
Trasformandosi in ‘radici’ e ‘larva’, Antonella Lucchini effettua una pressoché totale sovrapposizione, uno scambio simbolico tra il sé e la natura che è ragione stessa di accettazione del proprio sesso: movente e scopo senza scissione. 

*
Sei un albero scomposto
i rami fragili
innaturali.
Io ti giro intorno
folle
come un uccello spiaggiato,
stridula.
Restiamo opacizzati
sul vitreo umore dell'inverno
che ci fa cenno,
inerti,
tu spettrale
le braccia magre
pallide
io innocua,
voce senza peso.

*
Il viso è un territorio.
Lo spazio aereo della fronte
dove si levigano e si plasmano
le ore,
lo scivolo del naso
incrocio e rottura dei fossi
che scendono dai vulcani degli occhi.
Osserva
i picchi stondati delle guance,
ossa da appoggiare
e
a scendere
il magma
due lingue di carne piena
tatto gusto saliva
che riempie corpi
che svuota sessi.

*
Io non sono una vertigine.
L'aria si infila e si sfila
tra carne e pelle
senza peso
smuovendo i polmoni
leggeri.
Il petto è lieve
ospitale
per il suo pugno rosso.
Sono viva.
Sono sempre viva,
anche quando sono sulla soglia
ad aspettare la guerra

*
A falcate acute
trotta l'apocalisse del giorno.
Da quando caddi
e le mani divennero gambe,
al rombare sussultorio della sera
mi ripongo dentro le mie radici.
Lascio fuori solo un pezzo di pane
buono
perché si possa dire
ecco lo ha spezzato
si fa il miracolo
mentre lei torna larva.

*
Questo sciamare 
del vento
nitido
forsennato
s'incaglia 
alle mie escoriazioni
e le disarma.




domenica 18 novembre 2018

Gilberto Isella “La memoria delle forme” con quattro disegni di Giulia Napoleone, edito da Josef Weiss private press, 2018





Finanche l’osservazione di un albero è per Gilberto Isella azione a cui consegue un effetto prodigioso, poiché osservare è sempre già conoscere e per traslazione narrare. Il poeta enuclea gangli distanti, nella rete concettuale/emotiva, anche quando si avvicina per gradi del tutto generali alla pianta, di cui avverte l’alterità e a cui attribuisce qualità di soggetto. L’albero ha la “foglia pensante” ed emana chiarità e riflessi che si effondono nell’ambiente circostante. Ma tale ambiente è già inesorabilmente cambiato.

Le macchie sulla corteccia evocano la presenza di una pantera, quasi effigiata nella scorza lignea, un cameo, come di cosa che contenga altra cosa. La memoria ha una struttura tutta sua che non rispecchia l’ordine della realtà, è più vicina al sogno, ove le proiezioni nascono l’una dall’altra. Luogo alchemico ove le linee e i colori trasmutano la loro forma e sostanza. A Venezia tale trasformazione si diparte dal soggetto stesso: Venezia abita il corpo, picchiettato dai colpi di un piccione,  e lo deposita ai piedi di un leone. Qui il riecheggiamento, data l’effervescente vitalità dell’immagine della città lagunare, emerge quasi come una restituzione passiva del soggetto coinvolto. Per intanto, i grani di luce disseminati su un piano nero in una struttura ordinata geometricamente, all’interno dei disegni di Giulia Napoleone, procedono per variazioni di potenza: alcuni punti nella rete sono meno intensi o come sfocati da una polvere lucorosa di lontanissimi astri.

Non a lungo
in raggelati processori
stanzierà la storia segreta
di un platano

Scolatura liscia dell’estate,
chiarità, foglia pensante,
midollo ramoso che veglia
e infine si consuma
in chiazze a specchio
oltre la siepe

Libido antica, metamorfica
è la pianta sovrana
che avanza sottopelle
dove risuona
melodia strana di marimba

E sul tronco
la pantera rotonda
non più ampia della macchia
racchiusa nel suo artiglio

Trema una maglia di terra
in qualsiasi prodigio

La memoria ha il dovere di conservare, ma sempre all’interno della griglia spazio-temporale. Altrimenti ciò che si presenta di soprassalto, sovrapponendosi alla percezione attuale, non ha abbastanza potenza per opporvisi: le spezie nel suk dei Dardanelli non riescono a imporsi all’attuale odore degli sterpi. Dall’albero al viaggio: i frammenti, incongrui, si ricompongono in una visione saldissima per poi disperdersi un istante dopo.

La reminiscenza è, infatti, discontinua e come il caos fa emergere erbacce o gioielli. Persino la polvere, grazie al ricordo, può assurgere ad arazzo. Memoria rende il reale un regno meno arido e inospitale. Con mascheramenti, lucide illusioni, essa fa sorgere, dalla fanghiglia notturna, luminarie, persino cervi da un tappeto medioevale. Le immagini si formano sullo schermo mnemonico che ha raccattato  frammenti di immagini ovunque. Tali reperti sono una linfa vitale per l’uomo, il quale insegue contemporaneamente un continente calcolato matematicamente. La ragione non vuole mai mollare la presa, è innervata al linguaggio, pur anche quando le immagini espresse non siano unificabili.

