venerdì 30 dicembre 2011

Alejandra Pizarnik “Poesia completa”, Lumen, Barcelona 2016, traduzione di Alessandro Ghignoli



È possibile riscontrare un particolare esempio di relazione tra poesia e prosa nel libro di Alejandra Pizarnick, “Poesia completa”, Lumen, Barcelona 2016, nella traduzione di Alessandro Ghignoli.  Alla prosa viene affidata l’espressione di una visione del mondo di fatto poetica e alla poesia numerose volte l’autrice fa riferimento come a un traguardo irraggiungibile:


Sulla vetta dell’allegria ho dichiarato riguardo a una musica mai ascoltata. E cosa? Magari potessi vivere solamente in estasi, facendo il corpo della poesia con il mio corpo, riscattando ogni frase con i miei giorni e con le mie settimane, infondendo alla poesia il mio soffio man mano che ogni lettera di ogni parola è stata sacrificata nelle cerimonie del vivere”.


Dunque, la poesia sembra essere irraggiungibile, almeno come condizione dell’animo che non soffra di soluzione di continuità. Rispetto ad essa, il ricorso alla prosa appare il trampolino di lancio dal quale tentare un avvicinamento alla soglia poetica, che si sa fin d’ora già affetto da saltuarietà. Ma la prosa mostra di evitare anche certe finte derive del poetico, che hanno il sapore di un dolce troppo carico di zucchero. Essa, inoltre, consente di evitare la maggiore astrazione del linguaggio poetico e sviluppare un discorso solo in apparenza affabulante, in realtà logicamente strutturato, poiché nessuno dei punti che costruiscono il discorso può essere saltato: cambierebbe senso, non si gusterebbe il sapore del ragionamento che, in siffatta teatrale scenografia, onirica, infantile, mnemonica, sinestetica, pure, la poetessa argentina innalza con grande saldezza.

Se la poesia, in aggiunta, appare in veste di chimerica essenza, poiché sembrerebbe nascere solo dalla trasfigurazione alchemica del proprio corpo, del proprio tempo, persino del tempo sprecato “nelle cerimonie del vivere”, allora si constaterebbe un divario non rimarginabile tra poesia e prosa. Tuttavia, non pare esservi traccia, nella prosa di Alejandra Pizarnick, di nulla che rimandi alla banalità del quotidiano, alla perdita. Tutto vi appare favoloso, intriso da fervida immaginazione e percorso da una musica continua:


“La bellezza dell’infanzia ombrosa, la tristezza imperdonabile tra bambole, statue, cose mute, favorevoli al doppio monologo tra me e il mio antro lussurioso, il tesoro dei pirati sotterrato nella mia prima persona singolare”.


La sinestesia diviene uno dei più produttivi strumenti in tale prosa: un mezzo di classificazione (“Vedo la melodia”), uno strumento epistemologico senza il quale non potrebbe darsi alcun ordine all’esistente. Essa salda realtà e visioni, connettendole in un tessuto privo di asole o sovrapposizioni, ove oggetti disomogenei paiono avere la medesima sostanza, saldandosi in continuità. Con una straordinaria capacità, Pizarnik forgia la sintassi come se la lavorasse su un’incudine, ottenendone risultati stranianti e metamorfici; la rende elastica, morbida, poliforme:


“Conosco la gamma delle paure e quel cominciare a cantare lento nel passo che riconduce verso la mi sconosciuta che sono, la mi emigrante di sé”.


“La solitudine è non poter dirla per non poter circondarla per non poter darle un volto per non poter farla sinonimo di un paesaggio”.


Un simile uso della lingua, naturalmente, le risulta necessario per dare voce a un’interiorità capovolta, come accade nella retina, prima che la mente corregga la visione. Il risultato mirabolante, così ottenuto da Pizarnik, è che ciò che è esterno appare inusuale e ciò che è interno appare estraneo. È un meccanismo che  sospende il senso, che consente di restare sui bordi di materiali o concetti che altrimenti, come se fossero posti su una china, cadrebbero risolutamente verso un senso definito. La Pizarnick mantiene il senso in una sospensione collosa, ce lo fa osservare come se attuasse un esperimento grazie al quale è possibile effettuare operazioni che trascendono la realtà, indicando, in tal modo, che, quando ci si immerge nel linguaggio con libertà, la distinzione, tra realtà e visione interiore diviene inesistente:


“Disegno sui miei occhi la forma dei miei occhi, nuoto nelle mie acque, mi dico i miei silenzi”. 


La poetessa risolutamente si dirige verso l’abbattimento di quei limiti che non ci consentono di guardare oltre la fisica. E, tuttavia, è consapevole che il già il solo tentativo, operato col linguaggio, restituisce il traguardo agognato. In questo senso, “Non credere che siano vivi. Non credere che non siano vivi” è esattamente ciò che intendevamo all’inizio, quando facevamo riferimento a una logica, anch’essa riformulata, che acquisisce un ruolo attivo nella costruzione del cosmo poetico interamente ricreato in alchemico antro dalla poetessa. È un insieme ordinato di cose all’origine incongruenti, che la portentosa capacità poetica di Alejandra Pizarnik sostituisce al  nostro consueto universo e all’interno del quale c’intrappola come in una favola lucida e crudele. Una sua affermazione,“La solitudine sarebbe questa melodia infranta delle mie frasi”, starebbe proprio a  dimostrare che l’unica realtà è quella della propria visione formulata attraverso il linguaggio e che soltanto da quest’ultimo può scaturire una fiabesca unione. Senza più distinzione tra poesia e prosa.




