mercoledì 30 giugno 2021

Marco Furia su Angelo Andreotti, “tra parola e mondo”, Manni Editore, 2021

 



Poetici respiri


Angelo Andreotti con la sua ultima raccolta, intitolata “Tra parola e mondo”, presenta

sequenze in cui la poesia si propone quale linguaggio particolarmente adatto a mostrare lo stretto rapporto tra dire ed esistere.

Nel “Prologo”, con il verso


Le notti non dormono qui


l’autore rende esplicita con chiarezza la propensione all’immagine sorprendente, feconda nel suo non essere fine a sé medesima: l’enigma, quello vero, è ricco di fascino, certo.

Non mancano suggestive cadenze dai tratti quasi descrittivi:


“Cambia il peso del corpo, la notte.

Lo sprofonda tra le maglie del buio”

e

“Le stelle

                sono pietre in cui invisibile

l’infinito inciampa e si mostra

ebbro della misura dell’abisso”.


Angelo, insomma, presenta un mondo in cui i normali aspetti si fondono e si confondono con poetica naturalezza, un mondo che, davvero, può essere


“invisibile macchia di luce”.


Non a caso


“quali volti indicavi

in quella tua lingua segreta.”


è pronuncia in cui il finale punto fermo potrebbe anche essere interrogativo: la scrittura del Nostro è allusiva e nello stesso tempo precisa.

Una precisione mai assente nel corso dell’articolata raccolta eppure forse avvertita quale presenza che potrebbe venire improvvisamente meno: il linguaggio, qui, non è mai statico, non smette mai di chiedere di sé.

Si legge a pagina 32


“cerco il cielo per prendere il volo”


e, a pagina 87


“se anche ascolti il mio ascolto, curando

nel mio silenzio il senso del tuo dire”:


come ben si vede, Angelo, in maniera elegante, discreta ma ferma, invita a mai abbandonarsi, a rimanere sempre vigili, a considerarsi (se non lo si è già) poeti a propria volta.

La parola, qui, mostra appieno le sue valenze quando riesce ad accostarsi modificando: il desiderio espressivo del poeta viene soddisfatto coinvolgendo la diversità del lettore in specifiche, originali, sequenze.

Diversità, certo, poiché nulla è scontato:


“Davanti all’ignoto che incalza

usiamo parole filanti

per rammendare le nostre ragioni,

ma con la coda dell’occhio seguiamo

quella mano nel buio che c’insegue”.


Quella “mano nel buio” “c’insegue” ma anche ci potrebbe precedere in una dimensione idiomatica in cui le concezioni di spazio e tempo, attenuando la loro portata, consentono attimi d’ulteriore respiro: attimi d’intensa poesia.


                                                                                                          Marco Furia



Angelo Andreotti, “tra parola e mondo”, Manni Editore, San Cesario di Lecce, 2021, pp. 120, euro 14,00


 


 

mercoledì 9 giugno 2021

Dizionario critico dalla poesia italiana 1945-2020, a cura di Mario Fresa, Società Editrice Fiorentina, 2021

 


Il Dizionario critico dalla poesia italiana 1945-2020 è una cartografia della poesia italiana dal 1945 ad oggi. Ma la definizione non si attaglia al territorio metro per metro, nome per nome. Non è la mappa paradossale di Borges, per cui la cartografia è grande quanto lo stesso territorio. La metafora della cartografia   non è adeguata, inoltre, se si pensa alle opere come a qualcosa di fisso. Piuttosto si deve immaginare un territorio in movimento, le cui emersioni hanno confini incerti con affioramenti e sparizioni continue. Dunque, il Dizionario critico della poesia italiana non è un’opera che effettui un resoconto esaustivo, sebbene la parola Dizionario possa trarre in inganno: è certamente una raccolta in ordine alfabetico di poeti visti attraverso la lente dei critici. Aver vagliato duecentocinquanta poeti non può esaudire le occorrenze della poesia italiana nel periodo 1945-2020. È naturale che si sia operata una cernita. Essa non poteva essere effettuata predisponendo un canone, di cui oggi si sopporta malvolentieri l’assunzione, quanto determinata dalla stessa pluralità delle voci critiche, dalla singolare specola di ciascuna posizione. Infatti, porre la questione di un metodo che debba presiedere al resoconto critico equivale a formalizzare una questione errata, poiché qui non sono convocati due o tre i critici, bensì cinquantaquattro, affinché ciascuno schiudesse un precipuo angolo visuale sulla poesia. Il Dizionario critico, in codesto senso, si differenzia da un‘antologia in quanto non vuole produrre un unico cono prospettico, ma fornire un ventaglio quanto più ampio ed esaustivo della produzione poetica. Il volume diviene così esempio di possibilità valutative, di stili interpretativi, di modalità creative capaci di delineare un orizzonte rispetto al quale il lettore è in grado di costruire una personale valutazione sia delle opere poetiche sia delle produzioni critiche.


