sabato 30 settembre 2017

Un'intervista in bianco e nero: Paolo Di Capua




Il bianco e nero, colori oppositivi, si trovano sempre in dialogo con i colori delle materie che tu adoperi nelle tue sculture, il legno, la pietra, il metallo, in un uso raffinatissimo che richiama alla mente anche certe sottigliezze orientali. C'è lo confermi?

Risposta:

In primo luogo, la scelta di rinunciare ad altri colori, è motivata dall’intuizione che bianco e nero, se ‘lavorati con sensibilità’ possono esprimere tutte le percezioni emozionali della più ampia gamma cromatica. D’altra parte la mia scelta linguistica è sempre basata sull’efficacia della sintesi. La mia iniziale formazione mediterranea/barocca ha incontrato, in un momento focale della mia vita, una concezione visiva/percettiva dell’Estremo Oriente tendente all’essenza, che ha certamente influito sul mio lavoro. Riconosco sempre ai diversi materiali che utilizzo, differenti qualità che durante la fase esecutiva ‘contribuiscono’ a portarmi al risultato. Se bianco e nero sono elementi volutamente contrapposti e ‘freddi’, trovano a volte, nella parziale stesura sui materiali, una sottile congiunzione ‘calda ed emotiva’.


L’introduzione di segni viene a sovrapporsi, in alcuni tuoi lavori, alla superficie già operata tramite processo scultoreo. È una sovrapposizione che ci parla sia di integrazione sia di estraneità, mantenendo aperta la questione.

Risposta:
Per quanto io spesso non rinunci ad una componente plastica, cerco sempre di evitare il peso della materia in favore del pensiero contenuto nel lavoro. Il segno che introduco spesso è segno di vissuto e mi aiuta a ribaltare eventuali rischi di effetti prospettici che non mi interessano. Utilizzo la profondità prospettica solo per contraddirla e renderla motivo di riflessione. Allora il segno, o i segni, si incidono nel tutto, sintetizzano l’attimo, il gesto e rendono lo spazio spiazzante e interrogativo.


Parti da disegni progettuali quando dai vita a un progetto scultoreo oppure è da una serie di disegni di valore autonomo che nasce l’idea?

Risposta:
L’idea può nascere in infiniti differenti modi, orari e circostanze. Un dettaglio insignificante si collega nella mia mente ad un’idea avuta chi sa quando e lasciata in sospeso. Quindi gradualmente si sviluppa. A volte devo fissare le motivazioni con appunti scritti, a volte faccio un rapido schizzo, in altre possono essere necessari numerosi disegni preparatori per fissare bene l’idea. Alcuni disegni nascono per essere esclusivamente se stessi ed allora la mia attenzione è rivolta ad una definizione più propria dello strumento scelto. Molto spesso i miei sono disegni incisi su superfici di legno. 

Guardando le tue opere si percepisce da un lato un’accurata progettazione e dall’altra la previsione dell’evento imprevisto che non viene espulso, ma inglobato.

Risposta:
Quasi sempre i miei lavori cercano di visualizzare un’idea chiara e in buona parte definita. A volte nascono lavori di cui non ho consapevolezza e di cui solo in seguito comprendo il senso. Quasi sempre accolgo volentieri l’eventuale errore/imprevisto, rendendolo mio e significante ai fini del lavoro che voglio ottenere. Il ‘difetto’, come 'l’ostacolo’, è una componente umana di difficoltà che, una volta superata, rende il risultato più completo ed ampio.

Anche sul versante geometrico non si ravvisa rigidità o esclusione, ma una metamorfosi che contempla il mondo vegetale o, in ogni caso, in cui geometrico e organico sono in relazione.

Risposta:
Una delle ragioni portanti del mio lavoro è esattamente ricordarci che ancora può esserci armonia tra le leggi della Natura e le scelte umane. Non mi stancherò mai di osservare e cercare di acquisire le ‘soluzioni’ che il mondo vegetale ci offre, quanto a strutture/forme/ritmi per adottare le sue illimitate variazioni e trasformarle per le mie riflessioni. Molto spesso, utilizzando soprattutto il legno, faccio in modo che convivano la mia elaborazione,  il mio gesto costruttivo e segnico, con la struttura naturale del materiale.

Hai lavorato per grandi musei ed esposizioni internazionali. Qual’è il tuo parere sul mondo dell’arte contemporanea?