                                                                                        Rosa Pierno

martedì 27 dicembre 2011

Francesco Marotta “Esilio di voce” Smasher, 2011


Nell’ultimo libro di Francesco Marotta “Esilio di voce” Smasher, 2011, risalta, immediato, il forte motivo della scrittura ingaggiante con la realtà una lotta per l’egemonia, poiché si direbbe che il senso appartenga soltanto alla scrittura, a una realtà artificiata, dunque. Innanzitutto è una scrittura che s’accampa su qualsiasi superficie: pelle, occhi, carne e si appropria di vocaboli che appartengono alla natura: argine, margine, sentiero, pietra, acqua, cielo:

paesaggi che alle palpebre tendono ombre
e distanze a volte un passo che irrompe
nel viluppo a sfrondare la norma
la linea di bianco imposta
dall’ennesimo inverno eppure
si potrebbe affidare l’oltraggio a grammatiche
docili ogni senso al destino e svanire
al suono che la preda sbalza dal sonno
verso una morte in punta di rima

ove si vede che persino la morte acquista spessore soltanto nell’inchiostro della grafia. Ma soglie, ombra, specchio in qualche modo ne fanno echeggiare come un falsetto la nuda sostanza, pura inconsistenza, denunciandone la falsa legittimità ad accamparsi in vece del reale.
Già in difficoltà, il linguaggio viene aggredito dal poeta che ne mostra con grande tensione le lacune, le fallacie, gli scarti in agguato. Torsioni imposte al linguaggio non ottengono che di mettere in nuce fatiche, eccedenze, discordanze e, forse, un’offerta di silenzio. Ma anche il silenzio, come pausa in ovattata neve, pur se “accordo muto”, non è che misero traguardo.

La guerra non vede una sola battaglia, ma molteplici vittorie e sconfitte. L’amarezza di trovare:

avanzi verso un mare inaccessibile
e la sera ti impiglia nello sguardo un diluvio
di sillabe l’onda franata sotto i passi
e quel tempo di amare che ha l’ombra
quando ne invochi il morso vivo
dove trovare riparo

denuncia la supposta vittoria del linguaggio sul reale, e in fondo l’insensatezza della pratica della scrittura rispetto all’esigenze di un’esistenza che vuole vivere e non scriversi addosso. Eppure, il linguaggio non è il nemico, lo si vede nella raffinata elaborazione poetica che non disdegna assonanze e rime sparse, quasi inattese, le inarcature frequenti, le variazioni incessantemente cercate, pur nella ripetizione di alcune parole-chiave, le quali fungono da boe per il reticolo tematico, il tutto nella forma della metrica libera. Tale cura, affettuosa e carezzevole, ci restituisce una voce interiore accorata e umanissima.

In ogni caso la tessitura che si va stringendo forma un tappeto sonoro in cui i termini della scrittura sono frammisti e oramai inglobati con i lessemi appartenenti all’ordine naturale e forse l’impossibilità di distinguere fra di essi potrebbe costituire l’utopico sogno di Francesco Marotta, pur nella consapevolezza che esso non possa realizzarsi che durante la lettura – oramai esclusa la possibilità che essa si dia nella scrittura, sottoposta a una lucidissima analisi, benché condotta con mezzi poetici, che ne mette in rilievo l’assurda pretesa di restituire il reale o forse si dovrebbe dire “l’assenza” del reale. 

Quali trine, merletti, ricami si diano tra sponde inaccostabili lo si evince da:

si trattava di attese esercizi
privi di simboli come adornare sbrinati
specchi col battito salino
di una pupilla naufragata

perché se è certa la disfatta è anche salvo l’onore data la resistenza attuata tramite tale metafisico esercizio, visto che l’assenza appartiene alla totalità e riduce ogni dettaglio al nulla. La stretta rete ha trattenuto pagliuzze d’oro in sospensione acquorea e ora bagliori indicano l’esistenza della sostanza così strenuamente cercata, impossibile da individuare altrimenti che con la scrittura, naturalmente:

solo l’ombra che resiste intatta
al congedo dalla sua dimora
conserva legame e distanza
l’eco del sentiero inaugurato
dal passo oscuro della lingua

poiché al vuoto, a “ciò che arde senza pensiero” si oppone proprio l’oscuro denso corpo della scrittura e non è detto che non sia essa la via salvifica da percorrere per non diluirsi nell’assenza: “l’ultima possibile nascita d’indivisa appartenenza”.      

