martedì 26 aprile 2016

L'opera raffinatissima di Oan Kyu, artista coreana



Frante le trame con un colpo netto, non ferma i virgulti d'inchiostro, i quali tentano di raggiungere il bordo del foglio per aggettare verso l'aperto.

La carta si rapprende come per una distrazione dovuta a un trasalimento della stessa superficie, il che dimostra che essa è appena un paravento, una postura della volontà, non ha le caratteristiche sperate, forse è di altro spessore.

Carta, stoffa, o materia ideale, lo dice il segno che s'inarca come se vibrasse; a tratti, scossa da un sussulto interiore, esterno al sé.

La tratteggiata elargizione toglie spazio al vuoto, lo riduce.

La riga non può mai essere veramente dritta. Non esiste al mondo un siffatto segno. La mano percorre la distesa bianca, il foglio che scivola serico e morbidamente accoglie il pondo e il punto.

La linea attraversa il foglio ricordandosi del picciolo della foglia: anche la carta non è distante dalla pianta, come si fa a separare materia da materia?

Con un alfabeto personale dove il tracciato esiste perché collega punti, macchioline messe lì per non perdere la retta via, scrive qualcosa su un mondo che non può essere decifrato.

L'enigma si installa nella mente alla casella deputata, accanto ci sono i pennelli, la pietra d'inchiostro, il bicchiere.

Sarebbe l'universo letto, oppure tradotto in codice. Trasformato in un'altra forma, più adeguata all'umana mente.

La forma ellissoidale, non ha due fuochi, ma plurimi, tutti infilzati da parallele che non s' incontrano nemmeno sul piano. Una certa propensione al silenzio non impedisce di pensarlo puntellato da macchie.

L'assioma afferma che un punto non può non essere intercettato da una linea. Le linee non si accavallano mai e riescono in questo modo a soddisfare le premesse.

Lascia che la linea si rigonfi, trovi ostacoli nella fluenza, la disegna come avesse un moto, come stesse lì lì per fuoriuscire dal solco che la irregimenta.

Il segmento detesta trovare sul proprio percorso, nel proprio letto, il punto. Che non è proprio punto, ma il ricordo di ciò che è stato, qualcosa di prosciugato. Fossile sostanza.

Dunque, c'è un prima e un dopo. C'è un andare e ritornare, un andirivieni indaffarato. Un gran daffare si dà la linea per non doversi arrestare. I punti sono sempre in agguato, tendono una mortal trappola.


Esisteva prima il punto, la linea succede e lega lo slegato, lega ciò che non ha relazione, né un disegno preordinato.

I bordi definiscono la forma dell'universo. A volte le linee riconoscono che il foglio è il più piccolo dei mondi possibili e ampliano la linea d'orizzonte per favorirne l'espansione.

La vena d'inchiostro denuncia una variazione nella superficie che non necessariamente corrisponde a una variazione reale. Marca con precisione l'inesistente.

Alcuni punti sembrano essere esplosi, altri si addensano fino a segnalare un buco nero. Non è una  cosmografia né uno stellato firmamento,  é un tracciato dell'anelare, di un desiderio divelto.

Ingrossando alcune linee, si crea un ritmo alterno in un suono continuo. Proviene da profondità intestine, di cui non s'intravede il fondo.

Le partizioni del foglio dicono che il trattamento prevede una diversificazione nel procedere. Non sarà mai un tornare indietro. Al telaio, il filo non può passare nel medesimo punto.

Un'onda deve pur scuotere la superficie, qualcosa che provenga da un passato remoto e ora giunga come un fremito lungo a smuovere ciò che é sedimentato.

Secoli di scrittura non hanno esaurito la descrizione di un pennello quando incontra la carta. Finirà prima il mondo.

L'onda attraverso la mano e giunge alla carta. É il moto scatenato dalla mente.

Un impulso che ha il medesimo ritmo del cuore. É un respiro che solleva l'infinitesimo e il macroscopico. Esiste un collegamento che denuncia l'esistenza di una medesima sostanza.

Oppure un moto sotterraneo, qualcosa che si può rintracciare  solo nel passaggio della mano sul foglio, che, in tal guisa, riappare e resta visibile.

