martedì 23 aprile 2019

Ranieri Teti su La ragazza tartaruga di Maria Grazia Insinga





Un’opera accesa. Un’ascesa. Polifonica. Tanto evocativa, immaginifica e aperta nella costruzione, quanto precisa e decisamente radicale nella scelta del lessico. Tanto perturbante nei temi quanto essenziale nelle parole. 
Come se il bordo bianco del “leporello” che la ospita fosse la presa del respiro prima dell’apnea in cui ci trascina Maria Grazia Insinga, oppure la cornice ideale per le immagini di Stefano Mura, colorate di sogno, della parte più concreta e insieme fantastica del sogno. Questa preziosa e curatissima edizione di Giovanni Fassio non contiene premesse né testi esplicativi: sono in tutto bastevoli parole e segni.       
“La fanciulla tartaruga” è coerente con gli intendimenti che da tempo sono distintivi dell’autrice, che scrisse di sé, molto prima di questa pubblicazione: “quando la notte scuote le ossa, oscillo come una scultura di Calder contigua al cosmo per divina differenza e mi espando, discontinua. (…) È in questo percorso che la parola sancisce la sua definitiva volontà a distaccarsi dal noto per rivolgersi all’ignoto irresistibile, alla sua musica, alla residua flagranza della luce, alla porta azzurra”. Proprio così, in questo libro il cosmo esprime una musica irresistibile, tradotta in parole. Succede che un sogno si incarni nel testo. Siamo di fronte a una miniera stellare, a una favola in prosa poetica, scritta con il linguaggio sovversivo della poesia quando dimostra di essere pura grandezza. Tutto ha il suono di una lontananza, qui tutto diventa viaggio, dove la curvatura spazio-tempo diventa la curvatura del pensiero.
Da un punto di vista stilistico, la quasi completa assenza di punteggiatura, brillando solo la presenza di alcuni punti interrogativi o esclamativi, rafforza la considerazione che Insinga sia riuscita a incidere nel corpo del testo la forma viva di un’euforia linguistica. Ne sono testimonianza i cambi di carattere, tra il corsivo e il tondo, in cui fatalmente si percepisce la differenza tra narrato sotteso e pensiero, come tra un frammento di finissima filigrana e un tutto, nell’idea che si costituisce come generativa della storia. Sì, è una storia, quella di una fanciulla lasciata sola, di una tartaruga attraversata da una freccia, di un gatto filosofico, in cui vorticosamente si viaggia da fermi, si viaggia “ad alta voce” partendo dalla “biblioteca delle meraviglie”, con tutto il sapere che contiene. Dove letteratura e geografia si fondono, dove citazioni e luoghi si confondono. 
È prosa, è poetica e, talmente avveniristica e inaudita, che arriva da un preciso futuro e allo stesso tempo da un improbabile e irrealizzabile giorno: il 29 febbraio 2027.       
                                                                          Ranieri Teti




giovedì 11 aprile 2019

“Nero-Bianco” mostra di Paolo Di Capua a Camorino



Nelle opere di Paolo Di Capua troviamo una forte esigenza di ordine sistematico, riflessivo, strutturale. Lo sviluppo in serie è testimone di un processo in fieri dove si valutano i diversi effetti compositivi degli elementi scelti (quasi un abaco) nelle diverse relazioni che intrattengono al fine di ottenerne valenze semantiche, oltre che iconiche, diverse. Tale operazione analitica sul linguaggio visivo ottiene, tramite, appunto, l’utilizzo dei singoli elementi aggregati, di volta in volta, in maniera diversa, l’articolazione di un sistema: tutta l’attenzione va alle relazioni interne che le unità stabiliscono nell’opera.

Il marcato contorno delle figure geometriche, le quali sono l’oggetto principale della rappresentazione, inclina volutamente per una significazione  non espressiva, secondo la quale il disegno è a fondamento delle arti (pittura, scultura, architettura), dichiarando così l’appartenenza dell’artista a una posizione maturata in pieno Rinascimento. L’utilizzo di tale codice (poligoni, rette) non estromette in Di Capua del tutto, però, la componente emotiva affidata al trattamento della superficie lignea che è come l’impressione della motilità psicologica dell’artista. Di Capua non tralascia di evidenziare le caratteristiche del legno che rimandano direttamente al rapporto non astratto col reale. Resta sempre attivo il rimando all’esterno dell’opera, il rinvio a quella natura che per Di Capua non deve essere mai dimenticata o evitata. Il processo riduttivo a pochi elementi di base con cui realizzare la varietà delle relazioni non ostruisce mai, volutamente, il passaggio dalla continuità naturale alla discontinuità del segno. Non a caso, i colpi di sgorbia realizzano una superficie mossa come la superficie di acque fluviali e i parallelepipedi poggiati sui piani lignei - quasi ponti tra zone diverse dell’opera, proiettano ombre che rendono la rappresentazione l’ analogon di un paesaggio. Sempre presente, pertanto, in Di Capua, un atteggiamento spontaneamente espressivo che tiene ben saldi i due estremi della corda: il sé e la natura, la forma naturale e quella astratta. In tal senso, l’artista si àncora a una forma che è terreno di possibilità interpretative: le sue opere sono il teatro di elementi che mostrano disponibilità ad accogliere letture sempre variabili.