                                                                                      Rosa Pierno

venerdì 23 dicembre 2011

“Land Art oltre l’orizzonte e dentro la stanza” di Gio Ferri

Della Land Art o Earth Art molto si è detto in oltre quarant’anni a partire più o meno dal 1967-1970 quando, alla Fernsehgalerie di Hannover, Gery Schum trasmette il video intitolato appunto Land Art. La ventura inizia, anche in Italia, in concomitanza con l’affermarsi dell’Arte concettuale e dell’Arte povera. Non si è lontani..alla lontana (!) dall’antica filosofia dada del ready-made. L’oggetto non rappresentato, bensì trovato, manipolato e assurto, per volontà dell’artista e comprensione del fruitore, esteticamente ma oltre ogni tradizionale legge estetica, a monumento di sé. Tuttavia se il Dada lavorava e rivelava la dismisura di oggetti minimi e quotidiani, la Land Art si rivolgeva alle realtà materiche e territoriali e interveniva sugli interminati spazi – si perdoni la citazione ardita –, e sui sovrumani silenzi. Anche in relazione, oltre la stessa pratica dell’arte, al dibattito che in quegli anni interveniva sulle tematiche ecologiche relative all’ambiente. Perciò si è detto anche di un’Arte ambientale. Non è il caso di riassumerne qui malamente la storia creativa e critica di questi quarant’anni. I lettori di “Territori” certamente la conoscono. Comunque per comodità si può rimandare al lungo saggio, corredato da una splendida iconografia, di Federica Tammarazio del gruppo di ricerca che ha lavorato all’opera enciclopedica L’arte del XX secolo, Volume IV, 1969-1999, Neoavanguardie, postmoderno e arte globale, edito da Skira nel 2009. I repertori, le biografie degli artisti, la ricca bibliografia critica ne fanno uno strumento d’informazione e d’indagine forse unica. Si può parafrasare Federica Tammarazio  sottolineando che “Questa esperienza  artistica è caratterizzata da una relazione immediata tra il progetto e l’ambiente[…]. L’arte ambientale configura le proprie ricerche intono al concetto di spazio naturale in quanto realtà che va oltre la semplice funzione panoramica e comprende in sé l’ubicazione, il contenuto e il medium espressivo attraverso cui si verifica la sintesi estetica tra opera, sito e tempo…”. Solamente per rammentarci (se ce ne fosse bisogno, ma non credo) di alcune realizzazioni più significative ormai storiche potremmo citare (ma innumerevoli sono le installazioni ambientali degli inizi)  Ireland (1967) di Richard Long, One hour Run (1969) di Tennis Oppenheim. E più tardi la spettacolarità  clamorosa degli immensi effetti ambientali delle installazioni di Christo con la moglie e abituale collaboratrice Jeanne-Claude: i ben noti mastodontici paccages dei monumenti storici realizzati a Parigi, a Roma, a Milano e un po’ dappertutto in giro per il mondo. Forse l’opera più straordinaria e affascinante, più land art, e insieme più effimera (il ventola distrusse in pochi giorni) fu l’immensa vela arancione che univa, sostenuta da cavi d’acciaio, per 381 metri, due alture del Grand Hogback di Rifle in Colorado. Titolo “Valley Curtain” (1970). Christo e Jeanne-Claude, con altrettanta spettacolarità, circondarono con una corona di tela sintetica arancione (12.780 metri quadrati) ben due isole della  Biscayne Bay a Miami in Florida. Titolo “Surrounded Islands” (1980-1983).Robert Smithson sul Great Salt Lake nell’Utah realizza la Spiral Jetti (1970), una spirale di 457 metri di materiale di riporto , rocce, cristalli di sale che si protende dalla spiaggia verso il centro del lago. James Turrel fotografa il progetto in volo del Roden Crater (1984) nel Painted Desert dell’Arizona. Charle Ross nella depressione naturale in Mesa, New Mexico, installa un immenso osservatorio astronomico, Star Axis (1971), in cui un rotor (che fa pensare a Duchamp) ruota appunto ininterrottamente per 24 ore e registra in quel tempo i movimenti delle stelle cha lasciano sulla lastra fotografica striature e ‘scritture’. E ci sono poi i progetti su percorsi urbani in cui l’artista traccia sulle mappe i luoghi di un immaginabile intervento, a volte anche sonoro, infine del tutto concettuale. Clive van den Berg, per esempio, per la prima Biennale di Johannesburg espone monumentali disegni  tracciati in un ambiente chiuso dell’esposizione.
Altrettanto sorprendente, e potremmo dire magica, fu l’installazione  nel New Mexico di Walter De Maria che piazzò su 1600x1000 metri di superficie  una serie numerosa di pali d’acciaio  inossidabile che, veri e propri parafulmini, attiravano durante le tempeste i fulmini creando  in cielo, fra cielo e terra, scritture spaventose e bellissime. Titolo: The lightning Field (1977). Molte di queste esperienze  hanno potuto ovviamente essere semplicemente  immortalate in fotografie o videotape. E osservate o ‘godute’ nella loro interezza  esclusivamente in volo aereo. La pratica della Land Art, che, in ambito ambientale e ‘paesaggistico’, possiamo qui solo brevemente rammentare, negli anni, al di là delle operazioni macro-territoriali, per loro natura volutamente ostili alla limitazione galleristico-museale – probabilmente anche per ragioni economiche e commerciali  ha poi ritrovato lo sbocco  più intimo e meno osservabile rientrando, come installazioni, nelle gallerie e nei musei. La natura dal paesaggio alla stanza chiusa, ma aperta all’infinito della mente. L’artista non si è solamente fermato nei siti per esaltarli ed esaltarsi, ma dai luoghi stessi ha portato in ambiti più ristretti le cose di natura – legni, terra, rocce, animali..talvolta solamente metafore ambientali. E veniamo parallelamente al tempo dell’Arte Povera (italiana) e dell’Arte Concettuale. Una di queste metafore può far pensare, per chi se ne rammenti, ad alcune opere pittoriche di De Chirico in cui si rappresenta un viaggio per mare .. in una stanza. Un ‘odisseo’ sulla sua barca rema in una stanza chiusa, ma illuminata dal sole fittizio, di carta forse, che entra da una finestra!
Federica Tammarazio nota, a proposito di questo ‘rientro’ che: “Gli esterni urbani spesso si accostano, come già in alcune esperienze concettuali, all’analisi degli interni in cui l’uomo conduce la propria esistenza [..]. [Si fa strada] un concetto [..] di occupazione dello spazio e di identità, instaurando un dialogo molto serrato con le architetture urbane e interiori”. Già Robert Morris, per altro, in Untitled (1969) aveva raccolto in luogo chiuso  montagne di materiale di riporto, reperito nei siti visitati in giro per valli e lande desertiche. Claudio Costa realizza con materiali terrosi  e fotografici Dieci spazi urbani racchiusi in una teca (1975). Pino Pascali  aveva installato  alla Galleria nazionale di Arte Moderna di Roma  32 mq di mare (1967) componendo la struttura con trenta bacinelle d’acqua blu. Jannis Kounellis colloca veri e vivi Cavalli (1969) alla Galleria L’Attico di Roma. Giuseppe Penone intervenuto in luogo su terre e su alberi, gli alberi li espone in galleria con il titolo Ho intrecciato tra loro tre alberelli (1968) e Albero di sette metri (1980). Sempre Penone al castello di Rivoli (e poi anche alla Biennale di Venezia del 2007) realizza una scenografica e spazialmente coinvolgente installazione dal titolo Respirare l’ombra (1999): 199 reti metalliche che racchiudono e sorreggono muschi e accumuli di foglie d’alloro.  Charles Ray per questa via recentemente presentata Los Angeles Hinoki (2007). Ma già Mario Merz  aveva realizzato Igloo con albero ( (1969). Per le sue monumentali seriali installazioni di granito, una più vasta citazione a parte meriterebbe Joseph Beuys, fra i più conosciuti – certo non solo per la Land Art ma generalmente per l’Arte Concettuale e per la Body Art. Mi si perdonerà se, per completezza e a giustificazione di queste brevi note  storico-critiche, citerò in proposito alcune mie ricerche degli anni Settanta/Ottanta. Giò Ferri, Studio per petroteca. Manipolazioni di cumuli di sabbia: Gio Ferri Smottamenti (1985). Interventi boschivi: Gio Ferri Sacralità della terra (1985). Recentemente Alice Aycock ha realizzato  Sand Fans (2010), un cumulo di sabbia con quattro ventilatori che creano una duna sempre mutevole. Fra le più recenti realizzazioni vanno citate: il ‘baratro’, una profonda diaclasi in galleria , alla Tate di Londra  di Doris Salcedo, Shibboleth (2007-2008). E per la 53° Biennale Veneziana, all’Arsenale, il Giardino delle Vergini di Lara Favaretto  Momentary Monument (2009) un conturbante artificiale (dantesco?) acquitrino, rappresentazione di un tempo, il nostro, in cui natura ed etica manifestano un inesorabile disfacimento.
E’ naturale che, seppure a distanza e ovviamente con diverse motivazioni, si instauri un colloquio tra Land Art e Architettura. Uno degli esiti più efficaci è senza dubbio il connubio fra l’ambiente collinoso sopra Berna e il Zentrum Paul Klee di Renzo Piano: natura e forme architettonico-scultoree dialogano in grande armonia. Su questa rivista “Territori” al n. 20/2009 Laur Fabietti Fabriani illustra il suo articolo sull’Agro Pontino con una planimetria del territorio, una labirintica ragnatela di tracce-scritture, che al di là della ricerca tecnico-funzionale crea un’emozione segnica che non manca di una carica estetica: è in qualche modo paragonabile all’immensa ragnatela di corde elastiche (una galassia astronomica) installata da Tomas Saraceno nel salone d’accesso al Padiglione Internazionale della 53° Biennale di Venezia. Accenno, senza la pretesa  (anche per carenza di spazio) di approfondire l’argomento, a una recentissima ricerca (2009) che già nel titolo ci stimola a una suggestiva ripresa creativa  e critica delle motivazioni della Land Art. Si tratta di “Geology in Art” del geologo italiano Andrea Bucon. Chi voglia saperne di più può consultare i siti www.gelogynart.com e www.tracemaker.com). Basti qui citare, dal capitolo assai significativo The Abyss of Time, le indagini visuali delle stratificazioni rocciose documentate con intenzione estetica da Steven Siegel: Like a hive, like an egg o Like a rock, from a tree. Oppure i graffiti naturali isolati e fotografati, con il titolo di Deep Time, da Nien Schwarz che sviluppa le connessioni tra scienza e spiritualità – mentre il risultato iconografico ricorda i magmi pittorici, tuttavia ‘strutturati’di Jackson Pollock in Pali Blu della collezione Ben Heller di New York. Per inciso va detto che Bucon non si limita alle arti visive, ma coinvolge nella ricerca geologica anche la poesia e la musica. 