Risposta: 
Ho avuto qualche buona occasione, ma non mi sento di far del tutto parte di quel che viene più esposto nella nostra contemporaneità. Raramente visito mostre di altri artisti, se non dopo un’attenta selezione. Non sono attratto dagli scandalismi o dalle atrocità prodotte per attirare l’attenzione di un maggior numero di curiosi. Troppe volte viene prodotta confusione, per esempio esponendo senza un senso e nella stessa sede autori di diverso contenuto e spessore. 

Tu sei anche personalmente impegnato in un’attività espositiva con la tua galleria Hyunnart Studio a Roma. Quali finalità persegui?

Risposta:
In una parte del mio studio, con una relativa frequenza, invito volentieri alcuni artisti che rientrano nei miei interessi e con cui condivido riflessioni. Ogni mostra ospitata nasce dal lavoro dell’artista e trova una motivazione che cerca di ampliarne il significato coinvolgendo il visitatore non solo come osservatore. La nascita dell’Arte Moderna è dovuta alle così dette Avanguardie Artistiche, diversi gruppi di artisti che hanno condiviso idee e intuizioni, pur seguendo ognuno le proprie differenti declinazioni. 

Credo che questo spirito di condivisione vada continuamente cercato e ritrovato.





Biografia
Paolo Di Capua è nato a Roma nel 1957. Dal 1976 al 1981 ha frequentato i Corsi di Architettura e Storia dell'Arte presso l'Università Nazionale della Sapienza ed il Corso dell'Istituto Europeo del Design a Roma. Nel 1985 si è diplomato presso l'Accademia di Belle Arti di Roma. E’ stato allievo dello scultore Lorenzo Guerrini. Dal 1983 ha soggiornato a Pietrasanta dove ha realizzato parte delle sue opere in pietra. Dall'inizio degli anni '80 ha tenuto mostre personali e collettive in Italia, Spagna, Germania, Corea del Sud, U.S.A. e Cina. Nel 1992 ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Arti Visive in Spagna, presso la Facoltà di Belle Arti dell'Università La Laguna', Isole Canarie, Spagna. Nello stesso anno ha partecipato alla Mostra ''Giovani Artisti'' presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma. Del 1994 è la sua mostra personale ''Il Valore dello Spazio'' tenuta al Castello Spagnolo Rinascimentale di L'Aquila. Dal 2001 ha aperto, all'interno del suo studio/laboratorio, lo spazio espositivo HyunnArt Studio. Nel ottobre 2007 ha realizzato un'opera permanente per una grande parete (mt.18x7) della Facoltà di Ingegneria, Erica Campus, dell'Università Han Yang di Seoul. Dal 2008 al 2011 ha tenuto un corso di insegnamento su Arte Visiva e Architettura, presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Han Yang. Dal 2009, alcune sue opere sono presenti nella nuova sede dell'Ambasciata e dell'Istituto Italiano di Cultura, a Seoul. Nel 2010 ha esposto nel Museo Civico di San Gimignano e nel 2010 presso il Museo della Seoul National University. Nel 2011 ha partecipato a Seoul per la 54^ Biennale di Venezia, Padiglione Italia nel Mondo. Nel 2013 ha esposto presso il Museo Bilotti, a Roma. Nello stesso anno la sua opera '' Crescita di Piante Notturne''  è stata acquisita dal Museo Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea a Seoul.

giovedì 21 settembre 2017

Sponde Congiunte’ mostra personale di Livia Liverani, a cura di Rosa Pierno, presso Hyunnart, Roma


"Sussurro notturno" 2017 cm150x100 cm pittura su cotone giapponese e collage


s p o n d e  c o n g i u n t e

*Livia Liverani*

a cura di Rosa Pierno

hyunnart studio – roma
Viale Manzoni 87

dal 6 al 28 ottobre 2017
L’inaugurazione si terrà venerdì 6 ottobre dalle ore 18.



“Sponde Congiunte”, ovvero ponte tra le differenze. Questo è innanzitutto il senso della mostra di *Livia Liverani* a Hyunnart Studio, ed in particolare dell’opera più significativa “Offerings for five senses” del 2013 (cm 370x74). Nel suo scandire accostamenti e distanze, sfioramenti e ribaltamenti, soluzioni squisitamente visive e invenzioni plastiche, sulla superficie comunque piana, intersecando il mondo delle tradizioni orientali a spinte nettamente contemporanee, troviamo sottili indicazioni di accadimenti e suggestioni di vita.