Ciascun critico ha indicato gli autori da lui ritenuti più vicini alla propria visione e le opere prese nel viluppo del proprio interesse o da riproporre attraverso una rinnovata disamina, indicando le proprie preferenze al di fuori di regole pseudo-scientifiche, che poco dicono sugli orientamenti che continuamente fluiscono e si rafforzano o dileguano, venendo a delineare in siffatto modo una configurazione mobile che non può, appunto, essere imbrigliata. In ciascun critico le scelte di stile e di linguaggio derivano direttamente dall’elaborazione di un metodo spesso non normativo, basato sull’esperienza, inteso a valutare sia le infrazioni rispetto ai metodi canonici sia gli aspetti devianti delle opere poetiche, colte nella loro interna mobilità. Il critico appare fortemente implicato a livello personale. Parlo di una critica coinvolta e coinvolgente, per niente accademica, ma rigorosa, in cui la mole di strumenti utilizzati per l’interpretazione, di approcci, di punti di osservazione e di temi critici valgono da soli a definire il Dizionario critico come uno degli strumenti in cui maggiormente si dispiega la molteplicità delle prospettive esegetiche. L’opera poetica s’incontra così con ciò che alimenta il suo commento. È una critica che non separa teoria da prassi, ma nasce dall’immediatezza sensibile di ciò che è anche fisicamente prossimo.


Le schede critiche, non collegate alla grandezza del poeta ma alla libertà del critico, non sono compilatorie o meramente biografiche, evidenziando una pervicace ricerca delle peculiarità del fare poetico. Anche se si conosce un poeta, pertanto, vale sempre la pena di effettuare la lettura della voce critica, poiché l’indagine fuoriesce dai prefissati binari di opere maggiormente specialistiche. Ancora ribadendo che non c’è una metodologia che debba essere esplicitata quando in un’opera critica ci sono cinquantaquattro critici, segnalo che a valere invece è la pezzatura che ciascun intervento disegna sul territorio, in quanto orienta il lettore verso le potenzialità espressive dei testi, anziché spegnerle.


Credo che sia benemerito colui che si carica delle responsabilità teoriche e comunicative di sostenere la necessità della presenza nella nostra esistenza della poesia e della critica. Se si dice da più parti che solo i poeti leggono la poesia e che la critica non viene letta da nessuno, allora tanto più meritorio deve apparire il progetto curato da Mario Fresa nel quale entrambe s’incontrano in una molteplicità di libere intersezioni. L’intento è di  spingere la barca della poesia verso acque navigabili per toglierla dalle secche sempre incombenti del disinteresse. Se il critico è spesso indeciso fra la scelta e la sospensione delle scelte, fra la decisione e l’incertezza, pure, resta il fatto che il Dizionario critico, prodotto storico, è dominato dalla riflessione così come dalle esigenze di un mobile presente. Di conseguenza, la lettura delle opere poetiche dà luogo a impreviste restituzioni, le quali tentano di rispondere a domande cogenti addensantesi sulle pozze della quotidianità alla stregua di miraggi, eppure persistenti. Fra gli obiettivi delle analisi, se vi è quello di stabilire definizioni qualitative, di riflettere sulle condizioni di esistenza e di valorizzazione dell’armamentario critico utilizzato, vi è anche quello di cogliere inveduti rilievi. Non dunque sintesi più alte o una medietà fra diverse posizioni, ma la visione viva del critico su un autore. Il soggetto critico coincide con la propria verità, producendo differenza. E soprattutto lo fa sullo sfondo di essenzialità e cronaca. Come afferma György Lukács in L’anima e le forme (Sugar, 1993) il punto di partenza di un sistema logico è “sempre arbitrario e la sua costruzione è solo in sé finita, mentre sotto la prospettiva della vita è una cosa relativa, una tra le tante possibilità” e ciò vuol dire che l’assoluto, l’univoco “è soltanto il concreto, il fenomeno individuale”.


Il punto di vista soggettivo implicato in una sfrigolante prova al cospetto della singolarità concreta della produzione poetica non ha come guida lo spirito sistematico o un quadro teorico preconfezionato. E dunque non può a questo punto essere elusa la vera natura del Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020, che è quella di tener fede a un compito capitale della critica: selezionare e giudicare i testi da un osservatorio personale e anche in qualche modo ossessivo, poiché l’arte non si esaurisce in un commento.