                                                                                     Gio Ferri


martedì 20 dicembre 2011

Claude Debussy “Il signor Croche antidilettante” Adelphi 2003

Delizioso stile e prosa irresistibile, soprattutto quando raggiunge punte sarcastiche e demolitorie, senza mai usare parole che abbiano connotazioni negative, e in cui il bersaglio è raggiunto tramite figure retoriche piegate a una funzione tagliente e corrosiva. Valerio Magrelli nella sua postfazione istituisce paralleli letterari con Valery, Joyce, Balzac, Laforgue, costruendo cioè una rete di relazioni all’interno della quale i testi di Debussy possono essere collocati (dall’uso di un fantomatico alter ego al carattere improvvisato). Inoltre, in questa raccolta di articoli usciti su giornali e riviste, i quali spesso fanno riferimenti ad avvenimenti musicali, concerti, spettacoli teatrali,  si parla di musica senza mai usare un termine appartenente all’analisi musicale. Il fenomeno musicale che per Debussy è fenomeno nel quale “i suoni hanno un senso esatto nella loro eccezione sonora“ senza, in altri termini, “esigere mai qualcosa di diverso da ciò che vi è racchiuso” è visto, dunque, nelle sue relazioni culturali, storiche e sociali, ma è quasi un costeggiare un continente sul quale non si può mettere piede. Il senso finale di queste prose coincide con l’azione iniziale: l’ascolto, dal quale, infatti, non si può prescindere, l’ascolto al quale tutto ritorna e dal quale nulla può allontanarsi. Ne sia un esempio il riferimento alla Nona Sinfonia di Beethoven, contro coloro che l’hanno sommersa di prosa nello sforzo di illustrarne il significato aneddotico: “Ammesso che in questa sinfonia vi sia qualcosa di misterioso, ammesso che lo si possa chiarire, tutto ciò sarebbe davvero utile?”. E di rincalzo, affermando che Beethoven  non era affatto letterario: “Un piccolo quaderno in cui sono annotati più di duecento differenti aspetti dell’idea conduttrice del finale di questa sinfonia, testimonia della sua ostinata ricerca e della speculazione puramente musicale che la guidava”.

