mercoledì 10 aprile 2024

Michel Butor e Carlo Ossola “Conversazione sul tempo”, Pagine d’Arte, 2024

 


Michel Butor, scrittore, saggista, artista, è autore sorprendente e, difatti, alcuni appassionati, fra i quali gli editori Matteo Bianchi e Carolina Leite della casa editrice Pagine d’Arte, sono sempre all’opera per proporre al pubblico i suoi testi e i suoi libri d’artista, anche partecipando alla contemporanea esposizione Dialoghi fertili che si tiene al Porticato della Biblioteca Salita dei Frati di Lugano. Ecco, pertanto, la splendida occasione della pubblicazione dell’intervista che Carlo Ossola ha realizzato il 28 maggio 2011 a Saint-Émilion, nell’ambito del V “Festival Philosophia” sul tema del Tempo; intervista trascritta senza cambiare nemmeno una parola e nella quale Ossola porge le sue considerazioni, concedendo a Butor un respiro di taglio saggistico. Il tempo, a cui Butor ha dedicato un testo narrativo, L’impiego del tempo (Mondadori, 1960) viene affrontato nell’intervista da quattro angolazioni differenti, tutte ugualmente utili a restituire la complessità stratificata di un concetto a cui solo la consuetudine regala la linearità, che peraltro si può considerare un vestito dell’imperatore da evitare d’indossare, pena la perdita della nostra ricchezza esistenziale.

La scrittura gioca un ruolo chiave nella restituzione del groviglio temporale in cui la nostra psiche è immersa e lo fa sempre da una postazione spazio-temporale, grazie a slittamenti, sovrapposizioni, sconfinamenti, ritorni con i quali può sconfiggere i blocchi, le rigidità, le continue cesure, ristabilendo un flusso in cui si immettono più fluidi provenienti da diverse direzioni. È un movimento, quello scritturale, in cui, se si cerca costantemente di tenere distinto qualcosa per non farsi travolgere dall’onda traversa, si tenta anche di poter provare l’ebbrezza di un tempo indistricabile, dove passato e futuro appartengano alla medesima cronologia. Quest’ultima è come una percezione che mescola e rende distinguibile al tempo stesso, consentendo la formalizzazione di una scrittura capace di registrare i tempi come omogenei e promiscui al contempo. Senza escludere, trattandosi di scrittura, che anche il lettore, nel leggere, intervenga coi suoi tempi. Butor stesso, nel rileggersi, riscontra il non riconoscersi, il non riuscire a risalire al suo pensiero di allora, ma in fondo anche questo fa parte del tempo della propria persona: uguale e distinto in ogni momento. Vale qui la concezione agostiniana della contemporaneità di tutti i tempi, così come la riporta Butor: <<il passato è presente e il futuro è già presente, e il presente è già passato nel momento stesso in cui lo si dice e noi possiamo parlarne solo perché è anche futuro>>. La musica offre del tempo una rappresentazione può vicina alla nostra interiorità rispetto a quella del calendario, ossia una pluralità.

Una diversa lettura dei tempi è in atto anche nelle affascinanti ipotesi di Charles Fourier, per il quale non esiste un solo mondo, ma una pluralità di universi comunicanti; ciò ridà vita alle corrispondenze di matrice medioevale, ove <<l’universo e l’uomo sono omologhi>> e alla lettura vichiana, ove si narra <<la storia della società prendendo a modello la storia di un individuo>>. I mondi si trasformano l’uno nell’altro e le corrispondenze fanno percepire il tempo come aperto e chiuso in corrispondenza di alcune tappe esistenziali (ad esempio, la giovinezza e la senilità). Dunque, ancora tempi diversi, che chiedono di essere  sistematizzati in contesti più ampi e di non essere ridotti alla linearità. Quello che importa è non diventare passivi e riuscire a promuovere un’alleanza tra spazio e tempo che, fra l’altro, non coincide solo col tempo individuale, ma con il tempo di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno. Anche lo spazio, pertanto, ha bisogno di essere ogni volta riconsiderato, così come si legge in Descrizione di San Marco (Abscondita, 2003), dove Michel Butor infilza una catasta di secoli condensata in un unico monumento. La storia si manifesta, normalmente, nei suoi limiti circoscritti, mentre le sfugge, per oblio o ignoranza, la sua estensione. Pura illusione è, difatti, una storia narrata secondo un ordine cronologico: <<Se voglio descrivere fatti accaduti durante la giornata, ho l’impressione di rinviare costantemente a fatti anteriori o a progetti>>. Pertanto, sono le risonanze attraverso le reti temporali che dovremmo imparare a percepire. Infatti, anche ciò che non si è realizzato nella nostra esistenza ha diritto teoricamente a testimoniare la <<nostra propria verità>>.


