venerdì 27 settembre 2013

Giuseppe Borrone sulla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, 2013



La nuova stagione del cinema, quella della definitiva transizione al digitale e del tramonto, dopo oltre 100 anni di onorata carriera, dell’amata pellicola, è stata tradizionalmente aperta dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, giunta quest’anno al suo settantesimo compleanno. Un appuntamento chiave, quello del più antico e prestigioso festival cinematografico del mondo, anche per capire lo stato di salute del cinema italiano. Dato perennemente in crisi, con l’emorragia del pubblico in sala che non sembra arrestarsi (12 milioni di biglietti in meno nel 2012) e il disinteresse quasi “istituzionale” della politica, il cinema del Belpaese, a distanza di 15 anni dal successo di “Così ridevano” di Gianni Amelio, conquista nuovamente il Leone d’oro, invitando a una riflessione approfondita sulla produzione recente e su un sistema in tumultuosa trasformazione.

Contrariamente alle aspettative, non è stato lo stesso Amelio a fare il bis. “L’intrepido” ha parzialmente deluso i critici e il pubblico. Non è bastata l’amarezza esistenziale e la struggente maschera da perdente del solito immenso Albanese, nei panni di un uomo costretto ad arrangiarsi come “rimpiazzo” lavorativo, a convincere la giuria presieduta da Bernardo Bertolucci. Il massimo riconoscimento è andato, a sorpresa ma non troppo, a “Sacro GRA”, di Gianfranco Rosi, già vincitore in laguna della sezione Orizzonti grazie al precedente “Below sea level”. Tecnicamente un documentario – la prima volta di un documentario italiano in concorso a Venezia – “Sacro GRA” è l’affresco di un’umanità marginale che gravita intorno al Grande Raccordo Anulare di Roma, in una sorta di controcampo della ‘grande bellezza’ sorrentiniana. L’autostrada circolare che avvolge la capitale diventa una cerniera che separa il mondo urbano e moderno della metropoli dai residui di civiltà arcaica e contadina (simboleggiati dalla mandria di pecore della sequenza iniziale) che sopravvivono all’esterno. Entra nel palmarès anche il terzo film italiano in concorso, “Via Castellana Bandiera”, di Emma Dante, regista teatrale di avanguardia, qui al suo debutto dietro la macchina da presa. La protagonista Elena Cotta, interprete teatrale di lungo corso, vince la Coppa Volpi quale migliore attrice. Un esordio ispirato quello della regista palermitana, abile nel raccontare sotto forma di metafora la resistenza al cambiamento del Meridione d’Italia, ancora prigioniero di una cultura atavica e ancestrale.

Nell’altra sezione competitiva della Mostra, “Orizzonti”, riservata ai talenti emergenti, ritroviamo, nuovamente alle prese con un’opera di finzione, il documentarista Andrea Segre. L’autore padovano, da anni impegnato nel raccontare il fenomeno dell’immigrazione nel nostro paese (“Il sangue verde”, “Io sono Li”, “Mare chiuso”), realizza “La prima neve”, una dolorosa storia di amicizia ambientata nella tranquillità alpina della Valle dei Mocheni. In questa remota vallata del Trentino, abitata da una minoranza di origine germanica, incrociano i loro destini un profugo africano, scampato al naufragio di un barcone della disperazione, e un adolescente italiano rimasto orfano del padre, caduto in montagna. Il Nord Est è ancora protagonista in “Piccola patria”, di Alessandro Rossetto: un ritratto del Veneto leghista e xenofobo, dove il culto degli ‘sghei’ ha travolto ogni residuo di coesione sociale e senso identitario. Ha maggiormente il taglio della commedia, ma non rinuncia alla vocazione sociale, “Il terzo tempo”. L’esordio nel formato lungo del giovane Enrico Maria Artale, già apprezzato autore di cortometraggi, segue la rinascita, attraverso il rugby, di un giovane sottoposto a un regime di rieducazione. Una storia di riscatto attraverso lo sport, che non ha mancato di suscitare l’interesse di un produttore dal fiuto lungo come Aurelio De Laurentiis, attento alle commistioni tra le due forme di spettacolo al centro del suo business aziendale.

