sabato 13 luglio 2024

Rosa Pierno “Le metamorfosi del libro. Dal libro miniato al libro d’artista” Gilgamesh Edizioni, 2024, collana diretta da Carla Villagrossi



 

Il libro è per eccellenza il depositario della memoria collettiva, è uno strumento di formazione e scambio culturale e la disciplina che se ne occupa comprende la sua materialità  (carta, tecniche di stampa, rilegatura), l’attività degli editori e dei librai, il mercato e le pratiche di lettura. I libri che contemplano l’intervento di un’artista, a loro volta, hanno una vera e propria selva di definizioni: libro illustrato, libro figurato d’autore, livre de peintre, libro d’artista, libro oggetto, opera libro, edizione d’arte. L’esplorazione diviene presto perdita dell’orientamento, se non si conoscono le categorie interpretative e tassonomiche che ne dovrebbero circoscrivere i domini o, almeno, far comprendere quei libri che vogliano superarle. Quindi, laddove il saggio Le metamorfosi del libro. Dal libro miniato al libro d’artista, Gilgamesh, 2014, a cura di Carla Villagrossi, ripercorre la storia di codeste definizioni, ciò non accade per amore delle classificazioni, ma per esporre l’ambito storico e culturale in cui esse hanno trovato la loro giustificazione. La mancanza di una classificazione, oppure l’uso dell’etichetta libro d’artista usata in senso generico, ossia anche per i libri illustrati o i livre de peintre, non fa, infatti, che generare confusione. Non è l’esclusivo intervento dell’artista a giustificare la denominazione libro d’artista, poiché essa è nata per indicare un prodotto con caratteristiche precise, spesso legate a una volontà intermediale. Pertanto, è bene delimitare tale classe che pretende, altrimenti, di designare troppe cose, ossia più nulla. 

I concetti così raccolti non sono concetti-categoria; sono contenitori generici, non certo caratterizzati da condizioni necessarie e sufficienti. Non si è trattato di costruire perciò un sistema classificatorio né dell’arte né del libro, pur seguendo le diverse denominazioni del libro, bensì di esplorare, cogliere e registrare le sue diverse forme, porgendo un sostegno per effettuare la loro valutazione. Ciò che conta, alla fine, è sapersi destreggiare nella selva degli esemplari, valutare la loro appartenenza o meno al mondo dell’arte ed essere pronti ad accogliere anche nuove proposte artistiche. 

Prendendo come punto inaugurale del cambiamento, rispetto al libro illustrato o al livre de peintre, il 1960, perché è questo l’anno in cui la pubblicazione simultanea di quattro libri dà l’avvio alla produzione di libri d’artista, si accenna soltanto, nel saggio, ai libri oggetto, considerando che la natura del libro è tradita se l’interesse per il suo aspetto sensibile esclude tutti gli altri. Mediante uno sviluppo mostruoso della materialità del libro, a parere di A. Mœglin-Delcroix, la maggiore studiosa del libro d’artista in Francia, si condanna il libro all’insignificanza del “niente da leggere” e anche del “niente da vedere”: sono oggetti “tutta esteriorità” che serrano il libro, invece di invitare a sfogliarlo; oppure fingono che sia aperto, ma sempre alla medesima pagina, ottenendo così di negare le ragioni stesse del supporto. Dello stesso avviso è M. Butor, per il quale vi è una differenza irriducibile tra i libri e i libri oggetto: questi ultimi sancirebbero l’atto di morte del libro. 

Le relazioni tra testo e immagine costituiscono il punto focale del saggio: esse assumono forme diverse: dai componimenti alessandrini ai calligrammi, dai carmina figurata ai libri miniati, dagli alfabeti figurati ai libri illustrati, dai livre de peintre ai libri d’artista. Se si volesse con un solo esempio far comprendere come il testo non sia sufficiente per esprimere ogni cosa e soddisfare ogni sete di conoscenza basterebbe indicare i trattati di anatomia, gli erbari, i ritratti. Un’essenza vegetale disegnata è immediatamente riconoscibile, mentre una descrizione verbale resta astratta. Le immagini, d’altro canto, non sono strutturate né sintatticamente né semanticamente, pertanto, la loro irriducibile peculiarità non può essere tradotta senza perdite in un altro codice. Se non si parte da questa opposizione, se non si riconosce questa impossibilità di sostituire la restituzione visiva con quella testuale, non si può veramente cogliere il loro apporto specifico. Ovviamente, la relazione istituita dalla presenza di entrambi all’interno di un libro apre a una serie di valutazioni. Lo iato esistente tra ciò che è visivo e ciò che è verbale fornisce un’occasione per arricchire e completare l’orizzonte conoscitivo, percettivo, intuitivo ed emozionale, proprio con l’utilizzo delle due diverse forme espressive. 

