mercoledì 28 novembre 2012

Padiglione Giappone, 13° Mostra internazionale di Architettura, Venezia


Fin dall’ingresso, con i grandi pali scortecciati di cedro provenienti dal maremoto che ha sconvolto il Giappone, che conficcati nella  corte del padiglione lo sfondano per attraversarne la  sala posta al primo piano, il Padiglione Giappone è uno degli allestimenti più riusciti, ma anche uno dei più emozionanti. E meritatamente ha vinto il Leone d’oro per le partecipazioni nazionali alla XIII Biennale di Architettura. L’origine di questo lavoro, nato dal disastro che ha devastato la costa nipponica per 400 chilometri, ha posto una sfida progettuale di non lieve entità agli architetti che sono stati chiamati a ricostruire un luogo comunitario “Home-for All” nella località di Rikuzentakata. Le domande nate quasi da uno stato di inanità rispetto all’immane devastazione a cui è stato sottoposto il territorio, hanno invece ricevuto una straordinaria risposta, capace di costituire uno stimolo anche per problemi architettonici completamente differenti.  

I tre giovani architetti, già affermati sulla scena internazionale, Kumiko Inui, Akihisa Irata, Sou Fujimoto, che l’architetto Toyo Ito decide di coinvolgere effettuano numerosi sopralluoghi, discutendo animatamente fra di loro e chiedendosi: “Potevamo davvero essere utili nelle zone devastate? Per di più, ridiscutendo l’essenza di un’architettura post-catastrofe? Potevamo, noi tre, dare luogo a una progettazione comune? Il risultato avrebbe acquisito una dimensione che trascendesse la singola opera architettonica? Quale poteva essere il valore simbolico di un progetto nato in quelle aree?”. Vi è la necessità di comprendere le modalità in cui la popolazione locale sta reagendo e sta cercando di ricostruire relazioni comunitarie e di provare a immaginare quale tipo di costruzione avrebbe potuto sostenerli, consentendogli di dare uno spazio appropriato alla ricostruzione della loro identità comunitaria. La  capacità reattiva delle persone che aveva, intanto, ricostruito luoghi di fortuna anche con mezzi di recupero diventa così trainante e da qui l’idea di recuperare gli alti fusti di cedro sparsi sul territorio.


Proprio intorno a questa “nascente “ società, nelle parole di Kumiko Inui, si è concretizzata l’idea di un’architettura che tendesse a dare una mano discreta alle potenzialità di tale piccola società, ponendola  in relazione al luogo senza privarla della sua generosità e quindi che fosse più che unicamente funzionale: “Credo che occorra oltre alla molteplicità, ovvero alla capacità di accogliere con benevolenza una pletora di attività, anche la leggerezza che liberi le menti, e un valore simbolico, affinché rimanga impressa nella memoria della gente. A mio parere non dovrà inoltre limitarsi a concettualizzare tali requisiti e a farli confluire in un unico design che li sublimi, ma conferire al luogo la diversità delle visioni del mondo, in relazione alla memoria della vita a Rikuzentakata”.

Il risultato che si può vedere nel Padiglione Giappone consiste in una miriade di proposte, tutte effettuate a partire dall’individuazione di una comune radice formale, che è quella dell’innesto dei materiali che recano il segno della tragedia (fusti, tronchi, canne, arbusti, travi)  in una liberissima composizione di terrazze e tettoie, diversamente dislocate, e su vari piani, le quali consentono un paradigma di infinite declinazioni atte a  favorire la vita comunitaria, in un costante rapporto con l’ambiente e il cui dichiarato obiettivo è quello di convogliare e amplificare il naturale aprirsi della popolazione al proprio vicino in ragione della dolorosa comune esperienza vissuta.


Vogliamo riportare per concludere le parole dell’architetto Toyo Ito: “A partire dall’epoca moderna, l’architettura è apprezzata principalmente per l’originalità. Di conseguenza, i temi primari – per chi e per quale ragione si costruisce – sono andati negletti. Un’area devastata, dove ogni cosa è perduta, offre l’opportunità perfetta per uno sguardo nuovo sull’essenza dell’architettura. Home-fo-all può essere un piccolo edificio, ma pone la questione vitale, della forma che l’architettura deve prendere nella modernità, e oltre”.
                                                               
                                                             Rosa Pierno

sabato 24 novembre 2012

Gilberto Isella “Preludio e corrente per Antoni” Salvioni Edizioni, 2012




Il primo dei due testi dedicati da Gilberto Isella ad Antoni Gaudì nella nuovissima raccolta “Preludio e corrente per Antoni”, Salvioni Edizioni, 2012, con le splendide incisioni di Loredana Müller Donadini, è del tutto inusuale, poiché prima ancora che effettuare una lettura dell’opera artistica avendo come guida l’opera di un filosofo (si pensi a Bonnefoy coi suoi numerosi testi sull’arte e in particolare a “Roma 1630. L’orizzonte del primo barocco”), qui si sente un architetto che parla con la voce di un filosofo. Crediamo di ravvisare il filosofo in Nietzsche e crediamo che alcune parole estratte dai suoi testi, al pari di un’ossatura, reggano e direzionino il senso con cui Isella intenda innervare il lavoro di Gaudì, quasi per esplicitare le sue nervature più sottili. Qualche esempio: “suono”, “senso”, “rancore”, “risentimento”, ”cammino”, “simulazione” “assoluto”, “nulla”. Singole parole, dicevamo, ma sostanziate a loro volta da un dire poetico che è un fiume in piena, irruento e profetico, che ha la forza di travalicare qualsiasi cesura o limitazione, che non si arresta nemmeno di fronte a quell’“incompreso irriso” che accomuna le due personalità. Il progetto di Gaudì, così come il pensiero filosofico di Nietzsche, supera d’un balzo l’idea corrente di costruzione, assomma a sé un senso nuovo, venuto fuori dall’azzeramento di tutto ciò che è precostituito e non solo simbolicamente. Le intersezioni attuate da Isella attraverso il linguaggio poetico, se ci consentono di ricevere in maniera amplificata il messaggio insito sia nelle opere del filosofo sia nelle opere dell’architetto, grazie a una straordinaria capacità osmotica di far trapassare dall’una all’altra qualcosa, nonostante le due forme espressive utilizzino mezzi irriducibili l’uno all’altro,  avviene proprio tramite un terzo mezzo che è la poesia, la quale essa stessa, a sua volta,  si fa promotrice di un nuovo dire.