Un’operazione critica è sempre una mediazione tra un soggetto e un oggetto di conoscenza. Cosicché è normale che si produca una visione parziale. L’analisi letteraria è un intreccio non del tutto razionalizzabile di ragioni, conoscenze, interessi. L’augurio che rivolgo alla poesia è che si moltiplichino le postazioni di osservazione e scrutinio, qualsiasi forma esse assumano, dall’antologia al web, dalla rivista ai saggi critici, poiché ciascuna è preziosa e di nessuna si vorrebbe fare a meno. 

 

                                                                     Rosa Pierno

venerdì 4 giugno 2021

Gio Ferri “L’appartamento” editrice L’Aquilone, 1975


 


Il poemetto di Gio Ferri, L’appartamento, editrice L’Aquilone, 1975, presenta una versificazione battente, quasi evocante lo spazio claustrofobico dell’appartamento nel quale si muove un autore irretito da tutto ciò che la connotazione negativa dello spazio abitativo borghese trascina con sé. Ferri, però, antepone al suo testo la seguente citazione tratta da “Storia della civiltà borghese” di Eros Borgesman: <<... ne consegue che l’uomo borghese, grande o piccolo che sia, considera la propria casa il tempio del sano individualismo, della tranquilla coscienza e delle rimembranze, il luogo eletto dei sereni affetti, della continuità familiare e umana, insomma, del consorzio civile>>. Ciò fa sì che l’attenzione sia diretta non tanto verso la contrapposizione tra stato borghese e stato rivoluzionario, quanto verso la necessità di uno scandaglio dello stato umano in generale, pur se permane in sottofondo la relazione con la condizione occidentale e contemporanea. Intanto, l’estrattore in grado di polarizzare tutte le evenienze negative che il contenitore abitativo può elargire sembra essere l’età avanzata, stato naturale, ma anche stato culturale. Che le stanze siano quelle poetiche, tanto per rafforzare il legame diretto tra esistenza e cultura, o quelle delle meraviglie, quei gabinetti delle curiosità, che potevano esibire qualsiasi cosa, di fatto pare che ciò che queste stanze proprio non contengono sia la giovinezza, la quale si trova citata sempre alla fine di ogni sezione (la camera da letto, il bagno, il salotto, la cucina, il ripostiglio) come un altrove: “ – apri! apri! – nelle strade affollate e vere fanciulle / vive canzoni d’amore e rivolta”. 


L’infelicità misurata sugli umori e le deficienze del corpo definisce l’appartamento come un sudario: se da un lato la casa contiene ricordi, abitudini, reminiscenze familiari, rimembranze affettuose, dall’altro lato, è la macchina che stringe le sue pareti sul corpo, vero e proprio meccanismo mortale. A tal cagione, le speranze giovanili, ancora vagheggiate e desiderate, non influiscono sulla lucida visione del poeta, il quale registra meticolosamente il computo delle evenienze fisiologiche; esse costituiscono l’altro estremo della corda, che dà modo a Gio Ferri di fissare la misura rispetto alla quale far tracimare l’orrore. Il linguaggio poetico, cesellato all’uopo, utilizza un materiale lessicale duro, che ha il suono di un ferraglia al piede. È nota la proteiforme e poliedrica capacità poetica di Ferri, il quale, negli splendidi volumi appartenenti alla serie de L’assassinio del poeta, utilizza innumerevoli procedimenti poetici, che si spandono come all’apertura dell’otre di Eolo, mostrando l’intero armamentario delle forme poetiche. Utilizzate tutte, anche le più stridenti. La seriazione sinominica presente ne L’appartamento è, secondo Giorgio Bàrberi Squarotti che ha redatto la presentazione, “ricerca della maggiore quantità verbale nella direzione delle indicazioni del disgustoso, dell’osceno, del volgare del degradato, del repellente, ottenute per via fonosimbolica, piuttosto che come variazione effettivamente semantica”.