Seguire le vicende del libro illustrato e del libro d’artista vuol dire seguire di fatto le vicende dell’arte. Il libro è diverso dalla tela, ha una sua dimensione che non si esaurisce se non sfogliandolo, leggendolo, valutandone la qualità della carta, della stampa, della rilegatura, apprezzandone il frontespizio e il colophon, i rapporti selezionati per l’impaginazione, la scelta dei caratteri e la qualità delle immagini. 

Il saggio inizia con una rapida carrellata sul libro miniato, attraverso la quale si può seguire l’innervarsi di una consistente serie di mutamenti all’interno della relazione visivo/testuale. Il secondo capitolo, in relazione all’operato di Mallarmé, individua le basi teoriche di alcune pratiche che, risalendo dalla cultura ebraica, giungono, attraverso i secoli, a esplicitarsi soprattutto nella scrittura asemica, nell’utilizzo dei vuoti e nell’uso del colore bianco, ma anche nel minimalismo e nell’arte concettuale: elementi presentissimi nel libro d’artista. Il terzo capitolo descrive lo sviluppo del libro illustrato in Francia, alla fine dell’Ottocento, mentre in Europa, nel quarto capitolo, si dispiegano i movimenti del dadaismo, del futurismo e del costruttivismo, i quali danno un forte contributo a una diversa declinazione del libro (libro povero, libro di arte tipografica). Il quinto capitolo tratta delle esperienze italiane, riguardanti sia il recupero dei valori della tradizione sia il tentativo di connettersi con le teorizzazioni più avanzate condotte in Europa. Il sesto capitolo affronta alcuni problemi posti dalla definizione aperta dell’arte, dall’intenzionalità dell’artista e dal genere. Il settimo capitolo affronta la nascita del vero e proprio libro d’artista che si avvale dell’influsso di ulteriori teorizzazioni derivanti dalla linguistica, dall’intermedialità e dal ripristino delle esperienze dell’avanguardia. Percorre la storia del libro d’artista in Italia, dagli anni Settanta del Novecento, l’ottavo capitolo, sottolineando i legami con quanto svolto in precedenza in altre aree geografiche, ma anche indicando i nuovi apporti specificatamente italiani (Poesia Visiva). Infine, il nono capitolo è all’insegna di uno scandaglio delle relazioni che intercorrono tra testo e immagine, ove la panoramica sulle posizioni critiche mostra, oltre all’inevitabile pluralità delle posizioni, la consistenza dei problemi. 

Se si riconosce che il libro d’artista ha voluto sferrare un attacco al sistema mercantile dell’arte, combattere il sistema culturale occidentale nelle figure del Soggetto, della Storia, del Linguaggio, sottrarre al testo la sua capacità di costruire il senso, si deve ammettere che esso è nato in opposizione al libro di lusso. Nel quadro odierno si può affermare che una parte degli artisti più giovani sembra meno interessata alle possibilità del libro in quanto medium (diffusione, circolazione, accessibilità) e più interessata, invece, alla sua sola aura artistica. Per M. Butor siamo all’alba del dopo-libro, ossia nell’era dell’interesse che va soltanto ai libri sotto l’aspetto di opere d’arte; egli è soccorso nelle sue affermazioni da McLuhan secondo il quale un medium che perde la sua importanza sociale tende ad estetizzarsi, ripetendo pregiudizialmente che non si avrà arte se non al di là della sua utilità o malgrado essa. 

Il conflitto tra avanguardia e cultura di massa è stato attuale nella seconda metà del Novecento; oggi sembra, però, che i baluardi delle due fazioni in lotta si siano trasformati. Dopo il postmodernismo si fa fatica a trovare produttori dell’innovazione culturale in contrapposizione a quella che si ipotizza essere la cultura di massa. Con la fine dell’avanguardia, avanguardia e massa non sono più antitetiche: la produzione sembra essere votata decisamente al recupero, alla citazione, al riuso dei materiali storicizzati. Se una storia del libro d’artista appare possibile fino agli anni Settanta, già a partire dal 1980, la produzione di libri contenenti immagini di artisti prolifica, seguendo i percorsi estetici di ciascun artista. 

Oggi, che l’etichetta libro d’artista è usata impropriamente per tutti i libri in cui è coinvolto un artista, è apparso prioritario ripercorrere le tappe fondamentali dell’uso della forma libro per ristabilire non solo la ricchezza della relazione metamorfica tra testo e immagine, ma, soprattutto, per non dismettere alcune differenze inerenti alle ragioni classificatorie e non obliare la specificità delle arti, concetto ineludibile dal quale osservare la molteplicità delle loro relazioni. 