La sensazione è quella di attraversare un ponte nel mezzo di una piantagione di fiori di loto, simbolo di ‘purezza e armonia proveniente dal fango’ da cui osservare calamitati le coinvolgenti illimitate ‘posture’ che assumono i fiori, con i loro luminosi petali e semi-calici, e le foglie dalle infinite dimensioni e forme che si inchinano quando vi si posa al centro un sovrappiù di gocce di poggia.

Ma, come ben ne scrive *Rosa Pierno* in catalogo: “Che da fioriture si sviluppino fioriture non è una conseguenza così scontata, quando esse siano un artefatto, un'astrazione e, in aggiunta, quando da un contesto culturale di tipo orientale si passi a un contesto occidentale. Allora si comprende come non si tratti affatto di innesti, ibridazioni, talee che possano o meno dare i propri frutti, quanto di accostamenti di materie estranee, quali sono, appunto, la carta e la stoffa, l'acquarello e le *paillettes*, i cordoncini e i ricami.

Ma io vorrei subito affrontare il tema più periglioso e ambiguo di tutti: quel passaggio tra Oriente e Occidente che, osservando le opere di *Livia Liverani*, si perde subito di vista. L'artista romana, che ha profondamente assorbito la cultura orientale nei lunghi anni trascorsi in Indonesia, Giappone, Cina e Ladakh (India) è artisticamente rintracciabile nel processo di selezione e di assemblaggio dei materiali raccolti: lì dove un primo importantissimo discrimine viene segnato proprio dalla valutazione estetica dei materiali slegati da qualsiasi considerazione di altra natura, sia essa appartenente alla tradizione buddhista, sia a un sistema culturale specifico.”

Ovvero l’osservatore che ha ben conosciuto nelle radici le differenti parti, ha una posizione del tutto imparziale, ben comprendendo le ragioni delle differenti splendide e sofferenti ‘sponde’.

                                                                                   Paolo Di Capua


Biografia
Livia Liverani nasce a Roma nel 1962. La sua passione per le Arti Visive è iniziata sotto la guida della nonna pittrice Elvira Franceschini. Si diploma all’Istituto Europeo di Design (grafica editoriale). Frequenta il corso di pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma. Lavora per un quinquennio presso lo studio d’architettura Colony (Roma) e per l’Hotel Ritz (Parigi) come disegnatrice d’interni. Ha studiato Lingua e Filosofia Taoista presso l’Istituto ISMEO e Sanscrito presso il Centro Culturale Indiano a Roma. In Indonesia si occupa di *texile design*. Per approfondire la pittura orientale risiede diversi anni anche in India, Cina e Giappone. In Ladakh (India), sotto la guida di Lama Yeshe Jamyang, studia l’Arte delle Thangka tibetane. La sua prima opera su seta si trova nel monastero di Lamayuru. Lavora come illustratrice a Roma. Ha esposto suoi lavori a Barcellona, Roma e in numerose occasioni a New York.



*hyunnart studio *– viale manzoni 85/87  00185 roma – cel 335 5477120

pdicapua57@gmail.com  orari di apertura: martedì-venerdì 16-18,30 o per appuntamento

martedì 12 settembre 2017

“Éloge de Daumier” di Michel Melot, Pagine d’arte, 2012




In occasione della mostra “Daumier: attualità e varietà” che si terrà al Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona, dal 16 settembre 2017 al 7 gennaio 2018, sfogliamo un libro edito da Pagine d’Arte nel 2012, “Éloge de Daumier”, facendoci guidare dal magnifico testo di Michel Melot per avvicinare questo autore.