Nel secondo testo, “Corrente”, ove il ritmo plasmato da Gilberto Isella plana e si distende, l’ottenuta rarefazione  isola, contrariamente a quel che avviene nella prima sezione, ogni parola rispetto  a cui l’unità della costruzione (e si badi qui sempre alla doppia lettura dell’opera architettonica e del testo filosofico) pare quasi utopico obiettivo. Anche qui saremmo indotti a tentare una lettura che veda nel metodo delle scienze positiviste una lente di rifrazione atta a catturare esattamente ciò che da tale descrizione sfugge. Restiamo sempre nell’orbita nietzscheana, ma verificandone la tenuta da un opposto punto di vista.


occulta sotto maschera di zinco
gaudiosa profezia
                                      muove misura e calcolo
mentre rovente l’involucro cola
                                      sulla spianata


Riconosciamo, fra i molteplici livelli di lettura a cui i testi poetici di Isella danno luogo,  quello prioritario della ricerca volta a lavorare sui limiti del linguaggio, saggiando le specificità linguistiche che i vari domini della conoscenza - filosofia, scienza e arte  - mettono a punto.  Va da sé che quando si sperimenta un linguaggio  teso all’estremo, la realtà si agglutina, pare per un attimo che si raggiunga l’unione degli opposti  in un modo affatto nuovo:

                     a trascrivere
le congiunzioni possibili

lì in arnia di corpuscoli
sfibra però l'agire
la fortuna magmatica incombe

anche la pagina d'aria dirupata
anche la volta focomelica
     
Potendo effettivamente credere che sotto i nostri occhi l’opera-pagina e l’opera-architettonica siano fatte del medesimo materiale. Miracoli del linguaggio. In ogni caso, della poesia.

                                                                   Rosa Pierno

martedì 20 novembre 2012

Emilio Tadini “La fiaba della pittura” Pagine d’arte, 2002


Il delizioso libro illustrato di Emilio Tadini “La fiaba della pittura” Pagine d’arte, 2002, è un miracolo di equilibrio tra l’oggetto d’arte e il saggio: il disegno tratteggia personaggi imparentati con la fiaba: scimmie e cani, marionette, biciclette, cannoni e carretti; il testo verte sul rapporto tra immaginazione e riflessione concettuale, tra inesprimibile ed essenza/assenza. E i due insiemi sono poi implicati in un dialogo che eccede le loro intersezioni perché si mostra autonomo almeno quanto dipendente.

Sulle pagine, assieme a un testo compatto, dai caratteri piccoli, che rosica lo spazio che invece gli spetterebbe di diritto, a tratti reclamandolo con forza contro i nerastri segni, giganteggiano figure che provano a sovrapporsi al testo, che per strafare escono dal foglio, che sono incontenibili, che si allontanano fuggendo, che s’accampano a chiare lettere, che usano il testo per appoggiarvisi, in pose strambe, a tratti irriverenti, e, indifferenti a quel che esso dichiara, seguono altre linee di sviluppo, narrano brani di storie appena germinate e già intersecate o rincorse da altre. Disegni tracciati con una mina di carbone, linea rigonfia di bolle d’aria,  che si assottiglia per finta insicurezza, friabili, o si doppia per tracotante e boriosa imposizione.

Il breve saggio si pone il problema della differenza tra testo  e immagine, della loro capacità di esprimere in modo differente, e a tal punto che differenti sono di fatto i risultati in relazione a ciò che si voleva esprimere, il quale a sua volta è in una qualche modalità di relazione con l’inesprimibile.  Fra queste lame si dispiega un campo di forze di cui l’inesprimibile è solo un limite. Tadini distingue tra filosofia, racconto, narrazione, fiaba. Il disegno si ribella al nome, all’assoluto: “i filosofi non sono mai così necessari a tutti noi come nel momento in cui, disarcionati, stanno volteggiando, più o meno elegantemente per aria prima di battere il culo per terra”. E quel non so che, il quale invece il narratore e il disegnatore vogliono afferrare, essi paiono conoscerlo attraverso i sensi e non, appunto, attraverso i concetti, dominio dei filosofi. Insomma, parrebbe che quest’assoluto senza nome sia raggiungibile  solo dall’immaginazione.

Il mito, la fiaba e, in generale. la narrazione, consentono di abitare questo spazio in cui in qualche modo ciò che non si può definire si dà in specifiche forme e fra le loro intersezioni, si dà sempre in qualcosa di concreto, che appena un attimo prima della loro realizzazione pareva non esistere: sensi e immaginario concretizzano il ‘segreto’.  Mito, fiaba disegno, sono “una pratica non di “evasione” – ma, al contrario, di “invasione””. Costituiscono la lingua speciale con cui il mondo si presenta a noi e “quella lingua, la possiamo capire”.