Bisogna uscire dal Concorso, però, per individuare il film italiano che ha riscosso gli applausi più convinti del Lido. Si tratta di un altro esordio, quello di Matteo Oleotto, proveniente dalla fucina del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il suo “Zoran, il mio nipote scemo” ha vinto per acclamazione il premio del pubblico della Settimana della Critica. Ambientato sul confine tra Italia e Slovenia, nelle caratteristiche ‘osmize’ – le tipiche trattorie di campagna del territorio carsico – il film di Oleotto racconta l’impossibile redenzione di un altro perdente, Giuseppe Battiston, alle prese con un lontano parente, incrociato per questioni di eredità. Un legame inizialmente di interesse, alimentato anche dall’infallibile abilità di Zoran nel lancio delle freccette, destinato a trasformarsi in un’occasione di riscatto sociale. Pur nella diversità degli stili e dell’approccio produttivo, la disgregazione della famiglia è stato il tema centrale dell’edizione 2013 della Mostra di Venezia. E’ stato l’evento speciale di apertura della Settimana della Critica “L’arte della felicità”, unico film napoletano presente a Venezia. Opera di animazione, prodotta da Luciano Stella, direttore dell’omonimo festival a tematica filosofico-esistenziale, “L’arte della felicità”, diretto da Alessandro Rak, tiene a battesimo una neonata factory di giovani talenti napoletani, la Mad entertainment, dove l’acronimo Mad sta ad indicare Musica, Animazione, Documentari. A giudicare dalla calorosa accoglienza, sentiremo parlare a lungo di questa nuova realtà creativa e produttiva.

La questione immigrati è al centro di un altro interessante film italiano, presentato nella sezione autonoma delle “Giornate degli Autori”. “La mia classe”, di Daniele Gaglianone, segue le vicende di una classe di italiano per stranieri, gestita dal ‘maestro’ Valerio Mastandrea. Un percorso ad ostacoli, tra intoppi burocratici, permessi di soggiorno che scadono e difficoltà linguistiche, sulla strada dell’integrazione e del compimento di un’autentica società multietnica. In abbinamento a “La mia classe”, un breve lavoro di animazione, “Secchi”, di Edoardo Natoli, applauditissimo dalla platea veneziana.  Lo sport ritorna invece ne “L’arbitro”, il film di pre-apertura delle Giornate. Estensione e potenziamento dell’omonimo e premiato cortometraggio di Paolo Zucca, un film in bianco e nero onirico, visionario e grottesco per raccontare una storia di rancori e soprusi, meschinità e inganni, in una Sardegna arcaica e affascinante.

Fuori concorso, infine, alcune chicche che difficilmente troveranno sbocco nella normale programmazione delle sale, sia perché fuori formato che per la loro natura sperimentale. E’ il caso de “La voce di Berlinguer”, l’omaggio al rimpianto leader della sinistra italiana, da parte del critico Mario Sesti e del musicista Teho Teardo. Un breve frammento di 20 minuti, con le immagini e i suoni dell’ultimo comizio tenuto da Berlinguer a Padova, prima della fatale emorragia cerebrale, proposto in abbinamento a un interessante documentario, “Summer 82 – When Zappa came to Sicily”, che ricostruisce il viaggio del famoso musicista americano nell’isola dei suoi avi. Altra dolorosa vicenda è quella raccontata da Costanza Quatriglio, documentarista di successo, in “Con il fiato sospeso”, dedicato alla poco nota vicenda degli studenti di chimica ammalatisi o deceduti in seguito al contatto con le sostanze letali dei laboratori universitari. Tracce di Italia anche nel megaprogetto “Venezia 70 – Future reloaded”: 70 cortometraggi di altrettanti autori per rendere omaggio alla Mostra nel suo settantesimo anniversario. Tra gli autori coinvolti, i napoletani Antonio Capuano, Guido Lombardi e Pietro Marcello. Unica eccezione al mancato approdo nelle sale è la bellissima testimonianza di affetto di un maestro come Ettore Scola al collega e amico Federico Fellini. “Che strano chiamarsi Federico” rievoca gli anni dell’arrivo a Roma e dell’ingresso nel mondo del cinema dei due grandi registi, nella palestra del giornale satirico Marc’Aurelio. Un imperdibile revival sull’infanzia del cinema italiano.