Che relazione, d’altronde, esiste tra la matematica e la memoria, la dispensatrice d’immagine, è questione del tutto retorica. Entrambe ci paiono condividere la medesima qualità del cosmo, che si accende a intervalli solo in alcune zone, a volte creando una trama di rombi, come in uno degli splendidi disegni di Giulia Napoleone.

Si allunga il catalogo degli anni
e tu togli midollo alle forme
che sfilano accanto a te

Ignori che i bosoni sono biglie impazzite
sulla pista del nulla, salutate
a malapena da un capitano invisibile

Immagini che il tuo lenzuolo
sia un continente matematico
generatore di picchi, lagune, isole,
abissi, dove in sembianze mutevoli
per tenebra o luce
la fisionomia degli anni
si accampa

Quante volte l’hai sollevato?

A Sansilvestro ti capita di piangere,
indifeso, su quel fantastico
crudele
numero di volte

La scrittura poetica di Isella, assottiglia i propri strumenti per farsi artefice della paradossalità del linguaggio. La memoria offre sul piatto immagini, ma è il linguaggio che attesta - nell’opera poetica - di un avvenuto scambio. Non formale, nel senso che pertiene specificatamente all’immagine, ma semantico. Convocare la scienza al tavolo della poesia e far sedere entrambi i re sul medesimo scranno è impresa invero eroica!


                                                                            Rosa Pierno

sabato 10 novembre 2018

Marco Ercolani, dalla sezione “Cielo minore”, raccolta inedita





Le tre poesie inedite di Marco Ercolani, qui presentate, mostrano una particolare struttura che fa perno sulla negazione, sulla volontà di non ripetere la medesima azione, di non commettere lo stesso errore, sulla sostituzione. Può Ulisse decidere di cambiare il corso della sua narrazione? Eppure, deve poterlo fare proprio perché essa é già avvenuta, ed egli ha già visto i danni prodotti dalle precedenti scelte. La volontà diviene il punto di forza sul quale il pensiero può assumere la posizione avversa. Per far questo non deve, d’altronde, nemmeno cambiare la sua natura: come il polpo, infatti, che è l’animale metamorfico per eccellenza, simbolo stesso di Ulisse. Simbolo, cioè, di quell’intelligenza tutta pratica che ha fatto di lui un eroe unico nel suo genere, così come magistralmente analizzato da Vernant. Ecco in quale modo il ‘non’ si volge in un “profumo / di cose imminenti”.
Una poesia che presenta anche formulazioni di tipo imperativo: “Ma tu non scendere”. L’analogia con la struttura delle favole galvanizza la nostra memoria, ci avvisa che nella maggior parte dei casi le avvertenze non saranno tenute in conto. O forse è nell’ordine naturale delle cose contravvenire persino alle evidenze. La realtà si sgretola in mille frane, si replica e si rifrange su superfici riflettenti. Come può ritenersi fondante qualcosa che ha nella sua natura la mutevolezza? Come scorgerci finiti, con la moltitudine di domande inevase che accumuliamo e le cui eventuali risposte con collimano con le altre. Il finito esiste accanto all’indefinito e non c’è un superiore piano di unione.
Anche con la seconda poesia il sapore persistente è quello della favola. Situazioni paradigmatiche esotiche, lussureggianti, come le piume  ‘sgargianti’ dei pavoni in un pozzo. E l’ammonimento è quello di adeguarsi agli aspetti del visibile e della bellezza, rispettando ciò che esiste, accostandosi con rispetto a ciò che é diverso, fino all’assimilazione con l’apparente, come accertiamo nell’ultima delle tre poesie, in cui anche la presenza dell’uomo influisce comunque in un ambiente che era stato definito estraneo. La metamorfosi non ha limiti nel suo potere.


Sono e saranno sempre pietre, 
nonostante le circondi l’acqua. 
Ma questa volta non si addormenterà. 
Porterà in salvo i suoi compagni
Nessuna bonaccia a illuderlo, nessuna tempesta a tradirlo. 
Nessun Ciclope, nessuna Circe. 
Non si sveglierà 
per vederli annegati fra sassi e nave
dopo aver sognato che sarebbero approdati a Itaca 
con i venti propizi. 
Stanotte non dormirà. Stanotte 
li salverà uno per uno: 
sono ancora lì, giovani e vivi, accanto a lui. 
Poi ripartirà vecchio, morta Penelope, 
il remo appoggiato alla schiena, solo. 
Nella nuova terra quel remo sarà 
una pala con cui battere il grano,
non gabbiani e sirene,  
ma una piatta pala di legno,
nell’aria l’incomprensibile profumo 
di cose imminenti. 

**

Qui c’è un libro da ricucire.
Le pagine sfuggono, volano via.
Ma forse non sei tu il prescelto,
se non riesci a trovare l’architettura. 

I pavoni, in fondo al pozzo,
code verde smeraldo, piume sgargianti.
Ma tu non scendere, rispetta la bellezza.
Aspetta siano loro 
a lasciare il nero.

**

Un confine. Non sai
quale. Quella calma
assoluta. Alcune epigrafi. Rocce
da varcare.
E niente che ci sia modello,
niente che ci guardi.

Solo specchi.
E noi, nudi.

Non dovrebbe fermarsi la luce
ma venti felici si bloccano in stalattiti.

Noi siamo
quei nodi.