Per Tadini “la dimensione dell’immaginario, il sapere che noi sperimentiamo è un sapere, per così dire, integralmente percepibile dai nostri sensi. Un sapere sensibile. Un sapere che risponde al desiderio”, che è legato al corpo. Un sapere fatto di esperienza.  E se quel mondo ci sembra così difficilmente possedibile nella pienezza del suo senso, può darsi che  dipenda dalla diffidenza che abbiamo maturato culturalmente “nei confronti di qualsiasi cosa che somigli a un corpo”. L’antidoto è nell’appropriarsi dello spazio bianco, nel riempirlo con testi e disegni.


                                                                              Rosa Pierno

giovedì 15 novembre 2012

Lorenzo Gattoni “Alla confluenza dell’attesa” Edizioni L’Arca Felice, 2011


Se si ipotizza che il nostro orizzonte esistenziale si svolga tra tempo dell’abbandono e tempo dell’attesa e, quindi, tra passato e futuro, il presente, inevitabilmente si condensa come un precipitato dei due stati di vuoto, in cui vanno a confluire fantasmi, ricordi, assenze, assieme a desideri, ansie, proiezioni producendo un assordamento capace di non farci percepire l’elemento essenziale in cui saremmo, appunto,  immersi:  la perdita, la disillusione. E’ per questo che il poeta costruisce spazi di silenzio, radure su cui incombono al massimo flebili ramificate ombre.  Lorenzo Gattoni, nella plaquette Alla confluenza dell’attesa, Edizioni L’Arca Felice, 2011 (con dipinti di Luca Bonfanti), tenta di indebolire le voci interiori, le visioni mentali, di fare emergere le cose presenti sgravandole dall’impasto della propria soggettività. Il vuoto allora non si configura come scena disadorna, ma  ricolma di oggetti dagli spigoli taglienti, dai colori vivissimi, dai profili nitidi. Il che allora determina che non si è in presenza di un tentativo di annullare il soggetto che tale immagine costruisce, ma di non imporre alle cose una non controllata proiezione.

Come una pesca miracolosa,   il risultato dell’azione poetica comporterà oggetti mai visti prima, una immaginazione che liberatasi dall’impeto abitudinario valuterà in modo invero sorprendente lo spazio in cui si è immersi: il tempo “è un’unghia sulla lavagna”, “l’orizzonte è un buco / dove al fondo volteggia / un angelo ubriaco”.   Il ribaltamento dei piani, la riflessione nello specchio non sarà senza conseguenze: all’attesa verrà conferito “ il nome di perdita”, il che testimonia che il regista non rinuncia a nessuno dei suoi strumenti per imporre alla realtà le proprie visioni.  Né Gattoni si perde nel labirinto inscenato fra senso all’origine e sovrapposizioni di senso, i quali inevitabilmente si ammassano durante lo scorrere del tempo storico. Troppo accorto per non sapere che l’origine è la tartaruga su cui il mondo poggia, egli osserva, ma non partecipa alla processione delle maschere. Non crediamo che per questo si possa parlare di sconfitta, ma di salda posizione etica, che non si concede illusioni, che vuole conoscere i meccanismi attraverso i quali costruiamo i nostri sistemi di speranze e attese e di consapevolezza degli smacchi. Per questo il silenzio non è una riduzione al nulla, ma una conquista. Anche se da essa non sarà possibile strappare, come pelle da una pesca, la perdita.


la parola iniziale
ha infranto il mutismo
delle cose
                da allora
la replica  scortica
quel che di nome
era verità

complici dell’inganno
osserviamo le maschere
in processione mentre
una parte di cielo continua

Lorenzo Gattoni (1960) è redattore delle riviste Il Monte Analogo  e La mosca di Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesie Il vetro e la cera, Tracce (1998); La frattura del sorriso, Ex-Cogita, 2011; Scatti di posa, Joker, (2008); e le plaquettes Scatti di posa – cinque poesie, Dialogolibri (2002); La polvere e il diluvio, Fiori di Torchio(2010).

La pregevole collana “Coincidenze”, diretta da Mario Fresa viene proposta in esemplari numerati a mano, con litografia.

lunedì 12 novembre 2012

Mostra al Museo Carlo Bilotti “Afro. Dal progetto all’opera”, Roma


E’ possibile, nella mostra “Afro. Dal progetto all’opera” al Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, Roma (dall’11 ottobre al 6 gennaio 2013), osservare i disegni preparatori di alcune opere esposte e verificare come le opere mostrino un’elaborazione di partenza che fa a meno del colore, quindi che inizia dal concepimento formale, dalla composizione pieno/vuoto, dall’intersecazione delle masse ove il peso dei valori tonali viene applicato soltanto attraverso una dosatura dei grigi. Quello che evidentemente si cerca è un equilibrio compositivo come elemento basilare e inscindibile della compiutezza artistica. Si noterà ad esempio in Due figure del 1952 come il quadro si discosti dal disegno preparatorio soltanto per un aggiustamento, una correzione dei toni più chiari che vanno ad intensificare e a rendere più dialogiche alcune zone altrimenti troppo piatte ed omogenee.   