Rosa Pierno


domenica 26 maggio 2024

Gilberto Isella “Terre sotto vuoto”, Marietti1820, Bologna, 2024


Per un poeta la parola dovrebbe essere sempre anche ritmo, a tal punto che persino un scoiattolo avvolto da un bagliore prima di scomparire all’interno di un tronco, con la coda “conversa”, ossia batte il tempo nella luce. Quasi che ritmo e luce siano strettamente connessi, come il suono e il senso nel linguaggio. È nella luce e col ritmo che le cose e i segni divengono altro, si trasformano in oggetti prossimi, <<l’orma notturna / si fa foglia / e la foglia è di felce / figlia felice>>. Cosicché il lettore, mentre segue l’immagine costruita da Gilberto Isella nella sua ultima silloge Terre sotto vuoto, Marietti1820, 2024, si accorge di colpo che assieme alle cose si trasformano anche le parole: foglia / figlia e felce/ felice. C’è una vocale che si sostituisce all’altra o che si aggiunge e il senso si metamorfizza. Colui che compita mentalmente le parole del poeta non dovrà scegliere, dovrà conservare immagini e parole, trattenendone la sola figura della metamorfosi. Intanto si sarà decifrato che la luce scompiglia il linguaggio, poiché  vi è diretta connessione tra le due. Come se il visibile stesso sia restituito dall’uno e dall’altro, ineludibilmente. Ma il linguaggio non parrebbe di questo mondo; attiene più a una sovrana intelligenza, giacché la natura stessa, liberandosi dall’interpretazione umana che la assoggetta, si colloca ‘naturalmente’ sulla pagina bianca, vuota, del libro assoluto, richiamo mallarmeano. Se mai microcosmo e macrocosmo, anch’essi recuperati dallo stesso Mallarmé, si equivalgono come in una sineddoche, allora lo zig-zag di un calabrone deve corrispondere a un moto celeste. E dunque cadono anche i confini tra le materie: <<spazio libero da forre / violoncello dai liquidi confini / quattro corde / serpeggianti con il fiume>>. La porzione materiale sta al tutto immateriale: <<palinsesti divini?>>. Sembrerebbe che il tentativo di ottenere una risposta, vale quello di tentare una domanda, aprirsi alla domanda, accogliere la possibilità di un impossibile che è tale solo pregiudizialmente. Che cosa sarebbe l’infinito se non contenesse tutto? Eppure, la mente ridicolmente innalza le sue cesure, le sue dighe, i suoi dogmi. La canna pensante, l’uomo pascaliano trova nella sua mente barlumi bastevoli a fargli intuire che il trapasso tra le materie e il nulla è continuo. La luce e il pensiero sono prossimi, ma anche il sembiante di dio e dell’uomo lo sono. Il volto di Cristo consente un ennesimo passaggio tra il visibile e l’invisibile che Gilberto Isella indaga con disposizione opposta a quella di San Tommaso. Ancora un passaggio aperto: <<Transiterà con noi / l’antica sinopia astrale / che tiene in serbo / il suo santo / scabro / volto>>. Ecco dunque che sacro e profano si stringono in un’entità indivisibile, tanto che Isella conia il vocabolo ‘sacroprofano’. Esiste forse un ‘punto cieco’ in tale passaggio, che impedisce all’essere umano di avere una visione totale ed esaustiva dall’unica finestra della sua mente. Come un chiasmo si produce, nella poesia dedicata a Giacomo Leopardi, la coincidenza dello spazio celeste e della stanza quotidiana, ma appunto solo perché si parte da un’iniziale distorsione d’immagine, mentre le due dimensioni sono compresenti, già unite in origine. È una geografia pensante, quella di Isella, che si autoproduce, e nella quale canne/spade e acquitrini/luce coesistono.

La sua poesia non disdegna certo i simboli: <<pinna di sàrago la affida / a seme umano celebrante>>. Tali segni di riconoscimento tramano le sue poesie riuscendo a costruire una labilissima, tenue, eppure resistentissima trama tra il qui e l’oltre. Se terra e parola sono una sola cosa, altrettanto concreto rispetto alla realtà appare il prodotto dell’immaginazione. È un vaso che Pandora/Poesia apre sorvolando l’intero emisfero. La poesia è questo lancio/dono, questa apertura dell’otre dei venti: nulla resta fuori. L’insieme è formato dal materiale e dal mentale senza soluzione di continuità. Dalle sirene a Leonardo, da Euclide a all’impresa degli Argonauti, è tutto un libro! 