Non esattamente profili determinati dalla proiezione di cime, ma onde, simili a quelle di un lacustre specchio, appena increspato.

O anche code di pesce preistorico che danno il segno della propria presenza in quell'unico modo. Per questo si potrebbe sospettare che esistano i marini mostri, ma solo su carta di riso.

Le macchie dai contorni irregolari dicono dell'esistenza di un residuo, un imperfetto modo d'essere, uno spurio addensarsi, un che d'incongruo che mina la materia.

Una miccia, pronta a far saltare i filari, a debordare, ad accamparsi tra le righe, nella zona neutra, che non deve essere solcata.

La macula, interrompendo i filari, impedisce che si creda a una continuità. Insorgono ulteriori intralci, solo mentali,  e il fermo immagine s'imprime nella mente.

La continuità non s'é mai data senza interruzione. Non è mai esistito un punto senza una linea.

                                                                       Rosa Pierno



martedì 19 aprile 2016

Edouard Taufenbach alla galleria Spazio Nuovo Contemporary Art


Il giovane artista francese Edouard Taufenbach, che espone presso la galleria Spazio Nuovo Contemporary Art dal 7 al 27 aprile 2016 a Roma, ha ricoperto, totalmente o parzialmente,  il color seppia delle fotografie ottocentesche prelevate da un album di famiglia, con colori trasparenti, tipici delle vetrate. Da tale trasparenza s’intravede con precisione la foto sottostante, ma si percepisce anche un’alterazione,  che la  estromette dal mondo privato e affettivo di cui faceva parte per consegnarla a una sorta di memoria artefatta, artificiale.

L’insieme delle opere sulle pareti diviene allora una sorta di wunderkammer, in cui agli oggetti collezionati sia stato, però, tolto il sostrato materiale. Vi è implicata, pertanto, una tripla trasformazione: dalla persona fisica alla fotografia (dagherrotipo) fino all’opera in esposizione e, pertanto, l’individuazione delle categorie dell’essere, sono a dir poco problematiche.   Difficile rispondere, di conseguenza, alla domanda: che cos’è?

A complicare le cose, l’utilizzazione della ricerca grafica effettuata da Josef Albers, professore alla Bauhaus - ed espressamente citata da Taufenbach - il quale cercava di sovvertire l’ordine statico della pittura, ponendo in evidenza la loro instabilità e il loro carattere ambiguo, ha, qui, come obiettivo la strutturazione geometrica di un dato esistenziale: il paradosso non è, invero, nemmeno tale. Esattamente come nella ripetizione del medesimo, che viene inscenato senza alcuna variazione se non coloristica o di posizione (la foto appare ruotata e replicata), l’oggetto in questione  si situa sul limine del biologico e del geometrico senza poter cadere in nessuno dei due campi.

Questa specie di zona neutra non solleva un problema che si possa risolvere. Il discrimine è lampante, in quanto anche il geometrico, essendo colorato, è sottratto all’area mentale ed è esperito sensibilmente, mentre ciò che pertiene all’organico è raggelato in un vitreo raccoglitore e la sua replica nega proprio uno dei mattoni della vita: la diversità. Così l’individuo ivi raffigurato è presentato sub specie aeternitatis, ma anche in questa guisa, non entra nell’ambito esclusivamente mentale.

Con tale apparente scambio di attributi, l’opera Edouard Taufenbach si situa appieno in una ricerca che indaga le caratteristiche implicate nella conoscenza, riconoscendo che i limiti non vanno superati, ma mostrati. E che i problemi sono più interessanti delle soluzioni.