E’ solo cercando di capire la gestione delle differenze che forse si può sperare di avere la sensazione di essere presenti mentre l’artista crea fisicamente il quadro. Si noterà, dunque, come lo studio preparatorio, eseguito nel medesimo formato dell’opera finale,  venga poi pedissequamente replicato dall’opera dipinta, ove viene migliorato spesso il rapporto della figura con lo sfondo (mai troppo articolato negli studi). Si veda Negro della Louisiana del 1951, in cui peraltro il colore nell’opera rende conto anche della capacità di Afro, che è straordinario colorista, il quale lo articola nel progetto compositivo come elemento che tragga la propria valenza del tutto autonomamente. Il colore è in grado di aggiungere una profondità luminosissima, una leggerezza corposa al dipinto.

Interessantissimi, poi, negli studi per Natura morta del 1952   i diversi passaggi che da un’iniziale foglio ideativo, in cui è presente soltanto una linea a matita che suddivide il foglio in porzioni, crea successivamente le zone che saranno campite: un primo abbozzo di forma. Forme che peraltro se pur bidimensionali, con i loro ghirigori e giri circonflessi indicano un’occupazione spaziale stratificata a cui peraltro il colore aggiungerà, se non ombreggiature, possibilità spaziali. I successivi studi preparatori evidenziano una prima campitura delle forme andando a segnalare ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, le sovrapposizioni e le trasparenze, andando a definire, di conseguenza, quel dialogo tra oggetti formali che poi contribuiranno a creare la figura.

Nelle prove di Afro in cui è evidente l’influsso astratto e informale, la figura non scompare mai, ma si addensa sotto i nostri occhi come formata da un caleidoscopio di formelle. L’ultimo studio per Natura morta  realizzato con carboncino su tela intelata utilizza la grafite modulando con estrema leggerezza la stesura delle masse che poi appariranno colorate nell’opera dipinta.  E ancora una volta si potrà rilevare come il colore sia un agente formidabile nell’accentuare sprofondi nel volume e nel far lievitare campiture da un superficie creduta piana. Lo sguardo, nelle opere di Afro, è, infatti, sempre costretto a ricomporre le figure e a scavalcare dune e fossi sulla superficie della tela. Si noterà pure come, spesso lo sfondo, quando la figura stia al centro compattata come in Figura I del 1953, partecipi con il medesimo colore alla totalità del quadro, e la figura proprio da esso derivi le proprie variazioni tonali in una raggiunta delicatissima sinfonia.

Un altro straordinario esempio è Ragazzo con tacchino del 1954, in cui Afro sembra descrivere una storia come in Esercizi di stile di Queneau, ricominciando a narrare la medesima storia con stili differenti. Ogni volta partendo da un nuovo nucleo generativo. Un vero e proprio racconto di colluttazione dei corpi, di intrecci inestricabili tra membra e becco, tra mani e ali. E dove alla fine l’opera dipinta risulterà una sorta di chiarificatrice immagine, sintetica visione, quasi di raggiunto simbolo.

Allo stesso modo anche il disegno preparatorio Giardino per la Speranza, realizzato per il Palazzo dell’Unesco a Parigi nel 1958, ingaggia con l’opera finale una lotta, al pari di altri assedianti, tutti aventi il medesimo titolo per assurgere a immagine prescelta, che consente di vedere diramazioni della storia, svolgimenti che valgono come digressioni, sembra, anzi, che compiutamente appartengano all’opera realizzata,   quasi come se andassero a costituire un intero ciclo, non separabile dalla immagine terminale, che giocoforza ne sarebbe sintesi.  E vogliamo terminare con un’opera affascinante e singolare Trittico del 1952-1954 che mentre mostra sfrontatamente le influenze di Picasso e di Mirò, allo stesso tempo rivendica un linguaggio autonomo e compiuto basato esclusivamente sulla assoluta genialità di un artista che divorava i linguaggi artistici riuscendo a rimanere univocamente riconoscibile.

                                                                                 Rosa Pierno

venerdì 9 novembre 2012

Fiorangela Oneroso “Inoltre” Anterem Edizioni, 2010

Nel teatro inaugurato dal solo linguaggio, come avviene nel testo poetico, non stupirà vedere come si innalzi scenografia barocca tramite una profusione di elementi paradossali: le “azzeranti speranze”, le “risonanze sorde”, i “diramanti incastri”, la “solida rete”, le “lame animate”, l’”ostaggio disperso”. Che inoltre il paradosso voglia ottenersi tramite geometria ad attestare l’ovvietà dell’assunto, quasi a fondarne logicamente la legittimità, è davvero catturante. Su tale palco, quello creato da Fiorangela Oneroso in “Inoltre”, Anterem edizioni, 2010, il lettore viene irretito da musica suadente, da respiri  tronchi, anzi in tale scenografia è disegnato persino l’ancoraggio a “moli interstellari”. Il ribaltamento in un altro ordine temporale e geografico è compiuto, ora non ci stupiremo se i contatti frenano ogni moto, se tutti i nessi deviano dal consueto e tale macchina  è “avversa al puro pensare”. L’inclusione che qui si tenta è quella non solo di un analogico pensare, ma di un recupero dell’immaginazione, la quale è tangente all’emozione, al sentimento. Il disegno allora si palesa come avente lo scopo di riunire ciò che scisso era. Sarà per questo stato necessario divellere radicalmente la piatta linea dell’orizzonte conosciuto, radere l’ovvia sistematizzazione, introducendo  il rogo che subito ci richiama alla mente l’orrida fine di Giordano Bruno. Sarà da questo punto in poi che gli incastri, invece di serrare, si diramano verso nuove vie, vanno  a costruire nuove relazioni. Ora lo leggiamo chiaramente poiché:

Ingiuria e redenzione
al generale tono vitale
ai falsi giri
dello stabile senso
il tempo imprime,
mentre acre scatta
il richiamo dell’obiettore  
che lampeggia e sovverte
il desolato azzurrino
deposto sul suo fondo
generico e ceruleo
come impasto indurito
che ostinato perdura

