sabato 28 giugno 2025

Sintassi del Segno Sospeso, mostra di Maria Rosa Benso presto il Teatro Palazzo Saluzzo Paesana, maggio 2025

 



Sebbene alla ricerca degli accadimenti che si situano sul confine, nel tentativo di sorprendere ciò che è evanescente, apparente e perciò stesso incerto, Maria Rosa Benso non rinuncia a intitolare la sua opera, la prima che appare nel catalogo della mostra Sintassi del Segno Sospeso, tenutasi a Torino presso il Teatro Palazzo Saluzzo Paesana nel maggio 2025,  Strutture fluttuanti. Ora, è ben evidente che una struttura per reggere non può essere labile né incostante, se non venendo meno alla sua ragione d’essere, ma tale antinomia ben racconta come l’accento venga posto dall’artista sulla paradossalità insita nell’azione del dipingere che dalla materia passa alla materia avendo spianato tutto quanto di reale esista. In una splendida distesa d’acqua azzurro cobalto, un puntino nero ci mette sull’avviso che, poiché è di pittura che si tratta, il vero antecedente è la storia della pittura stessa: dunque, per quest’opera, il pensiero va a Mirò. Ma subito lo sguardo si perde seguendo, nelle intestine profondità, le cime di giganteschi filamenti, forse di materia organica, e il fruitore incontra un secondo paradosso: la profondità si ottiene su una superficie. La riflessione di Benso, pertanto, è sempre anche una riflessione sulla pittura. 

Se esiste materia, essa è desostanziata, presenta vacuoli, ossia è lavorata sottraendo pigmento bianco dalla carta inchiostrata (Materia sospesa, inchiostro su carta, 2022). Ha persino un accenno di forma ed è fortemente analogica, al fine di insistere sulla metamorfosi, sul divenire, più che sulla saldezza per quel che riguarda le cose del mondo. In fondo, la stabilità del mondo è un desiderata dell’umana mente.

Nelle due carte intitolate Percezioni, (tecnica mista su carta, 2021), la superficie è mossa, disomogenea, appena vapori acquei; con alcune asole, nelle quali traspare il candore della carta, essendo aree prive di campitura. Su tale estensione si sovrappongono addensamenti grigi, delineando una zona dove è meno possibile discernere: forse banchi di segni mnemonici. Ed è qui che entra in campo la scrittura come intervento mentale. Il segno aggancia la volontà, ma anche l’incoscienza. Sappiamo molto più di, ma lo dimentichiamo. Spesso è proprio il sostrato mnestico a tirarci in ballo, a trascinarci.

La memoria, inestricabilmente intrecciata al tempo, è la protagonista di due opere: Attraversare il tempo e La materia del vento (entrambe realizzate a olio e tecnica mista su tela, 2025). Tempo e memoria striano, tolgono intensità, elidono la materia, senza però riuscire a cancellarla del tutto, poiché rimane un’impressione: sorta di lastra sulla quale un vento, che sposta e desostanzia, erode i margini.

L’opera At the still point, there the dance is, (olio e tecnica mista su tela, 2025) palesa la presenza di una scrittura che si sovrappone al visibile, ma, appunto, è un visibile guardato con gli occhi della mente. Un circolo bianco simboleggia la luce, non abbagliante, un punto denso, mentre la scrittura, solo apparentemente leggibile, è formata da una calligrafia elegante quanto indecifrabile. È il verbo da cui tutto origina. A conferma, in Prima che sia voce (tecnica mista su carta, 2024), che nelle tenebrose spazialità soltanto un moto di segni si manifesta, prima ancora del verbo.