In questi testi numerosissime sono le posizione occasionate dagli eventi musicali che danno modo a Debussy di esprimere il proprio punto di vista, il quale, d’altronde, si può ritrovare anche fra le componenti che hanno avuto un ruolo ideativo nelle sue composizioni, ad esempio l’interesse per i modi musicali dell’estremo oriente e l’interesse per il teatro giavanese condiviso con Artuad in cui: “la seduzione imperiosa di quel linguaggio senza parole che è la Pantomima raggiunge quasi l’assoluto, poiché procede per atti e non per formule. La miseria del nostro teatro è dipesa dalla volontà di limitarlo ai soli elementi intellegibili”. Si pensi all’interesse per il rapporto con la natura espressa in occasione della direzione della Sinfonia Pastorale di Beethoven di Weingartner, ove Debussy precisa: “Quanto più profonda l’espressione della bellezza di un paesaggio in certe pagine del vecchio maestro, solo perché non c’è imitazione diretta, ma trasposizione sentimentale di ciò che è ‘invisibile’ nella natura! Si rende forse mistero di una foresta misurando l’altezza degli alberi? Non è piuttosto la sua insondabile profondità a scatenare l’immaginazione?”. D’altronde, è il medesimo atteggiamento che ritroviamo in questi brevi quadri critici, i quali divaricano la distanza tra opera e interpretazione, tra opera e spiegazione, ove il verbale non può che indirizzare, ma mai risolvere il  portato del testo musicale.  Né ultima è la sua critica nei confronti di un’arte popolare realizzata con nessun mezzo, la quale  ripropone spettacoli inadeguati: “l’arte, assolutamente inutile alla folla, non è neanche l’espressione di un’élite, spesso più stupida della folla stessa; essa è una bellezza potenziale che esplode al momento opportuno, con una forza fatale e segreta”. E con la medesima fermezza, vi invitiamo alla lettura dei testi, i quali contengono numerosissime fulminanti definizioni e prese di posizioni che si collocano sul doppio registro della critica musicale e dell’opera letteraria.

                                                                                          Rosa Pierno

domenica 18 dicembre 2011

Rivista d’arte “Libretto” n. 17 – 2001, edizioni Pagine d’arte


L’interesse multidisciplinare attestato dalla rivista “Libretto”, edita da Pagine d’Arte e diretta da Matteo Bianchi, non riguarda soltanto scultura, pittura, disegno, architettura, ma investe anche le cosiddette arti minori: cinema, illustrazione, arte dei giardini: in questo ventaglio inevitabilmente confrontando i diversi strumenti critici atti a enuclearne specificità e analogie e offrendo, in particolare, attraverso oculati tagli e punti di vista, le motivazioni con cui ha selezionato alcuni e non altri oggetti.

Si cita qui, infatti, solo qualche testo, forzosamente tralasciando gli altri, per porre l’accento sulle diversità non solo dei temi e degli oggetti indagati, ma anche dei diversi stili descrittivi e critici utilizzati. E’,  in questo senso, fortemente caratterizzato il testo di Paolo Fumagalli “Natura e Artificio: la capanna alpina del Monte Rosa”, il quale rende incisiva la sua analisi con la selezione di un manufatto architettonico che si configura come un esemplare oseremmo dire simbolico: poiché l’utilizzo delle nuove tecnologie, le quali rendono autonoma la gestione energetica, entrano nella definizione formale dettandone le ragioni e indirizzandone le motivazioni progettuali.     

Analogamente la voce critica di Claudio Nembrini individua nel nuovo Museo del Novecento all’Arengario opportunità e possibilità mancate, stratificando motivi assolutamente condivisibili e dimostrando nei fatti in che cosa consista il valore costruttivo di una critica, ove giudizio negativo sulle scelte effettuate e proposte migliorative corrono insieme, intrecciandosi.

Ma vi è anche un modo diverso di avvicinarsi ai prodotti e ai manufatti artistici ed è quello relativo a una percezione che fa della descrizione un’arte ragionata. Come Maïte Clavel che ci incanta con la sua passeggiata nei giardini del Lussemburgo a Parigi o con lo sguardo appassionato e curioso di Diego Fulco che cerca di carpire i misteri della carriera dell’attrice Bette Davis, entrando nel merito delle pellicole interpretate con le quali ella ha costruito la sua carriera e il suo rapporto con il pubblico.

Corredano sempre i testi, fotografie splendide e originali, in bianco e nero, le quali accompagnano la lettura col riscontro del riferimento visivo, rendendo la rivista uno strumento di corposo impatto emotivo.

Ancora le voci di Matteo Bianchi, Stefano Crespi, Alberto Nessi, Rosanna Carloni, Mirko Nesurini intervengono a infoltire la già sostanziosa compagine che fa di questa rivista una squisita edizione da collezionare.  

http://www.paginedarte.ch/ 

giovedì 15 dicembre 2011

Giuliana Giulietti “Proust e Monet. I più begli occhi del XX secolo” Donzelli, 2011”

Nel libro “Proust e Monet. I più begli occhi del XX secolo” Donzelli, 2011, l’autrice, Giuliana Giulietti, tenta di cogliere gli elementi che consentirebbero di valutare l’intenzionalità artistica di Proust e Monet come coincidenti, e in questo tentativo assomma citazioni dell’uno e dell’altro atte a dimostrare, a suo avviso, la loro totale sovrapposizione, mentre non fa alcuno sforzo per individuare le modalità con cui di fatto le due produzioni artistiche, pur condividendo i medesimi interessi, si diversificano in quanto prodotte con mezzi differenti. Vi è un annullamento totale della specificità delle opere, nessuna considerazione per la non comprimibile distanza a cui danno corpo i mezzi tecnici usati da Proust in quanto letterato e da Monet in quanto pittore. E questa è, mi pare, una lacuna essenziale per la comprensione delle stesse. Voglio riportare, a sostegno della mia opinione, una citazione tratta dal libro “Le Muse” di Nancy in cui viene stigmatizzata l’irriducibilità delle arti fra di loro: “Le arti passano “le une nelle altre, e questo non tanto nella pratica di mescolamento o di sintesi ma piuttosto ciascuna per sé, se possiamo dirla così (c’è musica nella pittura). Simmetricamente, le arti si ignorano o si respingono, ermeticamente chiuse le une nei confronti delle altre, e questo anche nel cuore della loro incessante comunicazione (c’è sempre un abisso tra un colore sulla tela e il colore di una sonorità.)”.