Se si trancia il rapporto inestricabile dell’intellegibile con l’invisibile, se non si accetta la relazione con il ‘dio fabbricatore, allora, nello studiolo, lo studioso <<avrà smesso di sudare nell’arsura / come il sasso è incapace di morire>>. Aiuta osservare l’esistente alfine di non perdere il legame, in siffatta maniera quanta bellezza si potrà pertanto scorgere << nell’onda geroglifica / intorno al volo di un gipeto / guidato dal sole, dal vento / che d’incanto sparisce nella baia!>>. Attentissimo alla sonorità delle parole, e come sospinto dalla brezza marina, Isella scrive: <<criniere in vortici, vortici / in visiere, falde sbeccate / di lontanissime sponde / dietro il cielo>>. E certamente sarà ancora la splendida sua vena poetica, che oramai sfreccia come una rondine, a fargli sentire il limite della mente come qualcosa di aggirabile con una sorta di ebbrezza: <<L’interdetto non dice né detta / eppure ancora scrive e piroetta / tra i cartocci del soffrire>>. E pur anche la filosofia è sottoposta allo sguardo immaginativo della poesia, passa cioè attraverso la potenza immaginifica di una parola liberata dalle catene del quotidiano. 

Resta il nulla tra ‘culle e tombe’, ma è un nulla sonorissimo: <<là dove il nulla rintocca / il flauto consuma la bocca >> a rimarcare il legame tra il qui e l’oltre. Anche se certamente permane un abisso tra la bellezza materiale e il nulla: <<come mantenere la bellezza / dallo svanire? / come mantenere la bellezza dello sparire?>>. La risposta è nella percezione: è essa che ci fa accedere a ciò che sta oltre le cose, pertanto, <<s’impunti un istante \ sull’ancia dell’oboe / prima che bocca la risucchi / nell’effimero evento / del gioire>>. Eppure, è qui, su questa terra, la guerra e Isella non si sottrae alla responsabilità di rendersene testimone, poiché scopo del poeta non può che essere quello di sottrarre al vuoto, all’insignificanza, la terra, con la correlata dimensione celeste.


Rosa Pierno

mercoledì 10 aprile 2024

Michel Butor e Carlo Ossola “Conversazione sul tempo”, Pagine d’Arte, 2024

 


Michel Butor, scrittore, saggista, artista, è autore sorprendente e, difatti, alcuni appassionati, fra i quali gli editori Matteo Bianchi e Carolina Leite della casa editrice Pagine d’Arte, sono sempre all’opera per proporre al pubblico i suoi testi e i suoi libri d’artista, anche partecipando alla contemporanea esposizione Dialoghi fertili che si tiene al Porticato della Biblioteca Salita dei Frati di Lugano. Ecco, pertanto, la splendida occasione della pubblicazione dell’intervista che Carlo Ossola ha realizzato il 28 maggio 2011 a Saint-Émilion, nell’ambito del V “Festival Philosophia” sul tema del Tempo; intervista trascritta senza cambiare nemmeno una parola e nella quale Ossola porge le sue considerazioni, concedendo a Butor un respiro di taglio saggistico. Il tempo, a cui Butor ha dedicato un testo narrativo, L’impiego del tempo (Mondadori, 1960) viene affrontato nell’intervista da quattro angolazioni differenti, tutte ugualmente utili a restituire la complessità stratificata di un concetto a cui solo la consuetudine regala la linearità, che peraltro si può considerare un vestito dell’imperatore da evitare d’indossare, pena la perdita della nostra ricchezza esistenziale.

La scrittura gioca un ruolo chiave nella restituzione del groviglio temporale in cui la nostra psiche è immersa e lo fa sempre da una postazione spazio-temporale, grazie a slittamenti, sovrapposizioni, sconfinamenti, ritorni con i quali può sconfiggere i blocchi, le rigidità, le continue cesure, ristabilendo un flusso in cui si immettono più fluidi provenienti da diverse direzioni. È un movimento, quello scritturale, in cui, se si cerca costantemente di tenere distinto qualcosa per non farsi travolgere dall’onda traversa, si tenta anche di poter provare l’ebbrezza di un tempo indistricabile, dove passato e futuro appartengano alla medesima cronologia. Quest’ultima è come una percezione che mescola e rende distinguibile al tempo stesso, consentendo la formalizzazione di una scrittura capace di registrare i tempi come omogenei e promiscui al contempo. Senza escludere, trattandosi di scrittura, che anche il lettore, nel leggere, intervenga coi suoi tempi. Butor stesso, nel rileggersi, riscontra il non riconoscersi, il non riuscire a risalire al suo pensiero di allora, ma in fondo anche questo fa parte del tempo della propria persona: uguale e distinto in ogni momento. Vale qui la concezione agostiniana della contemporaneità di tutti i tempi, così come la riporta Butor: <<il passato è presente e il futuro è già presente, e il presente è già passato nel momento stesso in cui lo si dice e noi possiamo parlarne solo perché è anche futuro>>. La musica offre del tempo una rappresentazione può vicina alla nostra interiorità rispetto a quella del calendario, ossia una pluralità.

