giovedì 28 marzo 2019

Josef Weiss, mostra presso la galleria del Laboratorio d’Arte Grafica di Modena “Arte su carte”, 23 marzo-13 aprile, Modena




Se leggere libri dà la felicità, poter godere di libri che con cura e dedizione presentano gli aspetti più sopraffini di realizzazione, in ossequio alla cultura, al suo simbolo più rappresentativo, pure, non meno pregevole è la possibilità di tramandare e di diffondere con eleganza e passione tale manufatto per i suoi contenuti inestimabili, visto che nel laboratorio di Josef i libri non solo vengono creati, ma anche restaurati. L’attrazione per i libri, quella che determinò in Josef Weiss, editore in Mendrisio, una passione inesauribile, è nata in lui fin da quando ebbe l’opportunità di scoprire e, pertanto, frequentare la Kunstwerbeschule a San Gallo (scuola di rilegatura): “Fu a quel tempo che mi presi il ‘bacillo’, compagno per tutta la vita: la malattia del libro, un male benefico, mai mortale”. E ben per noi è stato che abbia contratto questa fantastica ossessione, la quale, oltre che a produrre libri meravigliosi, lo ha portato anche a collezionarne dei più astrusi nel mondo. Andare a trovarlo nella sua bottega d’arte è un’esperienza da compiersi per chi volesse farsi ‘infettare’: i tesori aprono le loro pagine, creando cattedrali di vuoto in cui il silenzio s’ingigantisce, via via che il lettore s’immerge nella visione. Poiché è di questo che si tratta: un’esperienza della visione, e tattile, ove la forma è il contenuto. Ove cose distantissime come le legature e i ferri per l’impressione a caldo, le carte rarissime e le corde cerate si tramutano in un’opera solida e atemporale. È il volere artistico di Josef Weiss che è alla base di tutte le scelte stilistiche, le quali rientrano già tra i valori contenutistici. Questo per dar conto di un’attività che costruisce essa stessa sapienza e diffonde conoscenza, oltre, naturalmente, a unire i grandi nomi della poesia e dell’arte che si affiancano sulle pagine, dando sempre luogo a creazioni uniche.

Se si volesse parlare di una mistica del libro, questa collezione fornirebbe un palcoscenico adeguato. Non solo perché essa presenta una vastità di modi in cui è possibile realizzare un libro - legature in pergamena, legature orientali, le dimensioni adeguate alle incisioni, le carte sontuose, i caratteri mobili a piombo che donano alla carta un ulteriore grado di profondità, gli autori e gli artisti che trovano in questi libri la giusta collocazione - non solo per tutto questo dicevamo, ma anche perché Josef Weiss stesso è cultore e creatore di un modo tanto spirituale quanto concreto di affrontare, fornendone la saldatura, l’apparente divisione tra mezzi materiali e immateriali. Non si può ottenere un libro perfetto in tutti i suoi aspetti, numerosi e complessi, se non curando ciascun elemento e integrandolo con gli altri. In tal senso, anche il rapporto testo/immagine riceve una prodigiosa attenzione, ogni volta creando nuovi contrasti e armonie, giustapposizioni e distanze.

Josef Weiss, da sempre affascinato dalla pittura e dalla scrittura, che dall’antichità all’era moderna si sono sempre più separate, e memore della loro originaria unità, della comune radice segnica dei due linguaggi, ha dedicato la sua vita agli innumerevoli connubi e sovrapposizioni tra dato visivo e dato verbale, spesso mostrando il superamento della subordinazione dell’immagine al testo, così come si era venuto configurando fin dal libro miniato. È solo dal Rinascimento in poi che i pittori riuscirono a restituire pari dignità alle due forme espressive, essendo l’attività artigianale minata dal pregiudizio. E, dunque, proprio in tale pullulare di attrazioni e convergenze, Josef Weiss si è installato, sperimentando, senza sosta, in quel luogo privilegiato che è il libro come supporto di scrittura e d’immagine, le loro interferenze, e individuarne, al contempo, le specificità: sul medesimo foglio, di fatto, due diverse modalità di significazione e di lettura si fronteggiano, a tal punto che ciò che può esprimersi con la parola non è traducibile in ciò che può esprimersi con l’immagine e viceversa. L’inesausta applicazione con cui Weiss ha inteso sondare, nel particolare oggetto che è il libro, questa relazione va di pari passo con la sua volontà di raggiungere la perfezione in ciascuno di essi, anche nelle edizioni che vedono un maggior numero di esemplari. 