“Hommage
Mostra a cura di Guillame Maitre e Paulo Perez Mouriz
Spazio Nuovo Contemporary Art
Via D’Ascanio 20, Roma

                                                                                  Rosa Pierno   

mercoledì 13 aprile 2016

Marie Curie “Pierre Curie, mio marito” Gattomerlino edizioni, 2015

Sarebbe paradossale il libro su una coppia, se esso non consentisse di penetrare nella sua intimità, eppure è proprio questo il caso, poiché essa è completamente estroflessa nella vita pubblica: ecco il singolare lascito dello stupendo libro di memorie scritto da Marie Curie Pierre Curie, mio marito, edito da Gattomerlino edizioni nel 2015,  per ricordare la persona e l’attività di Pierre Curie, intendendo in tal guisa innalzare un monumento all’uomo ad uso delle generazioni future.
Nel parlare della produzione scientifica e della dedizione al lavoro del marito, Marie Curie non può evitare di parlare della loro collaborazione, avendo condiviso con lui gran parte delle ricerche che hanno fruttato loro il Premio Nobel, ma si comprende che lo faccia quasi con imbarazzo. La palma Marie la assegna a Pierre e lei si disegna come figura in ombra, poiché, appunto, codesto è sopratutto un libro di amore. Di stima senza limiti.
Tuttavia, ben presto, nello svolgersi della narrazione, altri elementi concorrono a disegnare la complessa scena: la descrizione del lavoro in laboratorio e delle difficoltà procede senza che mai il resoconto della ricerca si separi dal lungo elenco delle difficoltà in cui la coppia si è trovata a operare, formulando una denuncia che ci colpisce in pieno in quanto cittadini: il disinteresse e spesso l’indifferenza con cui sono accolte quelle imprese portate avanti dal singolo quando non è immerso nella rete delle raccomandazioni istituzionali.
Se la scienza non è argomento di facile divulgazione, essa, ieri come oggi, risente anche di un’opinione negativa e, questa sì, capillarmente diffusa, per cui a mancare è proprio il sostegno della società civile all’impresa scientifica. Risulta lampante, pertanto, come il valore dell’educazione e della preparazione culturale divenga uno dei temi centrali, anche se indirettamente, per la soluzione del problema.
Tuttavia, nel racconto di Marie Curie emerge in maniera particolarmente spinosa anche il problema relativo al ruolo degli stessi operatori sceintifici, responsabili del mancato riconoscimento degli strabilianti successi ottenuti da entrambi i coniugi. A parte il concreto aiuto offerto dai pochi è notevole l’indifferenza dei molti.


Seguiamo con dispiacere lo svolgersi faticosissimo e privo di mezzi -  se non quelli messi a disposizione dall’appassionata dedizione dei coniugi all’ideale del vantaggio della collettività -  grazie ai quali gli esperimenti hanno, nonostante tutto, avuto luogo  (pur se Marie e Pierre erano privi di finanziamento, di luoghi adeguati e, ove, oltretutto, al freddo del capannone si accompagnava la fatica di dover scaricare enormi quantità di minerali e il doversi incaricare dell’approvvigionamento degli stessi). 
Alla sequenza di straordinarie scoperte nei campi della cristallografia, del magnetismo, della piezoelettricità e della radioattività  si accompagna l’altrettanto lunga lista di richieste mortificate e di riconoscimenti mancati. Eppure, l’irriducibile atteggiamento di resistenza e di caparbietà negli anni, continua ad accompagnarsi a ideali che non vacillano, anche in condizioni avvilenti. Pierre appare come un uomo non abbattibile, perché il suo ideale lo spinge a superare ogni problema in vista di un miglioramento di vita della popolazione mondiali (la loro rinuncia ai diritti delle scoperte viene perseguita per favorire la ricerca di tutti gli scienziati). Già durante lo sviluppo delle loro ricerche,inoltre, vengono messi a punto i primi laboratori medici che sfruttano le caratteristiche della radioattività per cure mediche.
Vogliamo notare per inciso che l’amore di Marie per Pierre la rende incline a scrivere un libro di memorie in cui lei si assegna quasi un ruolo secondario rispetto all’attività di lui,  in funzione di un amore che non trova limiti né in sé né nella persona amata. Se limiti ci sono, essi risiedono nell’accoglimento dei risultati scientifici da parte della comunità, la quale si nutre, per un difetto del sistema educativo, di una sclerotica visione di separatezza culturale che contrappone la scienza ai valori umanistici.
                                                                                     Rosa Pierno

giovedì 7 aprile 2016

Giovanni Campi “abbecedarj paralleli” eBook

eBook pubblicato da www.larecherche.it in collaborazione con Versante Ripido



Siamo caduti come Alice nel paese delle meraviglie nel pozzo, abbiamo pur anche cambiato dimensione e ci apprestiamo a farci sorprendere dalle meraviglie di una riscrittura che cela in se stessa, per esser riscrittura, la propria ragion d’essere. Qui lo si afferma in maniera perentoria: la scrittura come il sole ha sfiatatoi che eruttano altri soli, altri oggetti letterari.