Citazione finale per un artista, italiano di nome, ma britannico di formazione: Uberto Pasolini. Già produttore di un cult-movie come “Full Monty”, Pasolini firma la regia del più commovente e struggente film di Venezia 70. Si intitola “Still life” e racconta la storia di un impiegato del comune di Londra, incaricato di presenziare ai funerali delle persone morte in solitudine. Un lavoro svolto con diligenza e professionalità, fino a quando la scure dei tagli e della crisi imporrà il taglio del servizio. Un gioiello misurato e toccante che, per fortuna, sarà distribuito in Italia grazie alla Bim.
Giuseppe Borrone

lunedì 23 settembre 2013

Giorgio Agamben “Nudità” Nottetempo, 2009



La raccolta di brevi saggi di Giorgio Agamben Nudità Nottetempo, 2009, nel denunciare la forzata separazione fra diverse pratiche culturali: la poesia divisa dalla filosofia, l’ermeneutica dal profetismo, la parola salvifica dalla parola creativa, la potenza dall’impotenza, l’operosità dall’inoperosità, il tempo inattuale  della contemporaneità da quello  intempestivo, “essere cioè puntuali a un appuntamento che si può solo mancare”, individua una cesura immobilizzante che rende monca l’attività umana, indirizzandola su binari morti. Per lo studioso, un esempio di contemporaneità bloccante e monca è la moda, la quale ci restituisce un tempo privato di ogni potenzialità, raggelato nella citazione di qualunque momento del passato, pura cosa, avulsa da qualsiasi proiezione e motivazione interiore, che ci fa credere che l’origine è localizzabile in un tempo storico e viene così a privarci dell’immemoriale, del moderno, della necessità di interrogare e trasformare il tempo.

Tuttavia, tale separazione non ha ottenuto la loro definitiva scissione: si avverte, nel percorrere uno dei due poli, la mancanza dell’altro, a tratti fantasmatica, in ogni caso capace di scavare un vuoto, di fare spazio, di reclamare l’altro in quanto componente complementare e necessaria. Tant’è che il testo su Kafka verte sull’importanza del rendere “inoperosi i limiti e i confini che separano (…) l’alto e il basso, il divino e l’umano, il puro e l’impuro”. Poiché è nello scarto, che il varco tra cose separate prodigiosamente si apre ed è possibile esperire la storia e la vita. Ecco, dunque, che questi brevi saggi si palesano come un elogio del moderno e della sua capacità di tenere insieme i lembi di cose diverse, la loro reciproca innervatura, il comune scheletro, poiché che ogni cosa si dà contemporaneamente con il suo opposto: “è soltanto la bruciante consapevolezza di ciò che non possiamo essere a garantire la verità di ciò che siamo”. 

Il corpo s’inscrive in questo dialogo fra opposti in virtù del fatto che: “Il desiderio di essere riconosciuto dall’altro è inseparabile dall’essere umano”. L’uomo si costituisce come persona solo in relazione al riconoscimento dell’altro. Partendo dal fatto che persona in origine significa maschera, Agamben sottolinea che la persona morale si afferma tramite un’adesione e uno scarto alla maschera sociale e che soltanto una separazione fittizia ha separato i dati biologici e la persona, dando luogo alla nuda vita. Ne consegue che l’identità costruita esclusivamente sui dati biologici “è un’identità senza persona”.

Lo studioso, inoltre, indaga i rapporti tra nudità ed eredità teologica. Quest’ultima ha ridato all’uomo la sua veste, la quale ne ha rivelato il male, ma ciò rinforza per l’appunto la separazione, fino a far diventare la natura come “definita dalla non-natura (la grazia) che ha perduto, così come la nudità è definita dalla non-nudità (la veste) di cui è stata spogliata”. Anche Benjamin si fa portavoce della tesi teologica  secondo cui “nella bellezza, velo e velato, l’involucro e il suo oggetto sono legati da un rapporto necessario (…), segreto”. La  nudità non sarebbe che “ciò che resta quando si toglie il velo alla bellezza”.
Anche se, la nudità  viene interpretata da Agamben come nulla, come “pura visibilità e presenza”, come ciò che non si può interpretare: “si potrebbe definire la nudità come l’involucro nel punto in cui diventa chiaro che non è possibile venirne in chiaro”, sarebbe proprio questa “esibizione dell’apparenza oltre ogni mistero e ogni significato, a disinnescare il dispositivo teologico”, lasciando vedere al di là della grazia e della natura corrotta, “il semplice, inapparente corpo umano”  liberando, così, con un colpo solo, natura e grazia, nudità e veste, col contraccolpo della loro inevitabile saldatura dialogica.