Una diversa lettura dei tempi è in atto anche nelle affascinanti ipotesi di Charles Fourier, per il quale non esiste un solo mondo, ma una pluralità di universi comunicanti; ciò ridà vita alle corrispondenze di matrice medioevale, ove <<l’universo e l’uomo sono omologhi>> e alla lettura vichiana, ove si narra <<la storia della società prendendo a modello la storia di un individuo>>. I mondi si trasformano l’uno nell’altro e le corrispondenze fanno percepire il tempo come aperto e chiuso in corrispondenza di alcune tappe esistenziali (ad esempio, la giovinezza e la senilità). Dunque, ancora tempi diversi, che chiedono di essere  sistematizzati in contesti più ampi e di non essere ridotti alla linearità. Quello che importa è non diventare passivi e riuscire a promuovere un’alleanza tra spazio e tempo che, fra l’altro, non coincide solo col tempo individuale, ma con il tempo di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno. Anche lo spazio, pertanto, ha bisogno di essere ogni volta riconsiderato, così come si legge in Descrizione di San Marco (Abscondita, 2003), dove Michel Butor infilza una catasta di secoli condensata in un unico monumento. La storia si manifesta, normalmente, nei suoi limiti circoscritti, mentre le sfugge, per oblio o ignoranza, la sua estensione. Pura illusione è, difatti, una storia narrata secondo un ordine cronologico: <<Se voglio descrivere fatti accaduti durante la giornata, ho l’impressione di rinviare costantemente a fatti anteriori o a progetti>>. Pertanto, sono le risonanze attraverso le reti temporali che dovremmo imparare a percepire. Infatti, anche ciò che non si è realizzato nella nostra esistenza ha diritto teoricamente a testimoniare la <<nostra propria verità>>.


Rosa Pierno


venerdì 22 marzo 2024

Marco Furia “Iconiche proposte”, I Libri dell’Arca, Joker, 2024

 


Vicino alle arti visive, in particolare al gruppo di Adriano Spatola di cui condivideva l’idea di “poesia totale”, Marco Furia, dunque, non sorprende con l’uscita del suo Iconiche proposte, I libri dell’Arca, Joker, 2024, un libro-catalogo che il poeta introduce con un interessantissimo intervento, chiarendo i propri intenti artistici. In questione è la differenza tra figurazione e astrazione; entrambe acquistano una particolare prospettiva in relazione a una realtà che non scompare mai, presenza ineludibile. Lo stesso Kandinskij la includeva attraverso le sensazioni e la memoria, pur avendo come obiettivo la realizzazione di una composizione astratta mediante le forme geometriche, le macchie e i colori. Sullo stesso binario si possono collocare le opere di Marco Furia in quanto le sue composizioni trovano e rinserrano il proprio ritmo con colori primari e rette che s’incrociano, oppure con grovigli di linee; opere brillanti, in senso letterale e non, ottenute tramite elaborazioni digitali. E se, come egli scrive, per quello che riguarda il rapporto fra realtà e rappresentazione, <<i due diversi stili, pur dissimili, conservino tratti comuni tanto che, in certi casi (mi riferisco, ad esempio, a certe opere di pittori surrealisti), i loro confini si presentano labili, frammentati>>, allora si conferma che l’opera, astratta o figurativa che sia, condivide una comune origine, il dato di realtà. Tale labilità, che indica una difficoltà nell’individuare la distanza tra realtà e rappresentazione, fa cadere l’accento, una volta che il dato di realtà sia accettato come dato di partenza, sull’elaborazione operata dal soggetto. Il soggetto è, non di meno, parola da doversi afferrare con le pinze, quando si tratta di Furia, appassionato studioso di Wittgenstein e come lui convinto che l’interiorità sia quanto si configura proprio a partire dai mezzi espressivi (linguaggio, musica, arti visive).


Furia indica che attualmente è in lui più forte la tendenza verso l’espressione visiva per la necessità di operare <<un distacco, per meglio cominciare a guardare/ fare in maniera più intensa>>. E si sottolinea, qui, che la parola è astratta, rispetto al “linguaggio” delle arti visive, e ciò vale anche quando si tratti di opere visive astratte, poiché esse offrono alla vista caratteristiche che astratte non sono (la costruzione delle linee di diverso spessore, il timbro del colore, i pesi della composizione, non sono traducibili nel verbale senza perdita).