Invece, la modalità di lettura della Giulietti tende a colmare qualsiasi distanza tra i diversi mezzi espressivi e così si esprime su Proust e Monet, i quali con “Alla ricerca del tempo perduto” e con “Le grandi decorazioni” ci hanno donato “due tra i più grandi capolavori di tutti i tempi, dove la realtà si presenta metaforicamente come una rete di rapporti, una polifonia di voci, di colori, di riflessi”.  E se volessimo cercare qualcosa di maggiormente dettagliato in relazione alla specificità dei due linguaggi artistici troveremmo, ad esempio, questo: “Espressione di una peculiare relazione che con “la natura che non si ferma mai”, la pittura di Monet, in quanto rappresentazione del mutamento, è fatta – agli occhi di Proust –  di “metafore” poiché “ogni cosa può essere scambiata o assomigliare a un’altra”. E ancora: “In Proust la metafora non è semplicemente una figura di sostituzione  o un abbellimento del discorso, ma la testimonianza – nella pittura e nella lingua – del carattere mutevole, incessante, metamorfico del reale”. Mentre riguardo agli errori che Monet dichiarava di fare nel tentativo di fissare le sue sensazioni, la Giulietti commenta: “Quegli errori, o illusioni ottiche o miraggi, erano la grande eversione di linguaggio che gli permetteva di abbandonare la semplice rappresentazione delle apparenze in favore di una realtà più profonda, come quella che affiora nell’abbondanza di luce, di acqua e di vegetazione, delle Ninfee”.

Ipotizzare un’uguaglianza tra arti plastiche e linguaggio, addirittura imponendo all’arte di coincidere con il linguaggio, disciogliendo qualsiasi residuo, vuol dire evitare l’unico problema che avrebbe senso rilevare nel momento in cui si va a istituire un confronto tra  due mezzi espressivi che sono irriducibili l’uno all’altro.  Il libro della Giulietti  appare come il racconto di una Alice che, anziché passeggiare nel paese delle meraviglie, dove gli incontri non sono proprio scontati e rilassanti,    restasse nel giardino di casa a cercare due foglie uguali. Parlare di arte è problematico, affrontarla per tentare di comprenderla non è una passeggiata in fiorite aiuole. E a Proust e a Monet, sono certa, farebbe piacere che fosse mostrato anche in che cosa le loro opere sono inconfrontabili.

                                                                                                             Rosa Pierno

lunedì 12 dicembre 2011

Dall’Antologia “Poesia senza Kuore” Robin Edizioni, 2010

L’antologia “Poesia senza Kuore” Robin Edizioni, 2010, nella collana di poesia diretta da Mario Quattrucci, raccoglie alcuni importanti voci del panorama poetico italiano, le quali si confrontano con l’attuale realtà sociale e politica. In questo senso, i curatori, Marcello Carlino e Aldo Mastropasqua hanno voluto porre l’accento sulla responsabilità della poesia come valore cardine della raccolta antologica. Infatti, a prescindere dall’individuazione di una precisa linea poetica, essi intendono evidenziare una certa ruvidezza di tono qual è quella che si delinea in una poesia che facendo perno sull’intelligenza in quanto “talento di riflessione, procedimento istruttorio comparativo e selettivo che s’intende facoltà specificatamente letteraria di scandaglio analitico” riapre, di conseguenza, la questione della crisi del ruolo del poeta attraverso una continua razionalizzazione che lo rimotiva, sostanziando così la convivenza tra poesia e critica. In sintesi, quello che si rileva come punto comune alla voci, tutte così radicalmente differenti, presenti nell’antologia è la formalizzazione di una poesia che sa inglobare in sé prosa, narrazione, riflessione filosofica, riaprendo a una pluralità consistente di forme e generi - rompendo l’identificazione poesia uguale lirica - anziché rinchiudersi in una sua assolutezza non dialogante con il mondo conflittuale che la circonda.   

Abbiamo scelto tre voci che esemplificano il taglio antologico al fine di dare anche un esempio della corposa diversità delle voci proposte.

Tiziana Colusso condensa la ciclicità della biologia con le strettoie sociali in un corto circuito in grado di far mancare il respiro, di restituire  il senso claustrofobico della nostra condizione esistenziale, la quale impedisce la nostra libertà di movimento e fa collassare il tempo in un qui esausto e opprimente. E ove la chiusa è formalmente capace indicare l’asfissia dovuta  a mancanza progettuale, rispetto a cui la continuità biologica fa da sfondo e sprone.

La prosa poetica metallica e lucidissima di Francesco Muzzioli, convocando sulla pagina un’affollatissima presenza metaforica e metonimica, mette in crisi dall’interno lo stesso strumento linguistico con il quale costruiamo bolle di realtà, indicando che con esso si spacciano visioni come se esse avessero solido fondamento, mentre sono pure effimere costruzioni.