Questa sorta di preambolo, salito a fior di labbra già alla lettura della prima poesia appartenente alla raccolta di Giovanni Campi, “abbecedarj paralleli”, liberamente scaricabile dal sito www.larecherche.it e realizzato in collaborazione con Versante Ripido, ci consente di centrare direttamente la questione: la manipolazione del linguaggio, quasi come in un congegno di Kubrick, dove al solo ruotare le sillabe di una parola, ne compaiono almeno altre tre e dove  esplodono, come mazzi di fiori dal cappello di un  prestigiatore, i significati rispetto ai quali la favola delle Metamorfosi di Ovidio, si fa, appunto, pretesto, puro graticcio per rampanti germogli.

Che sia questione di pretesto in letteratura, non è il caso qui di ripetere, sufficiente il riferimento in esergo al Manganelli di La letteratura è una menzogna, citato dallo stesso Campi. Più interessante ci pare il dibattere dell’utilizzo di un linguaggio arcaico o desueto (prelevato da testi cinquecenteschi) che d’un colpo ci appare più innovativo di quello contemporaneo. Non sia paradossale affermazione, ma concretissima, consequenziale, che vale come risposta alla consuetudine di certa poesia attuale che utilizza un linguaggio piano, semplificato, sottoposto a minimalismi d’ogni sorta, che si sposa con esperienze di vago interesse e di ancor più incerto valore.  Ci preme insistere, allora, se proprio ci deve essere un partito preso delle  cose, che c’interessa del linguaggio la sua possibilità di non precludersi alcunché. Se il contatto con l’essere è problematico, non si possono recidere le risorse del linguaggio, che quel rapporto deve istituire, per tentare di semplificare il problema e proprio ora, oltretutto, che la sfida della complessità ci spinge a mettere a punto strumenti maggiormente duttili.

Ma ritorniamo nell’officina vulcanica di Giovanni Campi:

ma dove? ‘l lupo ‘n fabula, nocchiero
di urn’o teche, la lunululante ‘nspera,
e numerando ‘l caos – vocj ‘l c’era,  

qual volta? sacer d’ozj l’insincero
divin concilj ‘ fulmini, ‘ diluvj,
d’i tuoni ‘n van emessi sen profluvj  

ove diurno (di urn’o) diventa il punto mediano, il legaccio tra nocchiero e teche, il che dimostra come la variazione del significato se si dà col significante, operando direttamente nella materia linguistica, lega forma e contenuto in maniera inscindibile, dando già sul solo versante linguistico la  corrispondente oggettualità che si riscontra nel reale: materie diverse, ma materie entrambe. Se poi si volesse aprire la questione del modo in cui le due materie si corrispondano, non è, a ogni modo, questione letteraria: essendo, la letteratura “una menzogna”, appunto.  

Tutta da godersi, da assaporarsi in relazione alla più o meno estesa preparazione che si possieda, i cristalli testuali molati da Campi, più che lenti con cui guardare al reale, sembrano mettere a fuoco opere precedenti. Una scrittura che si dica contemporanea è necessariamente una scrittura che sa inglobare in se stessa le scritture precedenti: sostrato in qualche modo fondante, giacché ci si può riferire alla dimensione del tempo solo presupponendo una tradizione.

Questo libro si pone nell’ambito del genere che rende la riscrittura del libro di un altro autore, un esercizio di meta letteratura e, in questa tessitura, è inscritto anche il meccanismo che  presiede alla sua costruzione. Se la transtestualità è una caratteristica a fortiori della letterarietà, è ancora più giusto analizzarla quando ne diviene elemento centrale, come nel siffatto caso. Infatti la trasposizione linguistica nelle forme stilistiche del cinquecento, marca l'operazione come squisitamente linguistica, ed è quindi qui che bisogna cercare la peculiarità dell'operazione.