Fra i fumi sentiamo l’odore “acre” della paglia che brucia, della distruzione che a morte crede di mettere una visione, ma vediamo anche che il nocciolo duro della sua dottrina resiste e persiste e giunge fino a noi, affinché da noi venga riconsiderata. Dottrina che omette qualsiasi separazione tra le materie, fra le quali si elenca persino l’infinito. La pluralità dei mondi si stringe in un solo anelito che respira all’unisono col proprio cuore, con la propria mente. Anzi ove la mente coincide con la materia, spostando continuamente il limite, si può apprendere che nessuna cesura è posta  e la parola è mediazione. In questo luogo, il tempo toglie e dà, tutto trasformando:

Quando giunge il tempo
in cui il vento fermo evapora
le future piogge
e disegna brevi rotte lineari
e stipula patti estenuanti
nel bianco stridore di tabulae note
giunge evocato e làcina
il basso strisciare
di spire gelate

Sebbene quasi sempre la poesia conservi in sé traccia del pensiero filosofico, qui, in quest’opera dedicata al filosofo nolano, la poesia si mostra infinitamente più duttile nel disegnare sotto i nostri occhi le connessioni che dagli assunti filosofici discendono. In questo senso si nega che ne percorra semplicemente le orme, pare soprattutto che lo verifichi, si faccia palestra, terreno di scontro o di contesa. In ogni caso questo tipo di operazione, che attualizza il pensiero mostrando come esso sia sempre contemporaneo, costituisce allo stesso tempo un modo di esperire qualcosa di non visto interamente, solo intravisto nelle sue plurime connessioni, nelle sue più impreviste relazioni. E’ come una membrana che mentre attualizza, colloca, mentre distanzia, avvicina.

Nel suo testo poetico, Fiorangela Oneroso utilizza parole che sono nel testo dell’ex frate domenicano: infinito, immobile, ordine, tempo, le quali valgono quanto intere citazioni da cui si diparte la sua raffinatissima costruzione poetica, che dall’universo tracciato da Bruno fa scaturire straordinarie, fascinose visioni, in cui, appunto, s’intreccia il finito con l’infinito, il mentale, con il fisico, il particolare con l’universale. Allo stesso modo funzionano da imbuto di risonanza le coppie nome-aggettivo: “il corpo infuocato”, “innumeri modi”, “furoreggiano inconsistenti figure”. Ma è solo per darsi slancio, prendere il volo e forgiare pregevoli versi, davvero risuonanti e capaci di restituire sotto altra forma l’ampiezza e la profondità della visione.

Il profondo perfetto
che brucia l’inabisso
è diverso dal rosso spinoso del fondo
e si riversa e ribolle
nella sua camera ardente
e vibra esaltato
mutato in polveri sciolte,
a sistema dissolto
preda del vento
che incerto fluttua a riflusso
e pervade di frammenti vuoti
il proprio stato di moto

Non sarà pedissequo rivisitare, visto che attualizzazione restituisce comprensione, verifica sulla e nella propria persona delle possibilità insite nella capacità visionaria, riportando alla luce le nostre sopite capacità di pensare, sentire e persino teatralizzare.
Ora, se un misto di pena e dispiacere per l’ingrata fine di una tal persona è ineludibile, la consapevolezza che ancora, però, tali “rugginosi congegni e gorghi” sappiano rivestire “con lattei veli / le buche storte del mondo” è di grande sostegno. Per tutti coloro che amano frequentare le altezze di un’immaginazione senza freni, capace di dare vita a innumerevoli mondi,  non è gioco fine a se stesso, poiché : “egregi menti / con lo sguardo stravolto / trovano ristoro /in intonaci d’oro”. Non eccessi relativi a inutili giri a vuoto, dunque, poiché “l’intimo lieve / si attesta in spazi giusti / e fecondi”.

                                                                                   Rosa Pierno

lunedì 5 novembre 2012

Hokusai “Manga” L’ippocampo, 2007

Il volume di Hokusai “Manga”, edito in Italia da L’ippocampo nel 2007, è stato curato da Jocelyn Bouquillard e Christophe Marquet e le bellissime immagini ivi riprodotte provengono dalle collezioni della Bibliotèque Nationale de France.
Hokusai, “maniaco del disegno”, come egli stesso amava definirsi, ci ha lasciato “migliaia di opere di grande pregio sia per valore estetico che per varietà estetica: dipinti, disegni, incisioni, libri illustrati e manuali didattici. Questo libro effettua una selezione da quella che può considerarsi una vera e propria enciclopedia ad immagini, i Manga, appunto, costituita da oltre ottocento pagine e quattromila motivi “raccolti in quindici volumi e pubblicati fra il 1814 e il 1878”. Senza nessuna soluzione di continuità, i disegni spaziano dal mondo vegetale, animale e umano  al mondo soprannaturale, costituendo una vera e propria summa iconografica, benché rappresentata in maniera frammentaria o destrutturata. Il nome stesso Manga, che oggi identifica i fumetti, fa riferimento a “disegni eseguiti sotto l’impulso dell’ispirazione, liberamente e senza ordine”.

Nato dalla volontà di costituire un manuale di disegno utile agli allievi, il corpus dei disegni mostra l’assoluta libertà e la potente immaginazione del suo creatore, il quale lo usa anche come un mezzo per indagare i meccanismi della natura. I fogli sono spesso conditi da una certa dose di ironia, quando dà vita a scene sconvenienti e smorfie, o da osservazioni attente e precise, quando segue con affettuosa aderenza le attività quotidiane di contadini e artigiani. Anche la scala e i dettagli della rappresentazione mutano continuamente: si va dalla rappresentazione di un laborioso insetto ai paesaggi, dalla precisione nella restituzione delle componenti architettoniche alla mutevolezza delle condizioni atmosferiche.