Certamente, il passaggio da verbale a visivo non è rintracciabile se non tramite una serie di metafore. Lo stesso Furia vi si cimenta, additando la necessità di un’apertura <<già sperimentata con le forme verbali>>. Si ricorda brevissimamente la sua prosa originale, al limite dell’impersonale, che racconta di gesti minimali in cui il soggetto appare sagomarsi esclusivamente grazie a una sequenza di comportamenti. Una prosa che tende a una descrizione scevra di connotazioni, ma appunto, ove l’astrazione propria del linguaggio non può essere che una similitudine lanciata come una corda su un burrone al visivo; una metafora, d’altronde, particolarmente volatile. Resta la passione in Marco Furia per la rarefazione dei mezzi, la capacità di lavorare con pochi strumenti, quasi con un abaco di forme non altrimenti riducibili. Certamente, sono espressioni riconducibili entrambe a uno stesso autore/artista e, dunque, è possibile ravvisare nelle sue diverse formulazioni una congruenza, una medesima tendenza verso l’astrazione. Interessantissimo è pertanto leggere le prose o le poesie di Furia e osservarne le opere visive, tenendo in conto questa doppia capacità espressiva per cercare di fissare tangenze e prossimità.


                                                                                                  Rosa Pierno




lunedì 5 febbraio 2024

Angelo Lamberti, “Cose da nulla”, Gilgamesh Edizioni, collana La corte dei poeti, 2023, a cura di Carla Villagrossi.

 


Scegliere una posizione rispetto alle due frontiere del tutto e del nulla, quando il tutto è già perso, senza rimedio, e il nulla dilaga, livellando ogni cosa, è, indubbiamente, azione eroica. Ecco come definire l’azione poetica di Angelo Lamberti, nella silloge Cose da nulla, Gilgamesh Edizioni, collana La corte dei poeti, 2023. Il potere dell’immaginazione vi ha un ruolo egemone e certamente assicura la sopravvivenza in un  ambiente così ostile. Ma il suo ruolo è tutto mentale, o ha un reale potere operativo? Anch’essa, alla fine, sembra appartenere al nulla:


Il canto delle sirene


Dal messaggio rinvenuto 

in una bottiglia 

tra le acque del naufragio, 

la realtà smentisce la leggenda.


Rende a conoscenza 

che il canto incantatore 

delle sirene è un cantabile

diffuso in alto mare 

da un silenzio irreversibile.


Per quanto, l’immaginazione parrebbe recare con sé un peso a piombo che ne inficia l’uso a perdere e le consente di mantenere la coerenza dell’analisi. E Don Chisciotte ne è il simbolo. Potendo scambiare mulini a vento per giganti, l’immaginazione non fa che porre in essere un’illusione. Dà la stura alla fallacia e allo “sfacelo di un disguido”. A un  tutto che si svaluta nel niente. Però dà luogo anche a una compensazione, ove il vizio di essere prende il sopravvento. L’immaginazione sembra dispiegarsi proprio a partire dal nulla. È una conseguente risposta; eppure, mette in moto, è ciò che accade. Insopprimibile. E che importa se le sue costruzioni sono autentiche scenografie del sogno, irrealtà.

Come può esserci risarcimento in un continuo equivoco? «Sarà vortice di giallo sgomento / simile a un abbaglio di girasoli». Parrebbe addirittura che sia la disillusione a consentire all’immaginazione il suo ingresso sulla scena. Ribaltamento! Si giunge così a quel «Nulla di Niente / che è un prodigio del Tutto» di montaliana memoria. Il nulla sembrerebbe in agguato, solo se non si considerasse che compensazione e disguido assumono un identico valore.


Eppure, troppo facile l’equivalenza tra miraggio e fanghiglia, tra ciò che è fresco e ciò che appassisce! Qui, Lamberti è memore della donzelletta nel dì di festa. E ancora leopardiana è l’ossessione per il tema delle ricordanze, ove la nostalgia pare apporre una correzione al rapporto tutto/nulla, donando una valenza maggiore ai ricordi rispetto al calcolo disilluso operato sul reale. Ci si chiederebbe dove mai l’immaginazione estragga la sua imperterrita forza, nonostante la consapevolezza dell’inutilità della sua  applicazione. Non può essere solo a cagione di una sensibilità tesa e vibrante. Pur nella “disperanza”, essa non flette di una virgola dalla sua marcia. E Lamberti lascia pensare che a questo inarrestabile impeto si debba riconoscere un valore, si debba accogliere il suo diritto a trasmettersi: i ricordi di conseguenza assumono un ruolo guida, di testimonianza tra esistenze, tra diverse generazioni. Don Chisciotte non è mai stato solo, poiché replicato da tutti i suoi lettori.


Essere o non essere


Per eccesso di stratagemma 

è assorbito dal dilemma 

dell’essere o non essere, 

da non avvedersi del sipario 

che silenzioso cala sulla scena.


Come un sicario.