Rosa Pierno


venerdì 22 marzo 2024

Marco Furia “Iconiche proposte”, I Libri dell’Arca, Joker, 2024

 


Vicino alle arti visive, in particolare al gruppo di Adriano Spatola di cui condivideva l’idea di “poesia totale”, Marco Furia, dunque, non sorprende con l’uscita del suo Iconiche proposte, I libri dell’Arca, Joker, 2024, un libro-catalogo che il poeta introduce con un interessantissimo intervento, chiarendo i propri intenti artistici. In questione è la differenza tra figurazione e astrazione; entrambe acquistano una particolare prospettiva in relazione a una realtà che non scompare mai, presenza ineludibile. Lo stesso Kandinskij la includeva attraverso le sensazioni e la memoria, pur avendo come obiettivo la realizzazione di una composizione astratta mediante le forme geometriche, le macchie e i colori. Sullo stesso binario si possono collocare le opere di Marco Furia in quanto le sue composizioni trovano e rinserrano il proprio ritmo con colori primari e rette che s’incrociano, oppure con grovigli di linee; opere brillanti, in senso letterale e non, ottenute tramite elaborazioni digitali. E se, come egli scrive, per quello che riguarda il rapporto fra realtà e rappresentazione, <<i due diversi stili, pur dissimili, conservino tratti comuni tanto che, in certi casi (mi riferisco, ad esempio, a certe opere di pittori surrealisti), i loro confini si presentano labili, frammentati>>, allora si conferma che l’opera, astratta o figurativa che sia, condivide una comune origine, il dato di realtà. Tale labilità, che indica una difficoltà nell’individuare la distanza tra realtà e rappresentazione, fa cadere l’accento, una volta che il dato di realtà sia accettato come dato di partenza, sull’elaborazione operata dal soggetto. Il soggetto è, non di meno, parola da doversi afferrare con le pinze, quando si tratta di Furia, appassionato studioso di Wittgenstein e come lui convinto che l’interiorità sia quanto si configura proprio a partire dai mezzi espressivi (linguaggio, musica, arti visive).


Furia indica che attualmente è in lui più forte la tendenza verso l’espressione visiva per la necessità di operare <<un distacco, per meglio cominciare a guardare/ fare in maniera più intensa>>. E si sottolinea, qui, che la parola è astratta, rispetto al “linguaggio” delle arti visive, e ciò vale anche quando si tratti di opere visive astratte, poiché esse offrono alla vista caratteristiche che astratte non sono (la costruzione delle linee di diverso spessore, il timbro del colore, i pesi della composizione, non sono traducibili nel verbale senza perdita).


Certamente, il passaggio da verbale a visivo non è rintracciabile se non tramite una serie di metafore. Lo stesso Furia vi si cimenta, additando la necessità di un’apertura <<già sperimentata con le forme verbali>>. Si ricorda brevissimamente la sua prosa originale, al limite dell’impersonale, che racconta di gesti minimali in cui il soggetto appare sagomarsi esclusivamente grazie a una sequenza di comportamenti. Una prosa che tende a una descrizione scevra di connotazioni, ma appunto, ove l’astrazione propria del linguaggio non può essere che una similitudine lanciata come una corda su un burrone al visivo; una metafora, d’altronde, particolarmente volatile. Resta la passione in Marco Furia per la rarefazione dei mezzi, la capacità di lavorare con pochi strumenti, quasi con un abaco di forme non altrimenti riducibili. Certamente, sono espressioni riconducibili entrambe a uno stesso autore/artista e, dunque, è possibile ravvisare nelle sue diverse formulazioni una congruenza, una medesima tendenza verso l’astrazione. Interessantissimo è pertanto leggere le prose o le poesie di Furia e osservarne le opere visive, tenendo in conto questa doppia capacità espressiva per cercare di fissare tangenze e prossimità.


                                                                                                  Rosa Pierno




lunedì 5 febbraio 2024

Angelo Lamberti, “Cose da nulla”, Gilgamesh Edizioni, collana La corte dei poeti, 2023, a cura di Carla Villagrossi.

 


Scegliere una posizione rispetto alle due frontiere del tutto e del nulla, quando il tutto è già perso, senza rimedio, e il nulla dilaga, livellando ogni cosa, è, indubbiamente, azione eroica. Ecco come definire l’azione poetica di Angelo Lamberti, nella silloge Cose da nulla, Gilgamesh Edizioni, collana La corte dei poeti, 2023. Il potere dell’immaginazione vi ha un ruolo egemone e certamente assicura la sopravvivenza in un  ambiente così ostile. Ma il suo ruolo è tutto mentale, o ha un reale potere operativo? Anch’essa, alla fine, sembra appartenere al nulla:


Il canto delle sirene


Dal messaggio rinvenuto 

in una bottiglia 

tra le acque del naufragio, 

la realtà smentisce la leggenda.