D’altronde, già l’indicazione data dallo stesso Hokusai di “Iniziazione alla trasmissione dell’essenza delle cose” introduce al fatto che nella cultura giapponese, e come rilevato da F. Jullien, l’’interesse è volto alla semplificazione estrema dell’aspetto esterno, al fine di riprodurne lo spirito.  H. Focillon ha inteso descrivere questa enciclopedia per disegni, questo dizionario per immagini come sostenuto non dal capriccio o dall’occasionalità, ma da una volontà di ordinare e di sistematizzare. Il libro, interamente da guardare, si suddivide per temi iconografici: la montagna e l’acqua, le variazioni del clima e della vita vegetale, gli animali, il mondo degli uomini, l’universo dei mostri e degli spettri, le divinità e i guerrieri, i dettagli architettonici e gli utensili. 

Vogliamo aggiungere che nessun disegno è formato soltanto dalla linea di contorno, ma che ogni superficie è rappresentata soprattutto attraverso la sua tessitura tesa a restituire la particolarità cogente della materia, il suo porsi in articolato dialogo con le altre materie, quasi a controbilanciare il rigido con il soffice, la trasparenza con l’opacità, la consistenza con la volatilità. Addirittura, i dettagli superano per abbondanza e ricchezza le linee di contorno, i particolari sopravanzano l’oggetto rappresentato, lo annegano nella totalità del mondo circostante. Il dettaglio è ciò che si percepisce prima ancora del generale che pure lo comprende. Disegnare il mondo qui vuol dire prima di tutto coglierne le differenze disseminate, e solo in un secondo tempo, le armonie, gli equilibri formali. La pagina non può essere esaurita dallo sguardo, che letteralmente vi si disperde, affonda come nella neve tra le tacche e i punti, le retinature e le campiture segniche. Questa alfine non si può definire più enciclopedia, ma mondo delle apparenze in cui il soggetto non trova l’uscita, perde il filo, smarrisce il riferimento tra il sopra e il sotto, tra ciò che è vicino e ciò che è lontano. Trappole di avvolgente, serica bellezza, a cui un colore delicatissimo, tra il pesca e il grigio, dona una tonalità suadente e placata che equilibra la motilità inesausta dei segni.


                                                                                     Rosa Pierno

giovedì 1 novembre 2012

Gilberto Isella traduce e commenta “Scarto” di Jacques Dupin


 

Il lungo graffio di una traccia morta
(Appunti su Scarto di Jacques Dupin, scomparso il 27 ottobre 2012)

Jacques Dupin (1927-2012) è considerato uno dei maggiori poeti francesi. Ha vissuto un momento tra i più significativi della cultura parigina del dopoguerra, dando vita nel 1967 alla rivista Ephémère, terreno d’încontro di artisti e poeti, e la cui immagine di copertina portava la firma di Alberto Giacometti. I suoi libri sono stati pubblicati da Gallimard e da altre importanti case editrici. In italiano sono apparsi: Massicciata (Scheiwiller), Nulla ancora, tutto ormai (Dadò) e l’antologia Divenire della luce (Garzanti), tutti a cura di Delfina Provenzali.
  Gilberto Isella si occupa da anni della sua opera. Recentemente ha tradotto e curato la raccolta Scarto (Lugano, Opera Nuova, 2011).

La comba
  
   Ricettacolo e matrice, scrigno di enigmi notturni e custode di un’arcaica ‘volontà di potenza’, la “comba oscura” rappresenta per Jacques Dupin  l’ultima versione di un simbolo familiare. Pur mantenendo i tratti del biografema indicante i luoghi dell’infanzia, in Écart/Scarto essa si carica di connotazioni multivalenti. Un luogo fisico, all’inizio: valle stretta e allungata tipica dell’Ardèche, la terra nativa che ha lasciato molteplici segnali nell’opera dupiniana. L’espressione geografica-geologica si traduce tuttavia presto in metafora scrittoria. Anche il paesaggio poetico di Dupin è per natura impervio, scosceso, franoso, ricco di avvallamenti e faglie che operano continue deviazioni e cesure rispetto al terreno uniformemente soleggiato della langue, alla sua confortevole linearità.
 Il paesaggio tabulare, spoglio e cadaverico, ridotto fin da principio all’astrazione di uno schema, (“cima” e “fondo”,  le coordinate strutturali di Scarto) è lì a testimoniare “il lungo graffio/di una traccia morta”. Gli è solo concesso di sovraesporsi, alleggerirsi (“fondo e cima presto  alleggeriti”) fino a raggiungere, per opera dell’”inchiostro che evapora”, una sorta di imponderabilità alle soglie del divenire fantasma, della scomparsa:

Tabulaires, fond et cime                    Tavolati, fondo e cima

et selon l’écliptique creusant              e secondo l’eclittica
le songe à midi                                  che scava il sogno a mezzogiorno

n’étant que l’ample griffure               non altro che il lungo graffio
d’une trace morte                              di una traccia morta

fond et cime allégés soudain               fondo e cima presto alleggeriti

par l’encre qui s’évapore                    dall’inchiostro che evapora


Tra frammentazione e ombre minerali inabissate,  delimitanti il luogo del corpo e della parola, si muove l’immaginario dupiniano. Nessuno, meglio dell’autore, potrebbe riassumerne le ambizioni:

Poesia, congiunzione di tratti sparsi e e frantumi eretti, legame intrecciato di lineamenti nemici. Fragile autorità del respiro infinito della voce spezzata. Denudamento ad opera del fuoco che fa sorgere la lingua attraverso il corpo – manciata di torba, sale, ceneri – la lingua stessa, la lingua senza la lingua – e il suo riso che sfregia la notte, illuminando l’altra notte che si erge e ne prende il posto.