La scrittura si confonde col puro segno nell’opera Centro e assenza (olio e tecnica mista su tela, 2025), divenendo a tratti disegno, quasi fosse possibile una sorta di deformazione, un’anamorfosi di cui non si verrà mai a capo e che induce il fruitore a riflettere sulla vicinanza che scrittura e disegno hanno sotto taluni aspetti. Ci si chiede anche se l’assenza si possa scrivere. Il titolo, come la stessa artista indica nel sottotitolo, proviene da Henry Michaux, Entre centre et absence. Maria Rosa Benso, difatti, inanella opere che per i titoli si rifanno alla letteratura di area francese. In Je veux ētre un poète, et je veux ētre un ciel (da Arthur Rimbaud, lettera a Paul Demeny) del 2024, nel buio silente, la nascita del mondo terreste è data dal colore Terra di Siena; si vede la luce coincidere con la scrittura, o meglio con una sorta di prescrittura, dove il senso letterale è ancora di là da venire e non ha in fondo importanza che arrivi. Il senso, quello vero, pare consistere in un indefinito. Tuttavia, la scrittura, larvale, è già comunicazione, come attesta A più voci, (tecnica mi sta su carta, 2024). È già una danza, un passo doppio, un addensamento della materia. Il rosso in luna forse, tramite il valore simbolico del sangue, all’umano orizzonte. Parrebbe potersi affermare che alla parola compete solo il segno della sua stessa perdita. I titoli delle opere tradiscono un’infedeltà al reale e una preferenza senza ripensamenti per l’origine introvabile delle cose, la cosmogonia del senso totale, con l’irrinunciabile corrispettivo di totale mancanza di senso. Lo si comprende bene in Mirror (inchiostro su carta, 2024), laddove a specchiarsi solo due segni, mentre lo sfondo è in liquefazione perenne. Come riconoscere un’identità in un siffatto paesaggio?

La geometria, quando presente, come in Fenditure (argento ossidato su carta, 2022) disegna un ambiente estraneo, simbolico, sgraffiato e riporta alla memoria le fotografie scientifiche delle particelle sorprese nei loro inimmaginabili tragitti, come, d’altronde, il titolo stesso farebbe pensare. In realtà, sono gli effetti che si ottengono con la brunitura dell’argento: labirintici segni con sprazzi di luce ed ombre sui quali soffia un vento da microcosmo.

In Whispers e in Il peso delle nuvole (entrambi realizzati con tecnica mista - assemblage, del 2024), lacerti di garza di seta mimano le volute di nembi vaganti nell’aria, ma sono rigidamente riquadrati da cornici bianco-nere che li fanno dialogare con la geometria. Quest’ultima è la simbolica stampella della ragione, ma la razionalità compie i suoi magheggi per far quadrare il cerchio: il paradossale è, dunque, perpetuamente in agguato in siffatte opere realizzate con raffinatissimi mezzi, sul limitare di un minimalismo che è strumento per accedere alle questioni ultime e peraltro nient’affatto distanti dalla nostra quotidianità. 

Nell’assemblaggio di Trasparenze (2024) e di Brouillard (2025), Maria Rosa Benso introduce rametti, garza di seta, vecchi quadranti di orologio da polso privi di lancette per giocare sulla soglia tra il vedere e il non vedere, sulle consistenze appena sufficienti delle materia, sicché la domanda sembra più riferirsi alla reale fondatezza delle sostanze e alle inevitabili apparenze a cui diamo il pomposo nome di realtà. 


Rosa Pierno


domenica 11 maggio 2025

“…così fiorirà”, mostra collettiva per il ventennale alla galleria La Nube d’Oort, Roma, dal 14/05al 25/06 2025

 


“...così fiorirà”


14 maggio  – 25 giugno 2025


 “L’uomo come l’erba, i suoi giorni come fiori del campo, così fiorirà” (*)


Una mostra per festeggiare i vent’anni di attività (2005-2025) della galleria La Nube di Oort


Vernissage   mercoledì 14 maggio 2025 ore 18.30

* dal titolo di un'opera di Iulia Ghiță che riporta un verso dei salmi


Per la mostra che celebra il ventennale dell’attività della galleria La Nube di Oort il direttore artistico Cristian Stănescu ha voluto scegliere una frase poetica che valesse come tema della mostra: "L’uomo come l’erba, i suoi giorni come fiori del campo, così fiorirà". Tale tema, non da prendersi alla lettera, è stato accolto con sensibilità dai numerosi artisti che hanno partecipato alle precedenti esposizioni. Naturalmente, la numerosità delle opere presenti (quarantasei) attesta del fantastico lavoro svolto dalla galleria romana negli anni che vanno dal 2005 al 2025. 