L’inchiesta che conduce Melot riguarda la popolarità di un artista impegnato, repubblicano della prima ora, anticlericale dichiarato,  che, eppure, è stato amato  dai conservatori più oltranzisti. Tuttavia ciò ci stupisce solo perché “Noi abbiamo dimenticato l’idea che l’avanguardia possa essere popolare, che un’opera di propaganda possa essere durevole”. Melot descrive gli inizi da pittore realista di Daumier, il quale disegna, per la stampa, caricature e scene d’attualità, ma lo fa con uno stile attento alla costruzione del disegno, alla modellizzazione delle luci, alla composizione dell’opera, indipendentemente dalla destinazione. Egli, insomma, “ha realizzato una grande arte pur nelle condizioni di un cattivo genere”. E quando è stato il momento di dedicarsi alle tele, non ha dimenticato quanto di espressivo, forte, dinamico aveva imparato disegnando per i giornali. Melot, con rapidi tratti, schizza a sua volta un indimenticabile ritratto dell’uomo e delle sue relazioni (Baudelaire, i Goncourt, Hugo), e ci fa entrare nel misterioso mondo della tecnica dell’artista ricordandoci che egli non copiava dal vero, ma grazie alla sua memoria visiva riusciva a restituire ciò che aveva osservato in una incredibile sintesi che aveva il suo fondamento nell’arte classica, quasi fosse l’artista stesso a imporre il suo modello alla realtà.

Nel pregevole volume, corredato dalle affermazioni della critica sul talento di Daumier, si può saggiare l’abilità fluida e potente con cui l’artista francese individua i gesti di un uomo malleabile come creta, quando precario nella posizione sociale. In qualche modo ciò configura anche il raggio di azione, di autodeterminazione a cui l’uomo può attingere. Valery ha fatto i nomi di Michelangelo e Rembrandt per il disegno di Daumier, che è stato anche incisore e che con i suoi neri drammatici, corpulenti, motili, registranti fremiti e pulsioni, sa immortalare il ridicolo nei comportamenti, il volgare nelle espressioni della classe borghese. Con magistrale capacità di cogliere una scena di vita reale o di rappresentare un simbolo, Daumier trasmette al suo pubblico i valori che oltrepassano la visione estemporanea di testimonianza e mostrare l’artificio di una presa sul reale che lo travalica. Mai ironico, come ha notato Henry James, ma tragico, almeno quanto tenace, la sua caricatura è già fuori dal genere. In alcune litografie, il ricordo delle stampe giapponesi  agisce come un suono che si dispiega in sordina e che travalica la presa quotidiana, rendendo il presente eterno.

                                                                 Rosa Pierno


sabato 2 settembre 2017

Dialogo tra la scultura di Petra Weiss e la fotografia di Luca Ferrario ad areapangeart






Un'idea affine percorre le opere dei due artisti in mostra, Petra Weiss e Luca Ferrario, così radicalmente diversi, l'una ceramista, l'altro fotografo, e consiste nella ricerca di ciò che si trova sul limine, tra coppie oppositive. È quasi possibile osservare il passaggio graduale che vira dal primo termine della coppia al secondo. Ad esempio, fra rigidità e morbidezza nella Weiss e figura e vuoto in Ferrario.

Guardiamo le opere in ceramica di Petra Weiss, con il loro taglio preciso, la durezza della materia e la curvatura che sembra ancora in atto, come fosse un organismo vivente, mobile; il nero dell'esterno, opaco, mentre la superficie interna, smaltata, reca segni colorati, apparendo più simile a una carta. Tutte le caratteristiche appena elencate non sono altro che aspetti discordanti, incompatibili, insiti nel medesimo oggetto, eppure, i passaggi tra di essi, sotto i nostri occhi, dispiegano una non soluta continuità: non c'è cesura. Aperta la via, il guado si mostra attraversabile.

Ferrario, in maniera non dissimile, riesce a cogliere il crinale ove il corpo si fa toccare dalla luce, divenendo quasi una lama metallica sottile e morbidamente flessuosa. Un attimo dopo, il corpo sparisce, riassunto nel nero vellutato e profondissimo di un cosmo senza altri soli.

Che il contrasto tra le materie in ambedue gli artisti determini differenti modi di lavorarle (scavare, modellare per Weiss o posizionare, far flettere il corpo per catturarne la sinuosità della linea in Ferrario) non è certo fattore secondario. Tuttavia, un altro punto si rileva ancora in senso diametralmente opposto fra i due artisti: il bianco/nero purissimo in Ferrario, ove la scala dei grigi sembra incredibilmente irrintracciabile,  pur trattandosi di un oggetto colpito da una fonte luminosa, e il colore smaltato od opaco che s'innesta sulla materie porose della Weiss. Il colore, che crederemmo irricevibile da una materia così severa, si distende lungo le superfici interne - della serie “Meteore” e della serie “Onde” - le quali accolgono segni leggerissimi, volatili, ove l’intervento dell’artista è questa volta effettuato non più con la manipolazione diretta, ma con il pennello. Essi si rincorrono costituendo una vera e propria scrittura: sogno di una continuità diretta tra espressione e traccia, che non passi per il significato, che abbiamo visto costituire una delle ricerche più ossessive nell’opera di Henri Michaux. E rivelandosi, proprio quest’ultima, nuova direzione di ricerca per Petra Weiss, e qui facciamo esplicito riferimento alla serie “Segni”, opere in gres, le quali si accampano nello spazio come segno simbolico di una immediata volontà espressiva, al di sopra, dunque, di un significato specifico individuabile.