    Come ogni luogo nascosto o ripiegato su di sé, la “comba oscura” richiama la scena primaria dove l’io poetico riconosce il proprio destino di ‘essere-per-la-scrittura‘ in quanto ‘essere-per la-morte’: facile avvertire, in un verso della raccolta, l’assonanza tra “combe e “inscription de la tombe”).  L’oscurità  non genera oblio, bensì una memoria intermittente e anamorfica. Una memoria tanto prodiga nel dispensare i pittogrammi della lontananza ‘interiore’, quanto implacabile nel manometterli, nel sottrarli alla presa diretta della significazione, nel vomitarli sotto forma di scorie o rovine, di scarti dunque. Scarti del senso, figurati attraverso gli scarti ambientali che il soggetto incide sulla propria pelle.
   Ma la comba è soprattutto lì per suggerirci le coordinate topologiche entro cui avverrà la produzione poetica del senso, lungo un percorso costellato di antitesi e ossimori. Potrà allora configurare la “gabbia indelebile” ma anche la sua soglia, la camera oscura del dormiente con la luce invisibile che vi si raccoglie, l’implosione della parola e del respiro e nel contempo lo spiraglio (la “breccia nel muro”, come dice  una poesia di Lo sparviero), o ancora la finestra: “L’ombra attraversa la finestra quando dormo”. Passaggi che consentono evasioni,  o per dire meglio, il sempre problematico e contraddittorio dupiniano ’’arrischiarsi’ verso il fuori. Anche quando il fuori si rintana in retri, stamberghe e ripostigli, paradossali siti dell’aperto-chiuso, scarti di ogni luogo ‘alto’ dell’Essere. La comba, nell’altro-da-sé, non fa che replicarsi:

Moi j’occupe à fleur de peau                       Occupo a fior di pelle
le galetas le cagibi la souillarde                   la stamberga il retro il ripostiglio

le ciel ouvert                                               il cielo aperto
crachin de langue, succulence                     acquolina in bocca, succulenti        
d’un gratin de cardons dans le four            cardi gratinati al forno

et le nombreà fleur de peau                         e il numero a fior di pelle
le portail hors de ses gonds                        il portale sgangherato

quand le sable s’amoncelle                         mentre la sabbia si accumula
on fusille dans les cours                             si fucila nei cortili

le vide, le feu qui écrit                                il vuoto, il fuoco che scrive
la faille du corps                                        la faglia del corpo

le vide ravale fleurs et tatouages                il vuoto inghiotte fiori e tatuaggi
posant sur mes yeux éteints                       posando sui miei occhi spenti

l’odeur de la neige                                     odore di neve

                                                         
Lo sciame

 Lo sciame, inteso come metafora di disseminazione linguistica che scompone la parola fino all’ “l’elementarità del proprio corpo significante” (Bigongiari), è un importante elemento distintivo  della poetica dupiniana. Esso traduce le vibrazioni, i flussi di quell’essere-stato che si predispone a-venire:

Oscilla nella luce del giorno una poesia astratta ma configurativa : linee, punti, intervalli, velocità, spazio…Schemi che si abbozzano, si orientano, accedono al visibile, ancora legati a un dato giacimento terrestre e passionale, mossi da energie compulsive, rischiose…

 Lo sciame, ovvero  “una poesia astratta ma configurativa” in perpetua, luminosa oscillazione (“oscilla nella luce del giorno”) sopra un magma che evolve. La poesia di Dupin – che coniuga il rigore di Kandinsky (“linee, punti, intervalli”) con la matericità delle partiture visive-visionarie di Pollock, Hajdu, Soulages o Tapies -  è instabile, sfuggente alla presa diretta come il terreno naturale o la tela da cui essa trae succhi e umori: “un nuovo spazio, di cui scintillano gli spigoli/ e le linee oscuramente riflessi”.
   Se ne può solo toccare l’interna distanza da sé. Al presente non è ancora. Avverrà forse, ma dopo aver subìto, esattamente come quel terreno o quella tela, contraccolpi, scarti e scoscendimenti d’ogni sorta, e sempre rischiando di trasformarsi in un ammasso di rovine. Al momento la vediamo agitarsi, fetale, in una “comba oscura”, nel grembo di una “notte, rinchiusa nelle parole, la notte che spinge, che si stira…”.

La latenza

    Tutto è in latenza, ma solo in quanto prefigurazione nascosta di significato. Dupin, nella sezione in prosa L’unghia del serpente confessa di non saper nulla delle “figure che potrebbero sorgere, né della loro origine che dovrà mancare”. Confessa quindi l’impossibilità di dire -  riguardo al proprio io e alle figure, all’io-figura - l’origine, la nascita, e infine la natura come evidenza che si fa evidente al toccare, al percepire, o alla mente che dovrebbe trascriverla in totalità, in Idea. Il suo non-sapere è bagnato dalla grazia terribile e inebriante della noche oscura, che testimonia l’attraversamento infinito e privo di mappa di un’estensione non misurabile, al di fuori  di qualsiasi relazione assiale ‘da luogo-a luogo’:

Nella notte, un corpo. Combustibile e conduttore della scrittura.  Un corpo. Terra immensa, aperta, che profuma. Che non ha misura. Né centro, né guglie, né limiti. Una terra, o un corpo senza origine – insonne, inumano – offerto al godimento dei mostri, che sregola i ritmi, scuote i vuoti del foglio e il diradarsi del respiro.