Rosa Pierno

martedì 17 settembre 2013

Daniele Poletti “Poesie e Defixiones”, 2012

Sebbene il tessuto poetico sia innestato da schegge metalliche, da scarti di lavorazione, da ingranaggi, strumenti tecnologici, la loro costante presenza, non intralcia lo sguardo perlustrante del lettore. Sono ausili, non il nemico contro cui rivolgere invettive, come invece accade in tanta parte della cultura novecentesca avversa alla scienza e alla tecnologia. La tecnica che sembra ancillare al corpo, non può in ogni caso risolverne i problemi, ma nemmeno sembra porne. Anzi, emerge ancora più scarno ed essenziale il problema sollevato dal corpo, dalle sue protesi. I capillari, i ventricoli, gli sterni, nella poesia di Daniele Poletti fanno problema, sono il reale versus linguaggio, a cui solo per necessità di completezza viene affiancata la natura, ma più come analogicamente ripetitiva (le ramificazioni al posto delle vene, le foglie al posto delle membrane, ecc.: “Argilla e pietra nel succo identico del ripetersi”.) E le malattie del corpo vengono equiparate a quelle delle piante  o addirittura trasmesse ai materiali inerti. Ma, contemporaneamente, il corpo proietta, nefasto, i suoi spurghi, i suoi umori, i suoi nervi annodanti, persino la sua morte, su lenzuola e cielo (“morituro cielo”).

Tale accostamento non per segnalare la via di risoluzione della contesa tra i due contendenti, ma per mostrarne la irriducibilità, il salto esistente nell’analogia che non ci priva in ogni caso della possibilità metaforica, ma che anzi vede proprio in essa le potenzialità della sua riuscita. Un lavoro che sembrerebbe inserirsi su quel binario meta-letterario per cui quello che si mette in evidenza non è soltanto il contenuto manifesto, ma una riflessione sul modo di prodursi del pensiero letterario, cioè sulla sua specificità. E che ci sia un legame, poi, fra filotassi e matematica, fra materia e pensiero astratto è un corollario che non viene  a complicare il già saturo quadro in cui il corpo riempie persino gli interstizi, non lasciando alcuna asola di vuoto.

Certo non è assente un polemico accenno contro il tentativo di attribuire ogni soluzione alla sola ragione:
  
Visura

Spiovuto si cammina alla cieca
i riflessi strizzare d’occhi un arrugare
ai bozzali che duplicano il cielo
in sciepi, trovatura di nuvole
l’occultà degli incroci e delle strisce
pedonali. Con gesti armillari classifichi
le ombre per ripararci dall’ombra
hanno tagliato tutti i rami istituito
il catasto delle aree aduste non
vi sarà apocatastasi perché un giorno
fu detto che il sole è una stella
e se ne perse l’uso. Lo sgretolo
della luce nell’oggi vero di sempre
preme in basso la terra che porto
nelle tasche di nuovo il tentativo
di invertebrare il tempo. L’acqua
nel mortaio pestare le nuvole
il celeste intenso esiguo rinsecchito.

La ragione non può essere una soluzione valida quando ci si dimentica completamente che abbiamo a disposizione ben altri strumenti per sistemarci nel mondo (dall’immaginazione, alla percezione). “Invertebrare” il mondo ha qui il senso di operare una sostituzione che, però, non dimentica mai di essere tale. Qui si tratta esattamente del problema del realismo e dell’antirealismo che Wittgenstein ha tentato di superare sulla scia di Aristotele, con un ancoraggio nel linguaggio. L’orizzonte di senso sopravanza il reale. E proprio da questo raggiunto incrocio si diparte Poletti, il quale penetra nell’operare del linguaggio in modo da svelarlo, contro una forte tendenza a fraintenderlo. In questa direzione, dunque, Poletti non congegna un linguaggio ideale, dispiegato, ma un linguaggio in cui la logica arriva sempre dopo e le tavole anatomiche, che s’incrociano con quelle botaniche, nell’evidenziare che tutto è già in ordine con il solo loro accostamento, mostrano un senso a cui non manca nulla. Se infatti formalizziamo un pensiero troppo monocorde, non riusciamo più a cogliere la molteplicità originaria del linguaggio. Di qui l’importanza di trovare membri intermedi, significati aggettanti, andando a ricostituire quel fascio di fibre che è il senso.