Non vogliamo, in ogni caso, tirare giù i soliti riferimenti simbolici, ma attenerci a un'interpretazione che resti ancorata allo straordinario dato materico. Restare, cioè, aderenti alle caratteristiche della sostanza utilizzata, che gli artisti vogliono trasformare, a cui chiedono di assumere inusitate sembianze. La stessa Petra, in realtà, ce ne ha indicato la via con l'esperienza raccolta nel libro edito da Pagine d'arte, "Il viaggio dell'alfabeto" in cui essa situa le forme di argilla sul prato, come un nuovo, ricreato elemento, tra gli altri, ma al pari di essi, ponendo ciò che è artistico come naturale. Con tale presa di posizione, il riferimento ai simboli si fa secondario (il dolmen, la stele, la scrittura).

Il colore ha la capacità di trasformare la materia. Sembrerebbe che Petra Weiss modelli una mescola tenera, liscissima al tatto, morbida, mentre si osservano le soavi curve che raccolgono l'aria in maniera carezzevole. In qualche modo, sembra ancora una materia modificabile. In un certo senso si può dire che per l’artista, l'astrazione non è mai attingibile: tutto resta relativo a un piano d'immanenza. Weiss si tiene sempre accostata a tutto ciò in cui siamo immersi, all'ambiente, ancor prima che alla distinzione degli elementi naturali, quel fuoco, quell'acqua a cui si resta in debito per i processi di produzione dell'opera.

Il “bianco e nero” in Ferrari è profondissimo, ricorda il prossimo e il distantissimo, il visibile e l'infinito. Osservare le sue opere fotografiche fa venire alla mente l’analogo fenomeno della falce di luna, affascinantissimo perché quanto più si cerca di percepire la parte oscura tanto più si riceve uno smacco: sapere non è vedere! Ma anche vedere non è che guardare solo una porzione del possibile. La mente va a intessere le parti mancanti con una interpolazione ed è in questo che risiede il portato conoscitivo, ove anche l’interrogazione che ne risulta, l’impossibilità di addivenire a un dato certo, va ad aggiungersi a ciò che possiamo ottenere dall’osservazione. Forse l'azione del toccare non è mai stata più lontana. La ricostruzione mentale la travalica. E in questo punto, le posizioni dei nostri artisti divergono in maniera esponenziale. Il massimo della materia per la Weiss, il minimo della materia per Ferrario.

Ma ritorniamo alle affinità tra le sculture ceramiche prodotte con l'argilla di Riva San Vitale, nel Mendrisiotto, sottoposte dall’artista a una cottura a mille gradi, di Petra Weiss, e la stampa a carbone, tecnica utilizzata da Luca Ferrario per ottenere i suoi astrali neri e le sue fenditure di luce, i quali indicano un corpo che si riduce sino ad assottigliarsi, quasi nel tentativo di saggiare la sua stessa persistenza nel visibile. In questo senso, anche per Ferrario, l'astrazione viene rigettata, e ciò avviene proprio sul crinale da cui si avvista l’astratto. Entrambi gli artisti, infatti, pur se da sponde così distanti, restano ancorati al concreto, al dato riconoscibile, al figurativo come a un valore primordiale. La forma resta sempre riconducibile al conosciuto che s’avanza nei territori della trasformazione (alchemica o scritturale per Weiss, ridotta a puro segno luminoso per Ferrario) in cui essa diviene oggetto sconosciuto.

Apparentemente antitetici, al primo sguardo, i due artisti mostrano invece di instaurare, anche se a distanza, un'insolito dialogo, pur condotto su vie isolatissime e prive di incroci, mostrandoci come in arte, ciò che appare, il visibile, sia qualcosa da inventare tramite interpretazione, la quale a sua volta può nutrirsi solo di materia e corpi.

                                                                              Rosa Pierno