La morte, divenuta personaggio, assume inevitabilmente un viraggio spettacolarizzato, è buttata nella mischia. Sicché sembrerebbe che non mai a un poeta sia concesso, poiché scrivente, di credere alla verità del solo nulla o della sola morte. Non c’è verità nella scelta di uno soltanto degli estremi. Ben piantato, in mezzo alla pagine, il poeta non può che sperimentare la risibilità di una posizione estremista. Per Lamberti si tratta della strategia dello scorpione che offre qualcosa di non commensurabile alla posta in gioco, eppure il baratto, una volta realizzato, ha ragione di essa. Cosicché, persino Amleto, dopo aver soppesato l’essere e il non essere, così come “il riessere e il non riessere”, in quanto replica del già noto, ammette che “a valor di rinomanza / la realtà non vale la finzione”, ma, appunto, è per risiedere tra loro, tra altri autori, non per uscire dalla scena a braccetto con il solo tutto o il solo nulla. 

La silloge si snoda come una riflessione scandita da intervalli, toccando i libri di Kafka, di Cioran, di Shakespeare, di Cervantes, del Vangelo e pur anche il mito, fino a cercare la “nudità del muro” e gli “spazi dell’afasia”. A tratti la presenza della rima addolcisce la durezza dello scontro tra verità opposte. Allitterazioni le danno sostegno e impongono il lato faceto della versificazione: «Sarà un tentativo di fuga / con ali di cera / dal labirinto invaso / delle ombre della sera». Come del tutto ironico è il confronto con l’idea di Dio, già escluso da un dialogo paritario, assieme alla morte e al futuro, sebbene Lamberti sia navigato autore di teatro e perciò avvezzo alla difficile arte del dialogo. A questi mezzi personaggi, che non danno risposte, che si sottraggono, come si sottrae il nulla, sono dedicate le poesie di Lamberti, costruite tramite un’eccedenza di risposte da parte del solo interrogante. 

La poesia è un valore, se da essa si ricavano risposte, anche parziali, ma concrete. Che mai potrebbe restare di queste povere cose silenti, per colui che ha dalla sua l’immaginazione, che ha lo straordinario ruolo di dover affrontare il male? Saper vivere è un atto poetico.

                                                                       Rosa Pierno


venerdì 12 gennaio 2024

Carla Villagrossi su “Via Trieste” di Ombretta Costanzo, liberedizioni, 2023

 


Ricordare per conoscere


Via Trieste di Ombretta Costanzo  (liberedizioni, 2023), si delinea come una finestra sulla narrativa contemporanea utilizzando il metodo autobiografico del reconnecter, ovvero del riconnettere l’essere narrante a un periodo della propria vita, in questo caso la pre-adolescenza. Il lettore è guidato dallo sguardo fresco e sveglio di Nerina Sanfelici che presenta il suo punto di vista “in soggettiva”. Il racconto è come un visore ottico che, attraverso l’identità familiare, incrocia il campo aperto del sociale e del collettivo. Quello scelto dall'autrice è un criterio autobiografico riconducibile alla memoria consapevole del ricordo visto come esperienza del conoscere, una pratica che si integra con l’universo emotivo-affettivo per stabilizzare gli eventi a distanza nel tempo. Il processo ricostruttivo del proprio passato è così il frutto di una coscienza autonoetica che accompagna l’atto del ricordare alla consapevolezza di sé. Il ricordo emotivo sembra avere una connotazione positiva o negativa in base all’immagine che l’autrice attribuisce all’evento rammentato, non solo all’interno di questo, ma anche rispetto al momento in cui quel ricordo ha preso forma e a quello in cui viene rievocato.

Attraverso questo vaglio passano i ricordi di Nerina e della sua famiglia, della scuola, del portone d’ingresso, della sua casa di via Trieste a Brescia, dei fratelli e sorelle, della madre, del padre, della piazza, del castello, del cortile. Si tratta di una somma di anatomie interpretative che gli eventi, ormai lontani, stanno suscitando nel tempo della rievocazione.

La famiglia Sanfelice, con la considerevole presenza di otto fratelli, non può che essere complessa e caotica da gestire e da vivere. Al riguardo la piccola Ornella detta Pupa utilizza una efficace storpiatura linguistica: «Questa famiglia è molto pesante e si importunano troppe ingiustizie…». L’esistenza nella città lombarda è collocata in quel Novecento che ancor oggi chiede di essere indagato e riconsiderato, perché molto del nostro “adesso” ha radici in quella realtà storica. È attivo, nelle maglie del racconto, un neorealismo fatto di voci, di quartieri, di valori consumati, di contraddizioni tra sacrifico e benessere. Sono gli anni del miracolo economico, del grande ottimismo, ma anche delle disparità sociali quelli che regolano la vita della famiglia Sanfelice, privilegiata perché il capofamiglia ha un lavoro importante, ma soggetta alle ristrettezze imposte dalle lacune finanziarie aperte dal secondo dopoguerra.  

