Una poetica
dell’indeterminatezza, dell’alone che non corre il rischio di farsi congelare
nella fissità di un concetto o nella definizione nominalistica, fosse pure il
portato di un’esperienza, perché nemmeno quest’ultima può essere costretta in
un calco, in una standardizzante formella. Mantenere le frontiere aperte,
smussare gli spigoli, elidendo gli scontri, avvicinarsi a una fonte originaria
del sentire e del pensare che non costringe a percorrere strade già note e
lascia la questione appena circuibile, illuminata dai primi chiarori dell’alba,
e così per sempre conservandola. Che siano bambini o sogni, plurime apparenze o
idee proiettate, non importa al lettore instradato da Giorgio Bonacini su un
percorso che ha quasi la forza di una rivelazione non comunicabile. E proprio
flebili percetti, tremule sensazioni, proiezioni emozionali, idee dai bordi
incerti donerebbero al soggetto la capacità di restare in una ricezione che non
si chiuda e non si neghi. Accogliere tutto ciò che sta prima di una compiuta
forma. Farsi contenitore, sostenere e dare abitazione. In questo senso, l’individuo
abbatterebbe le specificità e la singolarità persino, sarebbe foglio-mondo,
scrittura come apertura. Indubbiamente, qui, parrebbe che ci sia una grande
inquisita, la ragione: si parla d’intuito, d’immaginazione, di emozione, di
ricordi. Ma in questa direzione vanno anche i lemmi: ‘timore’, ‘ronzio,
‘sibilo, ‘fruscio’, ‘abbaglio’, ‘accento’, i quali formano una costellazione
che delle capacità umane traccia una mappa in realtà precisa e circostanziata.
Non fosse altro che, a riprova, il mondo degli adulti è tacciato di ‘troppa
lucentezza’, ‘linee sghembe’, ‘figure quasi inabili’, a rimarcare, in tal
guisa, l’insufficienza di una ragione che si voglia esaustiva, ed è in qualche
modo persino umiliante nei suoi effetti, rispetto a una richiesta di cura e
amorevolezza per l’informe, il senza categoria. Ma pare che per gli adulti sia quasi
occasione perduta, come si è persa l’infanzia, o forse non raggiungibile del
tutto, anch’essa solo parzialmente ideata.
2.
E
dove il tempo degli occhi
finiva,
uno spreco inusuale
nella
generosità di se stessi
avrebbe
attraversato l’incanto
con
la velocità delle nostre
parole,
scivoli ormai intrattenibili
presi
da un’allucinazione
nel
sintagma di un cuore isolato.
E
qui si sarebbero forse adagiati
e
lasciati l’un l’altro a guardare
compressi
nei loro segreti
avrebbero
avuto altri suoni
e
pensieri – e movimenti di muscoli
agli occhi, e bocche precise.
3.
Così,
al centro di quel nome
ritrovato,
nel fondo calore del suo
ritrovamento,
una teoria di vento
ci
avrebbe detto e consegnato
alcune
cose senza peso
senza
limite di forma o di misura
e
d’improvviso avremmo visto
anche
l’istinto di un timore
l’apprensione,
l’invadenza
di
un intuito appena dopo la paura.
Ma
nel segno di una buona
insensatezza,
avremmo subito
pensato
a ciò che dicono si pensi
in questi casi – a ciò che
esiste.
4.
E
nel ricordo di una grande
resistenza
si sarebbero confusi
mescolati,
deformati in tutti i suoni
per
quel sibilo e quel tuono.
Ma
se qualcuno avesse agito
con
dispetto, allora sì, nel loro
corpo
e nella loro somiglianza
sarebbero
apparsi come noi
li
avremmo visti e immaginati –
se
fossimo stati accanto a loro
se
respirando insieme a loro
li
avessimo tenuti dall’inizio
e
sollevati e riportati al ritmo
di quell’impeto e quel mito.
5.
E
avremmo smesso già
da
tempo di graffiarli, urtarli
disarmarli
e di sprecare i loro
volti
e consumarli – e discendendo
dove
l’argine si abbassa dentro
il
fiume, scivolando a scorticarci
li
avremmo poi soccorsi, presi
al
volo e sollevati e portati
quasi
incolumi al sollievo.
E
lì, al riparo di un sostegno
ci
saremmo scrollati il torpore
cacciato
l’oblio dalla voce
e
dall’acqua li avremmo salvati
asciugati, e forse guariti.
È possibile leggere l’ebook al
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http://www.poesia2punto0.com/2015/03/22/inediti-n-24-giorgio-bonacini/
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