Nella prima parte della raccolta, avvertiamo la presenza di un occhio indagatore che scorre e registra, che opera trasformazioni o individua equivalenze, come accadrebbe in una  wunderkammer. Niente di alchemico, ma tutto compresente. Nessuna esclusione: tutto partecipa all’allestimento. Nella seconda parte della raccolta è, però, l’orecchio a pretendere il proscenio, il lessico si slabbra, si sventagliano forme atipiche fino al refuso, sovrapposizioni e innesti. Vale qui riportare le parole dello stesso autore assolutamente esplicative sulla modalità costruttiva con cui opera, in maniera  artigiana, diremmo fisica, sul materiale poetico:     

“Per quanto riguarda alcuni "neologismi", parole come: ‘sterpiti’, ‘maceriata’, ‘intristito’,’ pietrà’ hanno il fine di creare un alterazione percettiva: in quanto "pietrà", ad esempio, verrà letto d'acchito, da un’alta percentuale di lettori, come ‘pietà’ o ‘pietra’. Nel realizzare invece che la parola è "pietrà", l'auspicio è quello di aver creato un cuneo, un’unica parola, con  una plausibilità fonetica e morfologica (anche se anamorfica!), che suggerisca due immagini e che si incunei (appunto!) nel cervello secondo una logica non additiva, ma esponenziale. Perciò ‘una pietrà di rami’ è un verso che dovrebbe connotare la stagione invernale, già denunciata in apertura di poesia, attraverso una vegetazione che è pietrificata (spoglia) e allo stesso tempo pietosa, di una pietà che adombra il motivo cristico della corona di spine (anticipato con ‘incristito’).”

Felicissima opportunità di risalire al momento ideativo, il commento di Poletti apre uno squarcio anche sul funzionamento sintattico, poiché il senso che sfolgora nel singolo vocabolo si innesta in un tessuto sintattico di paziente intreccio: simile a un nido formato da materiali non omogenei, disarticolati, spuri che eppure, al fine, vanno a formare un’unità poetica.

Inoltre,  l’accostamento di vocaboli che apparentemente nulla hanno in comune è il viatico che introduce l’ossimoro, il paradosso, l’onirico, in parallelo con la ricerca surrealista, mostrante che le connessioni nascono dai registri più vari, assonanze, casellari rigidi o disordinati, similitudini o divergenze, non solo reali, ma anche inerenti esclusivamente all’area linguistica. In ogni caso, la ricerca di Poletti segue la scia degli studi foucaltiani in cui le pratiche si succedono senz’altro fondamento che il loro uso.

Siamo in presenza di una struttura poetica con fori ora più fitti e piccoli, ora più larghi e radi, di discontinua consistenza e sovrapposizione, la quale determina  una ulteriore differenza nella lettura, tattile differenza diremmo, e che corrisponde ai punti in cui è più manifesto il riferimento al linguaggio anziché al corpo, a ciò che ha una materia o non ne ha affatto. Alle zone testuali che si riferiscono al materico corrisponde una spiccata attenzione ai valori estetici e percettivi, subito riequilibrata dalla sua assenza nelle zone in cui il linguaggio esclude riferimenti concreti.

Achiria II


Non tagliare il pollice serve a far scivolare
l’occhiello nel nodo della stringa.
Dopo le otto ore il rifugio dell’acqua
un alfabeto d’uva passa sulle dita
mentre i formicai stridono sul marciapiede
e gli uteri stremiscono in letti bianchi.
Sotto contraria apparenza i denti
appassiti dietro le labbra dal non detto
un silenzio sperperato nel dire urgente
del respiro gli spazi tronfiano.
Sul pavimento in semina una manciata
d’unghie recise mosaico genealogico
che attende solo l’ora delle pulizie.
Per non cercare la notte nel mattino
discalceato orecchio piede nudo nell’argilla
finché l’ora tiene finché il tempo lo permette.


Ma non esistono cesure nette nel fluire poetico istruito da Poletti: il passaggio tra le diverse zone, se è consustanziale, è anche sempre in evidenza. Una poesia che non teme di scendere in agone e che denuncia mentre propizia, mette in guardia mentre attua, in linea con una poesia che pretende per sé anche il ruolo attivo di strumento conoscitivo.