Il passaggio dalle lettere ai segni visivi, sempre oscillante, sempre metamorfico, converge verso una significazione terza, che è data appunto dal loro accostamento e chi ha aperto questi libri è irresistibilmente attratto, allo stesso modo, dalla magnifica fattura dell’oggetto, dalla consistenza della carta, dalla qualità tipografica, dalle legature che appaiono leggerissime eppure resistenti, sfidando a tratti la delicata materia con cui sono realizzati: veri e propri meccanismi di cui si vorrebbe conoscere ogni dettaglio artigianale. Weiss si avvale dei migliori stampatori e spesso il figlio Manuel realizza incisioni dal disegno degli artisti, mentre la moglie Giuliana crea carte dipinte con cui alcuni poeti amano dialogare.

Josef Weiss ha dato vita ad alcune collane che avessero come filo conduttore l’interazione fra le arti e la condivisione delle esperienze artistiche e umane. Ne nominiamo solo alcune: Meandro è una collana di poesie liberamente condotte dai suoi autori, nella scelta del tema e della forma, poiché la libertà assoluta è il modo e il fine della poesia. Le poesie si presentano sempre in forma bilingue e sono caratterizzate da interventi artistici originali sul frontespizio. Meandro vuole costituire infatti un’opportunità di incontro fra scrittori, poeti ed artisti contemporanei. Dîvân è una collana di libri nata dal desiderio di contribuire a un possibile dialogo tra occidente ed oriente. Clandestins, Fondazione Franco Beltrametti e Josef Weiss Edizioni, è una collana che vuole combattere l’anemia del linguaggio ed è dunque dedicata a una discendenza poetica che ha fatto della vita stessa poesia. Fare poesia, certo, ma anche tradurla, comporre, stampare e rilegare, fare materialmente i libri investendo tempo, conoscenze, tecniche e materiali.

Ogni copertina, controguardia, frontespizio, pagina, colophon presenta particolari che richiedono attenzione, che dispongono il lettore verso una consapevole esperienza di fruizione: il libro così sapientemente prodotto è qualcosa di profondamente diverso da quello massificato acquistabile in libreria, non solo perché è ivi convenuta l’immagine  artistica o perché il testo poetico è inedito ed esclusivo, ma perché, appunto, il libro d’arte sublima le caratteristiche di immagine e testo, introducendo a una esperienza fruibile in specialissimo modo. 
Non è possibile analizzare in questo breve scritto, le straordinarie opere uscite dalle edizioni Private press Josef Weiss e presentate nella mostra “L’arte di fare libri”, presso la galleria del Laboratorio d’Arte Grafica di Modena “Arte su carte”: ognuna di esse, infatti, presenta caratteristiche uniche, risvegliando tutti i nostri sensi e richiedendo molteplici modalità di fruizione, mai esaustive.