Effettuando il vaglio delle opere presenti, si rileva che alcune opere presentano un soggetto naturalistico declinato a volte con elementi geometrici. Si vedano i fiori dai colori spenti e pastosi accostati ai coni dai colori terrestri e cilestri di Luca Grechi; l’abaco di forme vegetali sempre dissomiglianti l’una dall’altra di Geneviève Rocher; i fiori cosmici di Peter Flaccus, realizzati a encausto e aventi perfette forme opache circolari ed esplosioni a raggiera trasparenti; “i  petali” di Licia Galizia in poliene verniciato, carta e legno, in cui colore e forma si oppongono a ciò che è vegetale. Il referente naturale è invece completamente assente dal quadro di Antonio Cimino: in esso si rincorrono grandezze dal sapore analogico, ma vi è ancora il ricorso a figure geometriche.


In alcune opere è in atto una dialettica che salva l’estrazione dell’idea, ma anche la concretezza del dato, secondo la lezione di Aristotele. È una questione importante poiché determina l’accoglimento del divenire, evitando che esso sia escluso. All’interno di codesta dialettica opera Georgina Spengler, con un tulipano nella pienezza della sua fioritura alle prese con la galassia di Andromeda e con le linee fluide di un tempo lineare/circolare; Leila Mirzakhani coglie dei papaveri la traccia esclusivamente cromatica; mentre Sandra Heinz sorprende le ortensie nel tempo e nello spazio del loro formularsi e Rosa Pierno realizza un acquerello in cui le forme si disciolgono e si raddensano nell’esclusivo movimento  del colore. 


Nei lavori che si situano tra descrizione e decorazione, il piacere non è disgiungibile dalla conoscenza. La decorazione, che si articola fra astrazione e naturalismo e che non ha mai abbandonato l’arte moderna e contemporanea, mostra la sua presenza perenne anche nell’opera di Myriam Laplante, la quale presenta la natura nella sua duplice veste di schema e di materia, un opera che rimanda a una sua performance; Cristiana Pacchiarotti fa spuntare i suoi delicatissimi fiori impunturandoli in una lastra di porcellana; Elly Nagaoki formula le sue intricate essenze dal sapore memoriale, non prive di colore tonale; le forme quasi assenti di Iulia Ghiță svaniscono per interna dissolvenza e nell’opera di Innocenzo Odescalchi si contrappone a un fondale espressivo e materico una forma floreale stilizzata.


Esplicitamente legati alla consistenza del filo, alla serialità del ricamo e della tessitura sono le opere di Simone Pontecorvo e di Giorgia Accorsi, anch’esse annodate a stretto filo alla decorazione, con forte preminenza degli elementi materici e gestuali. In Edith Urban, invece, il collage realizzato con materiali diversi accede a un simbolismo personale, diaristico, memoriale.


Quando di un reperto vegetale si evidenziano le forze strutturanti, di accrescimento, esse si candidano quali elementi utili alla categorizzazione, come in Diana Legel. In Renée Lavaillante è la linea di contorno a determinare la forma, individuando nel contempo l’inseparabile dimensione spaziale, specificata, in questo caso, da variazioni chiaroscurali. Non troppo distante è la scultura in terracotta di Lucilla Catania che affida la nascita della forma allo scavo lineare nella materia mediante un gesto formante che non si separa dalla sensibilità per lo spazio.


Nell’enfatizzare la bidimensionalità, Alessia Armeni, assieme alla semplificazione e alla pennellata fluida, che accentua ancor di più il valore della superficie, conserva il rapporto fra luce e ombra, mentre in Elena Boni, l’immagine, raddoppiata dalla superficie riflettente dell’acqua, restituisce un’obliquità indicante la tridimensionalità come dimensione invisibile, ma ineliminabile.


L’uccellino-emblema di Elvio Chiricozzi, la figura umana che avanza a fatica di Donatella Spaziani, la donna tra due cieli di Stefano Di Stasio, il corpo femminile sul quale spuntano i fiori di Paola Gandolfi, il fiore spaziale che invoca la Nube di Oort  di Karolina Lusikova, l’uccello che implica il concetto di gabbia di Monique Régimbald-Zeiber presentano un linguaggio visivo di tipo sostanzialmente classico, ma fortemente simbolico, a tratti con accenni enigmatici, ove è indicata con fermezza l’impossibilità di tradurre l’immagine in parole, a sottolineare il valore insostituibile di ciò che è visivo. 