La più intimista e pacata espressività di Lamberto Pignotti affronta il tema della responsabilità del singolo rispetto all’andamento della coscienza collettiva, del problema della formulazione di soluzioni e di adesioni a situazioni sociali raggelanti, dagli assurdi risvolti. Ma non ci si faccia ingannare da una posizione pessimista, che avere la consapevolezza della situazione è già avere messo a frutto  il proprio impegno.    

Tiziana Colusso

Continuum – Poesia senza versi

I
Come un rotolo del  mar morto rotola la poesia,
avvolta  al  mondo  moribondo  come  fascia  a
mummia, continuamente rotola in un continuum
di cellule profonde in  amniotico legame  con  il
tutto,  inspiro/espiro  primigenio,  prima di ogni
misero tentativo di  spezzare il  fiato, spezzare i
versi per farli entrare in  paginette  strette  come
pensieri da  edicolante che  accatasta  in  ranghi
compatti  ogni mattina tutto il delirio del mondo
o meglio quel  pezzo di  delirio  datato oggi,  in-
scindibile  dal delirio  di ieri  e di domani, in un
continuum denso come il frinire delle cicale, per
non finire, fino a che fiato, fino a  

Francesco Muzzioli

Razionamenti vieti e echi rochi
Dieci razionamenti vieti, con l’aggiunta di uno vietissimo
1
la bolla, la bolla (in poche parole: la produzione del denaro dal // denaro) la bella bolla fatta col soffio – la bolla di sapone (la bella // bolla iridescente) dal soffio dell’aria spinta in alto (a meno che non sia // la bolla della bollitura) la bolla impalpabile mobile (si eleva sopra // i cosiddetti mercati) la bolla eterea, la bolla (che brilla) (che s’innalza) // che balla (sopra la borsa) che bolle; (pensaci) la bolla (finanziaria) // oh bella che prendendoci gusto a soffiare (soffiaci e soffiaci) si gonfia // si gonfia il più possibile a rischio (eh, per forza) di rompersi, fragile // com’è (ma dovevate saperlo) basta un niente, un piccolo spillo // (ma neanche) basta l’aria stessa che la preme e scoppia tutto   


Lamberto Pignotti

Rigirando l’argomento

Via, fra le nuvole in corsa.
Ma con il moltiplicarsi degli orrori
in una narrazione simultanea
non c’è di che guardare distrattamente;
poi, rigirando l’argomento,
a qualcuno va di soggiungere una frase
col punto interrogativo.
Diventa sempre più difficile comprendere
perché dovremmo rispondere  in modo originale
dal momento che il tema è ormai noto da tempo.
La scelta è obbligata:
è quella di chiudere gli occhi
e dunque di non decidere.
Incespicando intanto su qualcosa di magmatico,
quasi che la materia
non fosse mai del tutto raffreddata.
Tra i miasmi la storia continua.



Nel volume sono presenti i seguenti autori: Bàino, Balestrini, Ballerini, Binga, Colotti, Colusso, Costantini, Delogu, Di Francesco, Dionisi, Durante, Falasca, Fianco, Fontana, Giancarli, Giannotta, Guzzi, Lunetta, Muzzioli, Ottonieri, Palladini, Petrollo, Pignotti, Ponzi, Quattrucci, Scaramuccia, Vasio, Zuccaro.

giovedì 8 dicembre 2011

Johann-Heinrich Füssli “L’invenzione” Pagine d’arte, 2004

Si ricorda che il 9 dicembre 2011, alla fiera Più libri più liberi presso il Palazzo dei Congressi, Roma, ha luogo la presentazione del libro “Cartavoce” di Ruggero Savinio, edito da Pagine d'Arte. Intervengono l’autore e Goffredo Fofi.

E’ un amalgama di  critica d’arte e di estetica, il testo  di Johann-Heinrich FüssliL’invenzione” Pagine d’arte, 2004, ove il collante che mal si nasconde dietro la teorizzazione è quell’incoercibile tendenza al fantastico, appunto all’invenzione, che caratterizza tutta l’opera visiva dell’artista e che pare quasi virare il testo in racconto autobiografico. Pertanto un testo variegato, mosso, che pur categorizzando le opere secondo la vulgata del periodo romantico, non annoia, ma scorre veloce e rapido dipartendosi dall’individuazione delle categorie e rapidissimamente tratteggiandole, ma per giungere a esaltare l’invenzione che ci restituisce il fantastico come fosse la cosa più vera e naturale che ci sia. Attraverso la combinazione del verosimile, del possibile, del conosciuto l’universo visibile si lega a quello invisibile: ed è appunto ciò che Füssli cerca nell’arte.

Le regole che Füssli sceglie sono quelle della differenziazione tra arti visive, che trattano dello spazio e del movimento, e poesia, che tratta del tempo, traendone i relativi sviluppi e, inoltre, puntualizzando che “l’esibizione esclusiva della forma inerte e incolta significherebbe scambiare il mezzo con il fine” se non venisse raggiunta l’armonia delle parti. Ciò a sua volta comporta la necessarietà  del carattere o dell’azione “per farne un oggetto interessante di imitazione, che riguarda l’aspetto  morale dell’arte”. Queste griglie categoriali le ritroveremo quando il testo si volge in critica d’arte, analizzando opere particolari ed effettuando l’esercizio della valutazione. Non appena inizia a descrivere le opere da lui ritenute paradigmatiche, la disamina diviene appassionata, irruento il flusso di parole che corrono e si accavallano quasi nel tentativo di superarsi: la prosa è ricca, tumultuosa, rapisce. Le descrizioni sono quelle del Cartone di Pisa di Michelangelo: “tutti i tempi dell’umana vivacità, tutti gli atteggiamenti, tutti  i tratti dell’inquietudine allarmata: la fretta, la precipitazione, lo sforzo, l’impazienza, esplodono in altrettanti raggi, come scintille sprigionate dai colpi di un martello”.