                                                                               Rosa Pierno


La raccolta “Poesie e defixiones” è consultabile sui due seguenti siti:
http://rebstein.wordpress.com/2013/01/30/immarcescibile/

giovedì 12 settembre 2013

Pascal Gabellone “Fra terra e cielo, Uno sguardo sui confini”Anterem Edizioni, 2013




Ci sono studiosi che hanno il dono di seguire passo dopo passo un autore e di rendere conto anche del non espresso di un testo, creando, mentre filano la propria matassa, la tessitura dei rapporti anche trasversali che l’opera studiata indica. Alla mente affiora l’immagine dell’opera come oggetto in potenza e della nota critica come atto. In atto sembra di leggere l’esplicitazione dei nessi, dei legami, il ragionamento analitico che interpola le lacune, mentre in potenza l’opera circoscrive aree, fa scintillare balenii o fa piombare nell’oscurità.  

Del tessuto costruito da Gabellone, nella raccolta di testi “Fra terra e cielo, Uno sguardo sui confini”Anterem Edizioni, 2013, cn una riflessione critica di Antonio Prete, si potrebbe fare forse un radissimo sunto, segnalare alcune boe, indicare argomenti e autori trattati, ma a causa della complessità dell’orizzonte tracciato, avvisiamo subito il lettore che ci dispiace penetrare in tale compattissimo labirinto per uscirne con un solo filo. Se la collana che infilza gli autori presenti nel volume (Celan, Ungaretti, Holderlin, Pavese, Blanchot, per citarne solo alcuni) per coerentissima cernita tratta di poeti tutti aventi a che fare con la difficoltà insita nel linguaggio di esprimere l’esistenza e l’ideato, in realtà è proprio il contrario che si evince leggendo le note critiche che si susseguono nella raccolta: il lettore si ritrova a dominare ampie aree concettuali, le quali disegnano la configurazione di terre emerse dal magma dell’invisibile.

Valga come esempio per tutti la poesia di Celan, che tanto più ardentemente denuncia le costrizioni e la limitatezza linguistica, tanto più mostra che il limite in essa è sorvolato, saltato a piè pari e l’espressione giunta a completa pienezza.  Dunque, non sembri immediatamente che Gabellone renda conto di tutti i significati a corollario dell’attività poetica di un autore o di un’opera,  mentre più sottilmente sta mostrando il modo di tale superamento, la possibilità che i limiti vengano spostati più lontano e l’essere venga accolto assieme al pensiero con cui si manifesta. Lo studioso è infatti capace di effettuare un delicatissimo regesto delle componenti  che concorrono a dare forma a un’opera, dalla situazione storica a quella psicologica, da quella culturale a quella esistenziale, in un trapasso che dall’una all’altra metodologia si fa impalpabile, ma non meno efficace, consentendogli di seguire, come in una scatola che venga aperta all’improvviso, il moto delle masse-luce, le quali non sono registrabili solo temporalmente, ma anche spazialmente.  In nuce è proprio il tentativo di mostrare in quale modo la scrittura adempia al disvelamento dell’essere che si rapporta all’esistente.

Assieme ad Heidegger, Blanchot è un punto focale nel percorso riflessivo che Gabellone conduce sui vari registri linguisitici e possibilità espressive: “Se la narrazione è sempre interrogante e meditativa, la meditazione pensa e rilancia sempre la questione dello scrivere, della finzione, del come se inaugurale  della scrittura e del suo rapporto  con l’esperienza come gioco infondato”. La scrittura infatti insedia, seduce il pensiero sottraendogli sostegno e provocando un “continuo venire a mancare del pensiero alla propria autosufficienza”, e per questo Gabellone individua nell’ossimoro per Blanchot “il punto di annullamento di tutte le figure, il nodo ove esse si incontrano per morire”. E’ in questo modo che Blanchot mette a punto “una modalità attraverso la quale il pensiero mette se stesso fra parentesi, perdendo via via le determinazioni che permettono di definirlo come affermazione, negazione o negazione o espressione dubitativa”.
  