La ricchezza delle collane, delle dimensioni, dei materiali (dalla pergamena alla carta giapponese, dalla pelle alla carta fatta a mano) squaderna dinanzi ai nostri meravigliati occhi una sequela di invenzioni e di innovazioni che non mostrano soluzione di continuità. Entrare nel suo laboratorio vuol dire anche entrare in una wunderkammer specializzata, dove la collezione si dipana, includendo, non solo i propri, ma anche i libri più strani del mondo (dai libri a borsello, in piccolo formato e in uso nei secoli XV e XVI, aventi copertine in pelle o in stoffa, che, sovrabbondando dai piatti, poteva essere annodata a forma di sacchetto, a quelli con l’apertura a ventaglio o a tendina). È un laboratorio-antro in cui, il mago Josef, ha ricostruito il mondo secondo i suoi desideri, accumulando ordinatamente lo scibile umano con i più bei colori del mondo e forse un giorno o l’altro, andando a visitarlo, vi troveremo un libro-farfalla che ondeggia nell’aria, iridescente.

                                                                                            Rosa Pierno


lunedì 18 marzo 2019

Menabò. Quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria




Menabò è un nuovo quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria diretta da Stefano Iori ed edita da Terra d’Ulivi di Elio Scarciglia. 
Rilevare il medesimo nome della celebre rivista Il Menabò, voluta da Elio Vittorini e Italo Calvino, con il sostegno editoriale dell’editore Einaudi, e che fu sulla scena letteraria e culturale dal 1959 fino al 1966, è indice della volontà di riprendere alcuni fili che furono dapprima presenti ne Il Politecnico di Vittorini e poi, inevitabilmente, trasmessi anche alla successiva impresa. In particolare, l’attenzione era tutta rivolta all’autonomia della letteratura e del pensiero rispetto alle ideologie politiche, ma anche all’apertura verso le diverse branche del sapere, nella giusta visione di una convergenza e di un’auspicabile integrazione delle  materie, anche le più lontane, anziché la conservazione della loro forzosa separazione in settori stagni. Si parla delle materie umanistiche e delle materie scientifiche, ma anche delle relazioni da istituirsi con maggior vigore fra le branche dei singoli settori, come, ad esempio, tra arte e letteratura.
Naturalmente, a sessant’anni di distanza, i problemi e le soluzioni sono diverse e dunque il volersi riunire sotto un nome-simbolo è appena un’indicazione, un volersi posizionare in una prossimità. Non scenderemo nel dettaglio dei problemi o delle indicazioni, ma vogliamo solo esporre quali sono gli elementi sui quali la nuova rivista vuole puntare.
L’integrazione visiva è una componente sulla quale la rivista si articola, in quanto il verbale  non è visto come elemento predominante, ma è come smussato e relativizzato, preso nella coesistenza con una alterità ad essa irriducibile. Si ha sempre sotto gli occhi, la duplicità radicale delle forme espressive, quasi un monito, oltre che uno stimolo. E anche i testi critici riguardano le due forme espressive senza soluzione di continuità. Al modo in cui lo sono gli argomenti storico-scientifici.
Le modalità di presentare i poeti, i letterati, gli scienziati e gli artisti sono di taglio diverso e presentano una grande mobilità: testi critici, articoli, interviste, schede, rubriche per un pubblico variamente attrezzato, com’è giusto per una rivista che voglia ampliare la propria base e diffondere la cultura. Oggi l’impegno passa per la diffusione, per i contenuti chiari, vari e diversificati. Ma anche attraverso il confronto con la poesia europea, soprattutto con quella che non ha avuto la fortuna di essere portata al grande pubblico per vari motivi. 
Il comitato di redazione è arricchito da un poderoso numero di collaborazioni che operano nei diversi settori culturali. E il taglio internazionale, con le redazioni di Cracovia e i corrispondenti dalla Romania, da Londra e da Rhode Island, indica la necessità di aprirsi a un dibattito quanto più ricco e complesso possibile.
Ma vogliamo porre al centro della nostra nota il testo di Stefano Iori, che, con poche, ma centrali puntualizzazioni, mostra tanto la grande capacità di apertura, quanto il negarsi a definizioni sommarie e dogmatiche che sono, a nostro avviso, il vero veleno di ogni odierna comunicazione:
“Artisticamente in generale e poeticamente in particolare si crea ciò che sfugge, quello che non si ha o che non esiste ancora, l’oggetto della nostra ansia di mortali o della nostra speranza d’infinito. In buona sostanza si crea ciò che esce dai confini del già visto e sentito: una lingua nuova per una nuova sensibilità del vero”.