Rende a conoscenza 

che il canto incantatore 

delle sirene è un cantabile

diffuso in alto mare 

da un silenzio irreversibile.


Per quanto, l’immaginazione parrebbe recare con sé un peso a piombo che ne inficia l’uso a perdere e le consente di mantenere la coerenza dell’analisi. E Don Chisciotte ne è il simbolo. Potendo scambiare mulini a vento per giganti, l’immaginazione non fa che porre in essere un’illusione. Dà la stura alla fallacia e allo “sfacelo di un disguido”. A un  tutto che si svaluta nel niente. Però dà luogo anche a una compensazione, ove il vizio di essere prende il sopravvento. L’immaginazione sembra dispiegarsi proprio a partire dal nulla. È una conseguente risposta; eppure, mette in moto, è ciò che accade. Insopprimibile. E che importa se le sue costruzioni sono autentiche scenografie del sogno, irrealtà.

Come può esserci risarcimento in un continuo equivoco? «Sarà vortice di giallo sgomento / simile a un abbaglio di girasoli». Parrebbe addirittura che sia la disillusione a consentire all’immaginazione il suo ingresso sulla scena. Ribaltamento! Si giunge così a quel «Nulla di Niente / che è un prodigio del Tutto» di montaliana memoria. Il nulla sembrerebbe in agguato, solo se non si considerasse che compensazione e disguido assumono un identico valore.


Eppure, troppo facile l’equivalenza tra miraggio e fanghiglia, tra ciò che è fresco e ciò che appassisce! Qui, Lamberti è memore della donzelletta nel dì di festa. E ancora leopardiana è l’ossessione per il tema delle ricordanze, ove la nostalgia pare apporre una correzione al rapporto tutto/nulla, donando una valenza maggiore ai ricordi rispetto al calcolo disilluso operato sul reale. Ci si chiederebbe dove mai l’immaginazione estragga la sua imperterrita forza, nonostante la consapevolezza dell’inutilità della sua  applicazione. Non può essere solo a cagione di una sensibilità tesa e vibrante. Pur nella “disperanza”, essa non flette di una virgola dalla sua marcia. E Lamberti lascia pensare che a questo inarrestabile impeto si debba riconoscere un valore, si debba accogliere il suo diritto a trasmettersi: i ricordi di conseguenza assumono un ruolo guida, di testimonianza tra esistenze, tra diverse generazioni. Don Chisciotte non è mai stato solo, poiché replicato da tutti i suoi lettori.


Essere o non essere


Per eccesso di stratagemma 

è assorbito dal dilemma 

dell’essere o non essere, 

da non avvedersi del sipario 

che silenzioso cala sulla scena.


Come un sicario.


La morte, divenuta personaggio, assume inevitabilmente un viraggio spettacolarizzato, è buttata nella mischia. Sicché sembrerebbe che non mai a un poeta sia concesso, poiché scrivente, di credere alla verità del solo nulla o della sola morte. Non c’è verità nella scelta di uno soltanto degli estremi. Ben piantato, in mezzo alla pagine, il poeta non può che sperimentare la risibilità di una posizione estremista. Per Lamberti si tratta della strategia dello scorpione che offre qualcosa di non commensurabile alla posta in gioco, eppure il baratto, una volta realizzato, ha ragione di essa. Cosicché, persino Amleto, dopo aver soppesato l’essere e il non essere, così come “il riessere e il non riessere”, in quanto replica del già noto, ammette che “a valor di rinomanza / la realtà non vale la finzione”, ma, appunto, è per risiedere tra loro, tra altri autori, non per uscire dalla scena a braccetto con il solo tutto o il solo nulla. 

La silloge si snoda come una riflessione scandita da intervalli, toccando i libri di Kafka, di Cioran, di Shakespeare, di Cervantes, del Vangelo e pur anche il mito, fino a cercare la “nudità del muro” e gli “spazi dell’afasia”. A tratti la presenza della rima addolcisce la durezza dello scontro tra verità opposte. Allitterazioni le danno sostegno e impongono il lato faceto della versificazione: «Sarà un tentativo di fuga / con ali di cera / dal labirinto invaso / delle ombre della sera». Come del tutto ironico è il confronto con l’idea di Dio, già escluso da un dialogo paritario, assieme alla morte e al futuro, sebbene Lamberti sia navigato autore di teatro e perciò avvezzo alla difficile arte del dialogo. A questi mezzi personaggi, che non danno risposte, che si sottraggono, come si sottrae il nulla, sono dedicate le poesie di Lamberti, costruite tramite un’eccedenza di risposte da parte del solo interrogante. 