La capacità speculativa di Gabellone, oltre ad affrontare i modi del linguaggio investe anche il rapporto della parola con la pittura, e si confronta con due opere paradigmatiche e come poste agli antipodi: quella di Giorgio Morandi e di Nicolas De Staël, correttamente impostando il problema della pittura, la quale non è assimilabile a un linguaggio, ma che da esso viene apostrofata affinché elargisca, sventagliandoli, i suoi più riposti tesori, i quali sono appunto caratterizzati da una carica  antilinguistica. Dopo avere posto siffatte basi, Gabellone, si serve dell’opera come di ciò che dà appunto la stura alla lingua, sorta di meccanismo propulsore che in ogni caso addita nel linguaggio solo ciò che gli compete, lasciando aperti i baratri e le incompossibilità tra referenti, oggetti e strumenti. Sarà proprio questo “sconfinamento reciproco del vedente e del visibile, del senziente e del sentito” a caratterizzare il dominio, l’incontro e lo scontro che attiva l’essere, a creare un modo d’accesso  all’apparente. Lo spazio dello scambio è lo spazio “ove si opera la conversione e la trasformazione delle cose, delle apparenze, dei fenomeni del mondo”, cioè “un altro modo della presenza”.

D’altronde, esistenti già nell’assunzione dello iato tra essere ed esistenza, tre esteriorità e interiorità. Si vede bene che Pascal Gabellone ama situarsi tra contrari e opposti, sfruttando le categorie per studiarne il rovesciamento, il limite. Quand’è che avviene infatti il passaggio tra esistenza e ideale, tra artificio e naturale? Esso non è che funzione del nominare: “Ma che significa nominare? Può il poeta far sorgere nel poema, grazie all’efficacia “magica” della sua parola, le cose stesse, a partire da quel punto di oscurità inconoscibile che era per Kant la cosa in Sé? Oppure gli incombe il compito di operarne la conversione nell’invisibile delle parole, toccando così quell’intimità del mondo divenuto la sostanza stessa della parola detta?”.
Che la parola divenga “accoglienza di ciò che avviene” è quanto avviene però non solo nel testo poetico, ma anche nel testo critico quando esso sappia accogliere l’opera, essere opera.

                                                                      Rosa Pierno

domenica 8 settembre 2013

Imre Toth ”Matematica ed emozioni” Di Renzo, 2004


Imre Toth, storico della scienza, ci introduce col suo piccolo libro Matematica ed emozioni, edizioni Di Renzo, 2004, al racconto della propria vita poiché la matematica ha un tale peso nella sua vita da dirigere l’elaborazione mentale anche nella sfera esistenziale. Niente di fatalistico però, poiché lo storico fa riferimento all’antico concetto di “daimòn”: l’uomo prima di nascere sceglie il proprio daimòn, cioè la propria personalità o stile di vita, da cui consegue la libertà di ogni nostra determinazione nelle varie e complesse situazioni esistenziali. Ed è su questo ingranaggio che avviene il passaggio di scala tra miserie, meschinità, grettezze umane rintracciabili costantemente in ogni evento storico e i grandi valori che pure la storia trascina con sé: “ Se non esiste la possibilità di giudicare al di là di questi piccoli fatti concreti tutta la storia umana diventa spazzatura”. Inoltre, è soltanto  l’eccezione che conta, poiché è in essa che si rintraccia il rifiuto dell’accettazione passiva, fondando la possibilità che una seconda Auschwitz non si ripeta.

La matematica rappresenta per Toth un avvenimento dello spirito: “immerso nel quadro etico-politico della presa di coscienza della libertà”. Proprio studiando la matematica e la sua dimensione metafisica, poiché sono entità che esistono solo nel pensiero, Toth ha sentito la necessità di conoscere il pensiero dei filosofi, avvedendosi ben presto che la matematica, conosciuta come una scienza razionale, è in realtà una fabbrica dell’impossibile: “la matematica dimostra, da un lato,  che è impossibile che un numero moltiplicato per se stesso dia -1, ossia che la radice di -1 non esiste, e poi fabbrica questo numero impossibile”. Questo superamento della logica lineare verso una linea di pensiero appartenente a tutti i mistici dialettici, questo passaggio dall’ente al non-ente, fa compiere a Imre Toth il seguente passo logico:  “la matematica si può comparare piuttosto all’arte, perché ci sono solo due forme di sapere esatte: gli Elementi di Euclide e Madame Bovary di Flaubert”. Non è possibile introdurre né eliminare elementi in nessuna delle due opere. Se vi è una differenza tra di esse è che Madame Bovary tratta di sentimenti umani e la matematica no: ”Eppure questa scienza condivide con l’arte lo status ontologico: è più vicina all’arte che non alla fisica o alla biologia”. “Benché i numeri immaginari non esistano la loro teoria descrive il loro mondo con un’accuratezza assoluta, così come il testo di Madame Bovary descrive la persona non esistente di Emma Bovary. Infatti, la matematica è una scienza esatta soltanto perché parla di cose che non esistono”.