Sul crinale formato dai versanti della coppia determinato/indeterminato si gioca l’invito al fruitore, chiamato a interpretare gli elementi assemblati in configurazioni diverse e lo svolgersi della serie “Ho messo bianco su bianco”. In tal modo, il movimento è presente, nelle opere dell’artista romano, tramite il basculamento fra le diverse componenti che costituiscono i lavori, situati tra superficie piana e superficie scultorea e tra artista e fruitore. Il dialogo si attua diversi piani, non solo fra gli elementi geometrici o i segni lasciati dalla sgorbia: triangoli, cerchi, losanghe, parallelepipedi, ma anche fra superfici lisce e scolpite, che mostrano la trama materica del legno, assieme all’atto scultoreo e all’atto compositivo. Anche la luce ha un ruolo ineliminabile, nel suo rapporto con l’ombra, per introdurre il moto nell’opera.

Nell’opera “Salita al tempio”, 1994, realizzata con legno assemblato e scolpito, l’assemblaggio di assi configura la forma, oltre che appunto con la sovrapposizione dei listelli di legno, anche tramite svuotamento. L’opera appare sia scavata sia ottenuta per incremento del materiale. Inoltre, un ulteriore colloquio si dipana tra profilo geometrico delle assi e curva della parte scavata: la forma complessiva dell’opera è, infatti, ottenuta grazie all’utilizzo di listelli squadrati, quasi una quadratura di un ovale parziale che mette in continua relazione il curvo e il rettilineo, ove il passaggio dall’uno all’altro degli elementi è tale da far percepire un moto perenne durante l’osservazione. L’introduzione di elementi dal sapore organico, quelle foglie che si elevano dal fondale scolpito, con geometrica pulizia, recanti le incisioni che attestano delle nervature, configuranti la serie “Omaggio a Paul Klee”, 2018, giocano sull’equilibrismo delle figure, sebbene espresse in termini astratti (triangoli e cerchi).

La ricerca è condotta, oltre che sul materiale, sul colore. Si osservi l’opera “Pianta notturna”, 2011, una serie di cubi ottenuti con fusione di alluminio da una matrice lignea che conserva sulla superficie la marezzatura delle fibre vegetali, ma che il colore metallico snatura. Il tentativo di rendere ambigua la materia, con caratteristiche appartenenti a un’altra materia, si colloca in un sistema di variazioni che non si ferma al canonico svolgersi degli assemblaggi, ma che riguarda il modo in cui percepiamo ciò che ha subito un trattamento alterante. I cubi impilati accennano a una colonna infinita: quasi un’opera aperta. E sappiamo quanto il concetto di opera aperta sia una connotazione attiva all’interno delle aree dell’astrattismo e dell’informale. In Paolo Di Capua, informale e astratto mostrano complementarità e integrazione, essendo entrambe le posizioni prese in una dialettica che è indice di una disposizione nel confronti del mondo; attraverso esse, l’artista romano, intende cogliere il senso riposto della realtà, situato cioè al di là delle apparenze fenomeniche.

Più precisamente, la ricerca di una realtà pura, la ricerca di ciò che ha una validità oggettiva e immutabile, in Di Capua non espunge totalmente le apparenze fenomeniche, le quali vengono immesse nell’opera con funzione dialogica rispetto alla rappresentazione delle forme geometriche. Nelle opere, il concavo e il convesso riescono, pur nella dimensione del bassorilievo, ad attivare piani dialettici: le forme cavate sono il simbolo del gesto, del fluire, del divenire; le forme sovrapposte risiedono su un livello spaziale superiore: sono elementi geometrici che costituiscono l’altra voce del dialogo, quella che coinvolge la costruzione spaziale. Tale contrapposizione è forse irrichiudibile per Di Capua, poiché i due agenti antagonisti non si mescidano. Da una parte, forme chiare e distinte, dall’altra un’adesione vitalistica tra mondo interiore e realtà. Da un lato, una forma essenziale e dall’altro un oggetto colto nell’infinito flusso esterno: entrambi i modi, come sponde, individuano lo spazio di agibilità dell’artista.


La scelta del colore invita a considerare l’espressione di una realtà assoluta, al modo in cui è stata coniata nella definizione mallarmeana: “puro spazio bianco”.  Nella mostra è presente anche un’opera in bronzo totalmente patinata di nero, “Rilievo di Spagna”, 2002, che è scelta equivalente, toccando con entrambe le opere i due estremi della gamma cromatica. Ma a questo punto siamo già avvertiti: non è che un’ennesima verifica della tenuta dello spazio mentale.