La poesia è un valore, se da essa si ricavano risposte, anche parziali, ma concrete. Che mai potrebbe restare di queste povere cose silenti, per colui che ha dalla sua l’immaginazione, che ha lo straordinario ruolo di dover affrontare il male? Saper vivere è un atto poetico.

                                                                       Rosa Pierno


venerdì 12 gennaio 2024

Carla Villagrossi su “Via Trieste” di Ombretta Costanzo, liberedizioni, 2023

 


Ricordare per conoscere


Via Trieste di Ombretta Costanzo  (liberedizioni, 2023), si delinea come una finestra sulla narrativa contemporanea utilizzando il metodo autobiografico del reconnecter, ovvero del riconnettere l’essere narrante a un periodo della propria vita, in questo caso la pre-adolescenza. Il lettore è guidato dallo sguardo fresco e sveglio di Nerina Sanfelici che presenta il suo punto di vista “in soggettiva”. Il racconto è come un visore ottico che, attraverso l’identità familiare, incrocia il campo aperto del sociale e del collettivo. Quello scelto dall'autrice è un criterio autobiografico riconducibile alla memoria consapevole del ricordo visto come esperienza del conoscere, una pratica che si integra con l’universo emotivo-affettivo per stabilizzare gli eventi a distanza nel tempo. Il processo ricostruttivo del proprio passato è così il frutto di una coscienza autonoetica che accompagna l’atto del ricordare alla consapevolezza di sé. Il ricordo emotivo sembra avere una connotazione positiva o negativa in base all’immagine che l’autrice attribuisce all’evento rammentato, non solo all’interno di questo, ma anche rispetto al momento in cui quel ricordo ha preso forma e a quello in cui viene rievocato.

Attraverso questo vaglio passano i ricordi di Nerina e della sua famiglia, della scuola, del portone d’ingresso, della sua casa di via Trieste a Brescia, dei fratelli e sorelle, della madre, del padre, della piazza, del castello, del cortile. Si tratta di una somma di anatomie interpretative che gli eventi, ormai lontani, stanno suscitando nel tempo della rievocazione.

La famiglia Sanfelice, con la considerevole presenza di otto fratelli, non può che essere complessa e caotica da gestire e da vivere. Al riguardo la piccola Ornella detta Pupa utilizza una efficace storpiatura linguistica: «Questa famiglia è molto pesante e si importunano troppe ingiustizie…». L’esistenza nella città lombarda è collocata in quel Novecento che ancor oggi chiede di essere indagato e riconsiderato, perché molto del nostro “adesso” ha radici in quella realtà storica. È attivo, nelle maglie del racconto, un neorealismo fatto di voci, di quartieri, di valori consumati, di contraddizioni tra sacrifico e benessere. Sono gli anni del miracolo economico, del grande ottimismo, ma anche delle disparità sociali quelli che regolano la vita della famiglia Sanfelice, privilegiata perché il capofamiglia ha un lavoro importante, ma soggetta alle ristrettezze imposte dalle lacune finanziarie aperte dal secondo dopoguerra.  

Come in un mosaico si compongono i vari episodi di vita tra i quali emergono fantasie e pensieri immaginifici, tracciati nell’ordito del quotidiano, ingenue fantasmagorie della realtà fiancheggiate da desideri di riscatto e giustizia. Piccole storie di gioia e paura.

I diritti dei bambini e degli adolescenti sembrano scaturire da loro stessi per poi rivolgersi a un mondo adulto, prevalentemente orientato a bisogni e interessi personali. L’aspetto educativo e formativo della scuola e della famiglia viene rievocato nella sua fisionomia ancora “acerba” rispetto alle aperture e ai passi avanti che si sono manifestati nei decenni che ci ricollegano all'oggi. I diritti fondamentali di donne, bambini, minoranze trascurate, spingono per potersi evolvere ed essere recepiti. Il desiderio di libertà e autonomia è rappresentato nel racconto dal costante aleggiare della figura di Tito Speri, eroe del Risorgimento, simbolo della ribellione contro le repressioni e legame tra la città di Brescia a quella di Mantova. Gemellaggio che coinvolge la famiglia Sanfelice attraverso il trasferimento nella città virgiliana e che anticipa il legame di Nerina con l’altra metà di sé, più adulta e matura. Il presente si proietta nel futuro e predispone la memoria.

Carla Villagrossi