Va in ogni caso precisato che la complessità semantica del poemetto, imbastita su elementi contrapposti, è desumibile anche dalla contrapposizione dei tempi. Il viaggio nelle stanze – e in fondo anche l’età che avanza è un viaggio da affrontare e da sperimentare in tappe – non è un percorso che si affronti senza le valigie della memoria. Cosicché presente e passato appaiono inestricabili, assieme all’inevitabile futuro. Se la precisione lessicale è declinata senza pietà, congegnando il ritratto di un’esperienza disillusa, oramai priva dei piaceri della gioventù, ciò nonostante, il testo poetico mostra attaccamento e affetto anche verso la fase avanzata della vita. Forse leggere il poemetto al di fuori della logica oppositiva, tutta ideologica e politica degli anni nei quali fu scritto, può consentire una lettura meno rigida e maggiormente sfaccettata di questo breve capolavoro. Più che una critica alla società borghese, con L’appartamento, Ferri sembra voler entrare nella definizione edulcorata offerta in esergo solo al fine di mostrare l’estensione che invece si nasconde nelle sue pieghe. Non si sta parlando, naturalmente, di un maggior realismo, ma di una restituzione articolata. A tal riguardo, la critica di Ferri va, dunque, a colpire qualcosa che travalica la categoria sociale o politica e colpisce l’intero sistema culturale, quando si configuri tramite un’appiattita e supina aggettivazione: sano, tranquillo, sereno, per una cosa immonda come la vecchiaia. Dalla quale comunque non ci si separerebbe, poiché  è ancora vita. La contrapposizione viene fatta valere contro ciò che è consueto, abitudinario; dunque contro ciò che viene accettato acriticamente: qualsiasi categoria è insufficiente, quando si parla della condizione umana. E ciò riguarda anche la storia, il progresso, l’utopia, quando presentino una sola faccia, in maniera manichea. D’altronde, l’autore dell’opera, dalla quale sarebbe stata tratta la citazione in esergo non esiste. Eros Borgesman si appalesa come personaggio inventato da Gio Ferri che sembra far saltare la distanza tra gli estremi come se si trattasse di un elastico, riportando tutto al centro, nella matassa inestricabile dell’esistenza, da cui la poesia certamente non si fa abbindolare, né guidare.


Rosa Pierno





La camera da letto


Floreali agglutinamenti abortivi irripetibili se il sole

                     non traspare grumi di capelli

il pettine di plastica  e il sorriso di un  colore acroma-

                     tico si riprende

nei tlaspi grappolosi  di  maculose  bizzarrie  intonaci

                     rigonfianti tappezzerie parigine



ab immemorabili aberrazioni luminose in giornate ali-

                      turgiche e uliginose

sur  son  lit Laforgue  est seul prosté  come   en  sa

                      sépolture

certo!  chi  nega  l’ambivalenza  dei  rimpianti?





                                                         e i segni

                     delle lusinghe avviluppate

nelle sbarre contorte del dorsale e consumati i fili elet-

                      trici serpentini

voltarsi e rivoltarsi sul materasso  verrucoso  -  suvvia

                      Tecuciztecati gettati nel fuoco!

transumare  da un capo  all’altro  sperperata  titanoma-

                      chia in glutei avviliti

tauromachia meschina  svigoriti  poteri  dell’orgasmo

                      tra le gambe odorose

superpremiati supermarketalchi  allarmato dai  riflessi

                       allusivi 

dello specchio ossidato il muso  grufolante  alghe im-

                      poverite dai semi dispersi

necrofili  innocenti sottoinsù la mano tesa e  stanca al-

                      la ricerca

di capezzoli remoti e  dilatati  come  agorai di primor-

                      diali crateri

che acconcio sia disporre con  sagace  arte un  cuscino

                     è l’insegnamento di Ovidio

povero unicorno com’era felice alzando bramosamente-

                      te i sensi di Venus

golose  esplorazione tra desolate  montagne sacre spae-

                      sati avvallamenti 

insoddisfatte  sbavature e mugolii  tra piccole e  grandi 

                      labbra 

inesauste voragini dove tutto si sperde  nella  infedeltà 

                      della morte 

rigidità  insperate  glorificate  rivolte  ingiurie  sangui-

                      amanti vincidi coiti

putrefazione  passiva degli  infimi strati della società 

                     —  il << Manifesto >>

aristocratiche  contumacie piccoloborghesi  /  sottobe

                     stialproletarie

sono le ore passate frugando  cassetti vuoti  aperti al-

                     l’inesistenza





revival  di  scadenze  trascurate  intorbidite  dalle  me-

                    morie distratte 

a rincorrere i tarlati architravi faraonici  degli  armadi

                    smisurati

a vanificare — terattologiche elucubrazioni — l’auten-

                    ticità delle storie

cogliendo l’esoterica  accezione delle  depravazioni im-

                    potenti







quando tutti sanno — i sessi fuori

non sono mostri — e gruppi di fanciulle i volti lisci

e fieri dei loro fianchi scattanti.