venerdì 8 marzo 2019

Ranieri Teti su Gianluca Garrapa, di fantasmi e stasi. transizioni, Arcipelago Itaca 2017




Rubrica: Brevi riflessioni sui miei contemporanei

La prima parola che mi è venuta in mente, in maniera decisa, poco dopo aver intrapreso la lettura e l’ascolto di questa raccolta, è stata “anacrusi”. Sicuramente perché verso l’inizio del libro in un testo entra l’epentesi, che me l’ha richiamata. L’anacrusi è quell’attimo che dà inizio all’esecuzione di un brano musicale, rappresenta l’istante prima delle prime note da cui poi tutto accade.  In ciascuno dei componimenti di Gianluca Garrapa sembra esserci quella presa di respiro iniziale. Infatti bisogna essere pronti a tutto quello che può succedere. Anche a sfidare, guidati dal poeta, la sintassi. E lasciarsi sorprendere, continuamente, a ogni riga e in ogni brano. Perché, se in poesia si è già scritto quasi tutto, quello su cui un autore può direttamente intervenire è la forma, lo stile, l’unione improvvisa e insolita, talvolta dissonante, dei termini. L’opera è costruita con dovizia di sentire e con una ridda di parole esattissime, aderenti all’idea generativa: la prova è ardita. L’autore garantisce una tenuta testuale esemplare, sia nelle parti strutturate in prosa poetica, sia in quelle finali in cui compaiono i versi.
Per il piacere di un lettore non occasionale e non appiattito su stilemi consumatissimi, Garrapa introduce la nozione di un dire che tiene conto, senza indugi, della frammentaria e simultanea realtà contemporanea, usando un “filo che imperla quotidiane molteplicità”. 
Nella prima sezione, “transizioni”, tutto si spiazza e tutto si ricompone: molti testi vengono chiusi come sono cominciati, in una sorta di sigillo. Il corpo della scrittura scioglie la sua tensione costitutiva in “stasi”, la seconda parte del volume: ora il ritmo è meno sincopato, è meno ossessiva la punteggiatura, il lessico riesce ad abbracciare e a comprendere l’entrata inaspettata di un “io” che racconta e ricorda.  È la stasi che precede qualcosa, una sospensione che prepara, l’anacrusi per l’arrivo della terza unità del libro. Gabriele Frasca, in postfazione, dice con ragione che si tratta del “capodopera del volume”. 
Qui si va in accumulo, con un montaggio filmico da Oscar: ci sono, in variabile alternanza, “fantasmi” e “lingue” prodotti in versi, e “traumi” di andamento prosastico. Qui si staglia un testo non classificato e non classificabile, il “Dissonetto” che brilla nella sua metrica differenza. Qui, nelle poesie dedicate ai “fantasmi”, il ciclo del partire rappresenta una vetta, raggiunta in solitaria, parola dopo parola (“treno traino trahere tirare / carbone macchine cavalli vapore”), fatica dopo fatica, tra senso e suono. Se “traumi” ha contiguità con la prima sezione del volume, “lingue” rappresenta nel suo specchio il tentativo riuscito di guardare e di usare la lingua dalla parte di ogni altro: insieme scardinamento e accoglienza (“andare sparire no avere paura / sempre alba anche dopo / notte molto scura”). Questa terza parte si chiude con sei poesie senza pre-testo, in cui l’autore scioglie la scrittura in pagine dolorose, dedicate, dove “fa freddo attraverso gli sguardi”, dove, dopo aver attraversato terre inaudite e superato ogni pericolo, “la morte / ci fa di nuovo fragili / di nuovo / esseri viventi”.       

                                                                                            Ranieri Teti