Come in un mosaico si compongono i vari episodi di vita tra i quali emergono fantasie e pensieri immaginifici, tracciati nell’ordito del quotidiano, ingenue fantasmagorie della realtà fiancheggiate da desideri di riscatto e giustizia. Piccole storie di gioia e paura.

I diritti dei bambini e degli adolescenti sembrano scaturire da loro stessi per poi rivolgersi a un mondo adulto, prevalentemente orientato a bisogni e interessi personali. L’aspetto educativo e formativo della scuola e della famiglia viene rievocato nella sua fisionomia ancora “acerba” rispetto alle aperture e ai passi avanti che si sono manifestati nei decenni che ci ricollegano all'oggi. I diritti fondamentali di donne, bambini, minoranze trascurate, spingono per potersi evolvere ed essere recepiti. Il desiderio di libertà e autonomia è rappresentato nel racconto dal costante aleggiare della figura di Tito Speri, eroe del Risorgimento, simbolo della ribellione contro le repressioni e legame tra la città di Brescia a quella di Mantova. Gemellaggio che coinvolge la famiglia Sanfelice attraverso il trasferimento nella città virgiliana e che anticipa il legame di Nerina con l’altra metà di sé, più adulta e matura. Il presente si proietta nel futuro e predispone la memoria.

Carla Villagrossi


venerdì 29 dicembre 2023

Marco Furia su Il tocco dell’ignoto di Stefano Iori, peQuod, Ancona, 2023

 


 Un ignoto silenzio?


“Il tocco dell’ignoto”, intensa, sapiente, raccolta di Stefano Iori, potrebbe anche essere intitolata “Il tocco del silenzio”?

Se sì, fino a qual punto?

Ignoto e silenzio, non certo sinonimi, hanno qualcosa in comune: innanzi tutto, direi, il senso di sospensione.

Immaginiamo di attraversare un oceano sconosciuto privi di punti di riferimento: quale sarà il nostro destino?

Raggiungeremo una costa o non arriveremo mai alla terra ferma?

Si tratta di una sospensione temporale quanto esistenziale: quel tempo che manca, eppure c’è, siamo noi immersi in un attimo che dura non si sa fino a quando, ossia in una sorta di presenza latente (non a caso, “la sapienza corre / a partire dal dubbio”).

Quanto al silenzio, è anch’esso partecipe del senso di sospensione: chi o che cosa romperà il suo incanto?

Non si tratta, però, come nel caso dell’ignoto, di durevole attimo, bensì d’una parentesi, d’una necessità e nello stesso tempo di un accidente.

Comunque, il silenzio, come l’ignoto, ci coinvolge, ci tocca:


“Il silenzio è la forma non forma dei nostri modi di affrontare l’ignoto che nella sua immanenza ci rende attoniti e muti, ma capaci di intendere l’inudibile”


e ancora


“Il silenzio è voce dell’ignoto che sta

immanente

un fiato sopra noi

burbera, incomprensibile,

baluginante assenza”.


E forse una “poesia” che “s’acquatta / nei buchi di vento” è la forma espressiva più adatta a suggerire che


“Nel silenzio svuotato

l’assenza risuona”.


Del resto, pronunce dal tono dichiarativo come


“L’energia che abita la poesia sottende la capacità e la potenzialità della domanda quale motore inesauribile della creatività. L’opera artistica è la risposta a dubbi e istanze di un autore che si concretizza in un frutto, una silloge, un quadro, una melodia”


paiono introdurre sapienti riflessioni sulle umane maniere di pensare e parlare delle (variabili) modalità non certo esenti da incompiutezze e difetti:


“L’umano controcanto fluisce da poesia e filosofia. Esse si illuminano vicendevolmente poiché le loro ombre sono della stessa immateriale natura”


“Il gioco del pensiero è sempre imperfetto, ossimorico, dinamico fino all’eccesso nella danza inevitabile della differenza. Ombra del dire che vive nel contrasto”.


In sostanza, mi pare che Iori proponga una sorta di persistente contrappunto tra ignoto, silenzio e pensiero-parola, ossia un verbale, fluido, alternarsi che chiama in causa la complessità dell’essere.

Ci siamo come ci siamo e poco importa il perché.

Il perché tende a spiegare mentre la poesia illumina di un chiarore che è originale forma d’immediata conoscenza.

Mi sembra questa, alla fine, la profonda consapevolezza che il Nostro riesce a comunicare avvicinando con assiduità il lettore a un poetico intendere: poetico intendere inteso quale attiva propensione, possibile atteggiamento che non esclude a priori nessuno.

Umano tra gli umani, Stefano riesce a raccontare con intensi tratti un sé che è anche un noi offrendo feconde prospettive: impresa non facile, davvero.


                                                                                              Marco Furia



Stefano Iori, “Il tocco dell’ignoto”, peQuod, Ancona, 2023, pp. 85, euro 15,00