Inoltre, certi "topoi"  stilistici e tematici, ricorrenti nella tradizione di Catullo e Ovidio, sono ricorrenti anche nella tradizione del Quattrocento e del Cinquecento, ma consentono di isolare, come in una camera asettica, il funzionamento del linguaggio tra mimetismo e trasformazione. E qui potremmo fare un nome per tutti quello di Francesco Colonna con la sua "Hypnerotomachia Poliphili" del 1499.

La transtetualità del testo è l'insieme di "tutto ciò che lo mette in relazione, manifesta o segreta, con altri testi" (G. Genette Palinsesti). Inevitabilmente la citazione comporta un testo di secondo grado (in questo caso complicato dall'inserzione delle illustrazioni realizzate da Giacomo Paolini, "Grotesque alphabet in mythological landscapes", che rappresentano i medesimi temi mitologici) attirando nel proprio vortice anche altre opere (anche qui, faremo un solo nome, quello di Dante, per tutte). In ogni caso, dire la stessa cosa in modo diverso non è più dire la stessa cosa: qui si apre l'abisso plurimo, la trappola di specchi che si riflettono l'uno nell'altro e rendono l'oggetto d'arte particolarmente complesso.

Si guardi a questa mirabile terzina :

l’es empio l’esemplar istesso o nuole
la copia ‘l specular per speglj, d’eco
‘l risuon rintocco secolar i’ preco

In tre versi si condensa l’intera vicenda di Narciso, la quale si dipana come tra le righe, mentre, sono conficcate nei lemmi, come leve, schegge che sollevano la superficie testuale, facendo intravedere al disotto delle chete acque, l’io di Narciso e della ninfa Eco, i quali agiscono non per volontà: l’esempio diviene l’es empio che non vuole la copia, lo specular (riflettere)  per specchi-ritratti, mentre l’eco diviene ritmo, cadenza temporale, che si sedimenta in secoli. Ma valga solo questo come esempio, per dire della scrittura preziosa, cesellata di Giovanni Campi.

Se ascoltiamo il messaggio di Mallarmé: "Ton acte toujours s'applique à du papier; car méditer, sans traces, devient évanescent", vi troviamo conferma che nella materia della traccia è rinvenibile il pensiero. Nel libro di Giovanni Campi si tratta di rintracciare le iscrizioni interne ed esterne, mettendo a frutto le acquisizioni dell’iconologia e della documentalità. Tale sinergia si coglie visivamente per la presenza delle immagini che accompagnano ogni poesia tratte dalla collezione di stampe di Giacomo Paolini: illustrazioni risalenti al XVI secolo.  Le immagini provengono dalla collezione del British Museum di Londra, nata dall'acquisto, nel 1753, della collezione del conte di Oxford.  La presenza delle grottesche che fa da cornice a ogni scena e che denuncia l'influenza raffaellesca, riporta in primo piano la questione insita nella traduzione - di cui Raffaello parla in una lettera al Castiglione - effettuata tramite astrazione e schematizzazione rispetto alla complessità del modello pittorico:  se la riproduzione si pone in ruolo subordinato, la posizione dell'incisore si capovolge  nella capacità inventiva e interpretativa indipendente dal modello. E in ciò possiamo ritrovare, come un quadro nel quadro, (caratteristica tipica dello stile shakespeariano) il legame tra opera visiva e testo nel libro di Campi.

La riscrittura ha significato in quanto, come in un’elevazione all’ennesima potenza "Il sentimento di univocità che caratterizza ogni soggetto dipende dalle sue peculiari deviazioni dalla norma" (M. Ferraris Documentalità). E, allo stesso modo, il principio di individualità/individuazione vale anche per le opere d'arte caratterizzate dallo stile. Tuttavia, ci preme sottolineare che, più si tenta di ridurre   le diverse forme espressive del linguaggio e dell’arte visiva a una vicinanza promiscua, più emerge la loro irriducibile specificità. Saldando in un solo anello le assediate forme - le opere della tradizione, le immagini e la riscrittura -  dal loro sincretismo si ottiene il motivo della loro necessità: niente si può produrre e niente si può distruggere nel sistema culturale, ma non è legge di natura: è artistica norma.


                                                                              Rosa Pierno