Ma il fatto che la geometria non euclidea descriva un mondo impossibile, che Aristotele designava con il termine di geometria non-geometrica, non ha implicato che essa fosse definita come mostruosa o assurda. Ora è proprio osservando la convivenza tra le due geometrie che Toth si convince del “fatto che questa scienza ha lo stesso paradigma di un’opera d’arte”  e che si tratta di un unico dominio organico dello spirito umano, in cui due totalità opposte, euclideo e non euclideo, coesistono simultaneamente. La matematica fa parte integrante dello spirito umano e dunque affonda nello spazio trascendente della dimensione etico-politica dell’essere umano. Essa è veicolata da un atto di cui solo l’essere umano è capace ed è legata alla libertà già in Nicola Cusano. La matematica valorizza l’atto della negazione producendo mondi concreti: l’atto della negazione è sufficiente per garantire l’esistenza del non essere. Esiste la bellezza di un dipinto, di un bambino, di una pagina di Cusano, ma anche di un’idea. Ed è il sapere dell’oggetto che dà esistenza alla cosa saputa: “ogni lettura è un’interpretazione e ogni interpretazione è una manipolazione del testo”. “La geometria euclidea che genera il suo antimondo  si spiega per la presenza di un soggetto che dice “no” al suo proprio mondo”. Se Aristotele fu il primo a definire la libertà come scelta tra un sì e un no, fu Spinoza a dire che non è la necessità a costituire il limite della libertà, ma l’arbitrario. L’uomo libero sceglie il necessario e si oppone alle costrizioni.  

                                                                       Rosa Pierno


domenica 1 settembre 2013

Gilberto Isella, Enrico Della Torre “La verità” edizioni Pulcinoelefante, 2013


In occasione della  pubblicazione di un nuovo libretto per le edizioni Pulcinoelefante con una poesia di Gilberto Isella e un’incisione di Enrico Della Torre, pubblichiamo integralmente il testo da cui è tratta la strofa poetica presente nell’edizione. Associamo poche righe di commento per questi versi che paiono acuminati e frammentati, quasi reperti di uno specchio rotto che analogicamente riprendono quel tema dell’io, soggetto lirico, altrimenti inafferrato, che balugina e si ritrae, che s’afferra a maschere rotte e radici, che mentre sembra osservare dimentica,    che appare tra colonne e fibre ottiche facendoci rimembrare di fantasmi, risvegliante persino la mai sopita dialettica corpo-mente e, alla fine, quanto più si affonda nell’oscuro pare di vederci chiaro, quanto più si rimesta nell’opaco, sembra si elevi la verità.


E la mirabile opera di Enrico Della Torre, concorre per altre vie, esclusivamente visive, materiche, ma come dire, di una materia spolpata dell’inchiostro  e come disossata, desostanziata, che rimanda alla medesima assuefazione a una visibilità ottenuta per via di levare, di sgombrare. Anche in della Torre, fantasmi, apparizioni, incerte sovrapposizioni perseguono per vie alternative un medesimo concetto: quel ricorso alla percezione che tenta la via del raggiungimento dell’idea.



 a Enrico Della Torre

e allora sta proprio in quella macchia
la verità, ritaglio nero di sole,
maschera rotta
da radici,
oblò
d’oblii
*



puro spiraglio
adesso
il tatuaggio
dove un corpo ammirò
l’ewige
           Wiederkehr
*



  



noi,
impaginati nel tempio
da fibre ottiche divine
che rimbalzano
tra colonne di sillabe in sonno
*


  
incubo a cubetti
ammonticchiati
nel silo del cervello
poi il tetro spigolo
saturo d’hypnos
che spezza la monade-notte
                  e l’occhio va a capo
*








da un truciolo del tutto
balzò fuori il capricciosissimo
I-O
che sdentato
ora impasta nella bocca
due vocali asinine
*

  

corso all’impazzata per il bosco
il cielo si arrende a spine opache
e nel polso di un rovo
vacillante
si chiude
*








talento incastrato
nell’approssimativo reale
della lettiera
dove  corpi defungono
da sponda a sponda
*

  

alza la somiglianza un rabbuiare
svuota sacche simmetriche
al di qua
al di là di parete
scacciando  bacio da labbro
il nervo da lei impalmato
spande l’azzeramento
*



© gilberto isella