L’agire scrittorio

   La scrittura poetica – nella sua indicibile genesi incorporata nella storia del soggetto – è il sonno che illumina (“Dormire camminando, scrivendo”), e anche la traccia del disorientamento di trovarsi qui e in nessun luogo. Essa è sempre, come insegnano Rimbaud e Char, posta “in avanti”.
   Essere “in avanti”, sopravanzare – e solo grazie a questa ‘oltranza’ tentare paradossalmente la mimesis della natura a-venire in quanto frutto di reminiscenza – significa per Dupin saggiare fino al limite estremo le virtualità cognitive dello spaesamento-spossessamento, in altri termini  consegnare la poesia a un’avventura del segno e del senso non ascrivibile a un sapere preliminare o a una tesi ontologica.  È  il poeta medesimo ad individuare i fondamenti del proprio agire scrittorio nei luoghi irrappresentabili della cecità e del sonno: “Scrivere è forse un sonno più mobile che si circonda di comparse?” (Morene), o anche “La cecità è l’obbligo d’invertire i termini e di anteporre il cammino e la parola allo sguardo“ (Ib.) Così da raggiungere pienamente, in Scarto, l’esperienza della morte simbolica, condividendo con Blanchot l’idea che lo scrivere sia strettamente implicato con la morte:

La notte scrive. Allargando lo spazio, facendo traboccare la pagina, polverizzando il cerchio di pietre. E reclutando la morte.

Scrittura e scarto

  Se in Dupin la scrittura è implicata geneticamente nel corpo, ne deriva che anche la geografia corporale s’impernierà sulla scissione e sullo scarto in tutte le sue variabili: faglie, combe, avvallamenti oscuri. È il corpo,  questa ‘singolarità plurale e differita’ (come interi capitoli dell’arte occidentale novecentesca documentano, da Klee a Mirò, da Dubuffet a Wols) che dà il via al processo metaforico più intrigante nella poesia dupiniana. In Scarto l’impossibile ricongiungimento delle membra entro l’unità corporea trova un parallelismo, più fisico che mai, nel campo della lingua:

Si tracciano righe al veleno. Ci si tocca. Questa parola è una spalla, questa  un ginocchio quest’altra l’ombelico della sposa asintotica. È lei che respira la lavanda e la via lattea. Raduno di nuovo le lettere del libro che ho bruciato. Io lancio i coltelli, tu lasci andare lo sparviero. Candela contro candela, nella notte più nera, e la trasparenza di una libellula marina.

   Lo scrivere è un rito catastrofico che ha la sua  pointe nel ferire, nel sui-ferire della parola, rito autosacrificale necessario alla medesima per accedere all’ordine del poiein. Il quale, è vero, perseguirà sempre una “congiunzione di tratti sparsi” – secondo il dispositivo modulare e la sintassi ellittica che caratterizzano lo stile dupiniano  – ma facendo dei singoli “traits épars” i veri punti di fuga del testo, attraverso cui l’affioramento del rimosso, o di ciò che risulta semplicemente remoto (il tormentato romanzo familiare, il paesaggio minerale dell’Ardèche, la comba) è reso possibile. Potrà così riverberarsi in noi anche la “notte agitata”, il “lontano interiore” di una voce amica (Henri Michaux) che fa appello ai nostri ricordi più cari : “La notte agitata – scriveva  l’amico lontano e più vicino - il lontano interiore, la vera voce degli scorticati vivi e il più sensitivo dei fiori nittalopi”. Parole incise nella carne come l’inesorabile sentenza della macchina nella kafkiana Colonia penale. Ferite, abrasioni del testo che culminano con il suo dissolvimento, quando alla vista e all’ascolto non rimane della parola che lo sciame fonetico primario, centrifugo e senza leggi.
     Ecco dunque il pro-ferirsi, il dirsi dello strazio : rotta interminabile (“Io cammino interminabilmente”) verso la preda da sottrarre all’astratta purezza dello spazio che la contiene. Una rotta inaugurata da una sorta di slancio immobile che, dietro la simbologia dello sparviero (“Lo sparviero è il simbolo, più del predatore, della preda riportata al punto di partenza del volo del rapace”, scrive Bigongiari), ci riporta agli artifici dislocanti della scrittura (“lancio di pietra”, “scoscendimento”), alla legge della sua transitiva intransività; qualcosa di diverso, insomma, dalla generica dimensione ‘autoreferenziale. Qualcosa di più oltrante.
   La differenza, lo scarto si neutralizzano così in una sorta di identità ambigua e spettrale: nascita e morte congiunti nell’alveo della “comba oscura”, viso non ancora apparso alla luce che già prefigura la “maschera funebre”. Enigmi dietro i quali sta all’erta la cecità veggente del poeta.

le bois des genoux croûteux             il folto dei ginocchi
dans la cour d’école                         coperti di croste
                                                       nel cortile scolastico

lisse d’obséquieux méplats               piatta superficie
de masque funèbre                           che ha lineamenti ossequiosi
                                                       di maschera funebre

terrain de fouilles, entame               terreno di scavi, avvisaglie
de hauts-fonds                                di fondali

la nuit où sautent les baies              la notte dove saltano le bacche
 
                                                                          Gilberto Isella