E nelle descrizioni degli affreschi al Vaticano di Raffaello, a tratti, pare di ravvisare i medesimi personaggi che compaiono nei disegni di Füssli,  illustranti l’edizione realizzata da Pagine d’arte: “Quella donna prostrata, pressoché coperta dalla massa fluente dei suoi capelli, che ha le braccia levate a implorare il cielo”. L’enfasi è tutta incentrata sui sentimenti e sulla loro resa attraverso il disegno, sull’espressione, sui gesti rappresentati nelle opere, alla ricerca di quella compostezza e misura che insieme all’intrinseca varietà ”concorre alla semplicità di un unico e grande fine” e all’”invenzione specifica dei singoli episodi pittorici, in quanto ognuno di essi costituisce un tutto indipendente”. Nella  seconda parte, il testo, che coincide con la descrizione appassionata delle opere di Michelangelo e Raffaello, tocca come una pallina del flipper le categorie romantiche (sublime, unità, totalità) per discostarsene immediatamente dopo, quasi in una malcelata confessione di incapacità di giungere a comunicare al lettore ciò che lui ha visto e provato dinanzi a tali opere e in cui la paratassi sembra l’unica figura retorica che consenta di accumulare motivi e ragioni dell’arte senza peraltro esaurirne il nucleo, ma, intanto, il fluire delle sue allacciate frasi ci tocca e ci convince a ripercorrere i passi delle sue visite romane.

                                                                                                     Rosa Pierno

martedì 6 dicembre 2011

Giorgio Bonacini “Sequenze di vento” Le voci della luna, 2011

Una raffinata indagine sui fenomeni metereologici che ci fa balzare in mente l’amore per la cattura del fenomeno naturale così com’è stata tentata dalla cultura orientale, ma in cui non è dismesso l’attacco pervicace e insistente con cui Bonacini chiede al dato percettivo la restituzione del dato concettuale. Quando la riflessione voglia essere desunta da un dato percettivo e non da un’idea, ci si sta volontariamente situando nel solco di una contesa in cui il risultato della riflessione non sarà quello di maggior peso nel bilancio finale. 

E se persino il dato “del vento ruvido” è messo alla berlina: “Allora è un soffio crudo e indecoroso / un fischio stupido, indeciso / appesantito da un attrito che ripete // senza nuvole di caldo o di fragore / il suo dilemma sgretolarsi fra le cose”, ciò indica che siamo  nell’arena, che assistiamo a uno scontro, poiché si avverte subito, anche, che questa volta la voce di Giorgio Bonacini in “Sequenze di vento”, Le voci della luna, 2011, non è mite, è irata.  E’ l’ira di chi vede sotto le proprio unghie la roccia sfaldarsi in polvere, l’evento mutare in sfacelo, le forme impallidire in spettri e l’annullarsi di ogni distanza tra principio e fine.

In tale sfarinarsi dell’esistente, in tale sfibrato resistere, inevitabilmente il linguaggio viene trascinato, pare seguire la stessa sorta di consunzione a cui sono sottoposti gli elementi naturali: “scatena sul volto un’idea, tra la scena disfatta / e la prova che inciampa, che abbatte”. La riflessione articolata attraverso il linguaggio, o attraverso l’arte plastica: “in un verso ogni nostra clausura / una semplice forma, un tormento, una linea / di freddo sbagliata che inganna”, subisce non lievi scosse. Travolte le forme naturali assieme alle forme prodotte dall’essere umano, queste ultime mostrano però un viraggio che non crediamo essere presente nella natura: quell’artificio che costituisce un aggravio rispetto alla posizione del dato percettivo, in relazione a cui, anzi, la natura, quasi per contrappeso, acquista maggior certezza: “L’aria, quasi fosse forte e vera / con un fischio ha tolto al vento i gesti”.

Comincia  a disvelarsi il rovesciamento che i versi di Bonacini mettono in atto: appare fissa e mobile qualsiasi cosa rispetto alla lingua, alla sua scivolosa e non scalabile sostanza, a tal punto che il poeta denuncia l’esigenza di “rompere / parole, spezzettare i ritmi, rigettare sibili”. Non più il vento, ma la lingua svuota! Una spola ininterrotta tra pensiero e natura rinsalda le lacune sfilacciate, ritesse le maglie sfilate, con altrettanto imperterrito moto che avrebbe mare, ma è moto umano, moto poetico. Nient’affatto persa la partita, non c’è che da giocarla, guadagnando a sé nuovi territori in cui l’interazione tra riflessione e dato naturale consegua un nuovo modo di avvicinarsi a ciò che percepiamo, un nuovo modo di pensare e va da sé che con esso s’intende un abbandono delle categorie del pensiero occidentale, le quali sono costruite tramite l’esclusione, la separazione, la distinzione.

Ma forse è alla fine  istantanea di un verso
che il vento nel sogno può far cambiare
portando nell’intimo un suono rivolto

un calore d’assalto, uno sguardo difficile
amaro, più chiaro dei segni e del caldo.

Non che sia possibile, l’avevamo detto fin dall’inizio, ricomporre ciò che definiamo come separato e incerto. La voce di Bonacini s’infarina alle cose con perplessa adesione,  ma la vera meta è una poesia che nel suo farsi e disfarsi poggi saldamente i piedi nelle forme mobili e variate, flessibili e  disfacentesi, riuscendo a “dare tronco a un esilio / di gioia distratta”, volgendo quelle che apparivano come debolezze in punti di forza. E dove a poco a poco gli elementi della natura si fanno segni e i segni della lingua divengono una seconda natura, definibili   più come coesistenti  e meno come coincidenti: “insetti lividi di brina e di scritture / fatte a fango con la mente, per le mani”.

                                                                                                               Rosa Pierno