Gli artisti si pongono di fronte al soggetto bandendone quel superficiale naturalismo che costituisce il “genere”. Quindi, più che coglierne il dato transeunte, essi disegnano figure intatte del conoscere: fiori fotografati, ma digitalmente elaborati, per Piero Varroni, il quale enfatizza alcune caratteristiche del petalo solitario, o il lavoro comparativo di Francesca Phillips, la quale utilizza la fotografia come elemento che evidenzia somiglianze e differenze tra pianta ed albero; a sua volta, Daniela Monaci trasforma lo scatto in scultura.


Per la declinazione concettuale del dato naturale, ove l’elemento vegetale viene sottoposto ad alcune operazioni, quali la ripetizione, il ribaltamento e la simmetria, il riferimento va alle opere di Andrea Fogli e di Giuseppe Salvatori. Qualora l’immagine naturale sia interpretata mediante associazioni nate da una contiguità visiva, si è di fronte ai lavori di Adele Lotito e di Gulia Lusikova. Laddove le opere sono realizzate con materiali aventi caratteristiche opposte al modello, il rimando è ai fiori di un composto cristallino di John O’Brien, i quali conservano nel passaggio materico la fragilità del modello,  e ai fiori di loto di Paolo Di Capua che scolpisce  i bordi  dei petali nelle venature del legno.


Al gioco del bianco e del nero, Carlo Lorenzetti e Bizhan Bassiri affidano il rischio dell’imprevisto e le fortune dell’analogia. Il primo, utilizzando ferro e carta, crea una scultura essenziale, polisemica; il secondo realizza una contrapposizione irriducibile, in cui figura e fondo, scambiandosi incessantemente i ruoli, variano la percezione delle forme. Nel medesimo solco, Ernesto Porcari lavora le sue sottili aste di ferro per trarne analogicamente una memoria vegetale.


Nel novero delle opere che non hanno come tema elementi vegetali, ma interagiscono con materiali prelevati da disparati contesti, realizzando un corto-circuito ove il concetto si esplica attraverso l’utilizzo di un materiale allusivo, rientra l’opera di Aldo Grazzi. Sul versante esclusivamente materico lavora Solmaz Vilkachi, presente con una sfera di travertino intrisa di pigmento rosso sangue. 


All’ordine del paesaggio appartiene l’opera di Uemon Ikeda, ove la pioggia, con il suo accenno ritmico, attiva sfere sensoriali diverse. Oan Kyu in Returning Breeze traccia, in serie, onde scritturali fortemente evocative, ma scandite da incidenti di percorso che introducono il caso come componente irrinunciabile.


L’inaugurazione della mostra è stata completata dalla performance di Lucia Bricco, Atmospheric sample, in cui lo sdoppiamento e la ricomposizione dei corpi richiede le risorse dell’immaginazione, del sogno e dell’inconscio, come anche nel delicatissimo video di animazione di Adelaide Cioni.


La mostra celebrativa è composita, complessa e per questo efficacissima nel testimoniare la ricchezza delle proposte, in relazione alle diverse provenienze geografiche (Canada, Stati Uniti, Corea del Sud, Russia, Iran, Giappone, Europa), alla disparità dei mezzi (pittura, scultura, fotografia, performance e video d’animazione) e delle linee di ricerca visiva. Sulle pareti, le opere si dispongono in maniera fitta, in un armonia sorprendente, un pò una quadreria d’altri tempi, dove con un colpo d’occhio è possibile vedere differenze più che l’unità delle esposizioni settecentesche e ottocentesche.



                                                                                                                            Rosa Pierno



La Nube di Oort – Via Principe Eugenio 60, Roma 

Orario di apertura : dal 14 al 22 maggio 2025 da martedì a venerdì  17.30 / 19.30  

e  dal 26 maggio al 25 giugno 2025 per appuntamento (+39 3383387824)



lunedì 28 aprile 2025

Aldo Bandinelli Spostamenti, Andante Books, Port Townsend, USA 2021


 

L’osservazione raffinatissima della realtà, della sua materialità, la valutazione estetica degli accadimenti, le percezioni a cascata, le impressioni cesellate e la disposizione a ordinare l’effervescente e rigogliosa messe di sensazioni producono pur tuttavia un disegno unitario. I racconti che compongono Spostamenti, Andante Books, Port Townsend, USA 2021, di Aldo Bandinelli, sono coesi, fluidi, senza soluzioni di continuità. Il dato frammentato ha uno svolgimento di tipo frattale, andando a formalizzare una visione nitida e chiara. Le apparenze, instabili, indefinite, oscillanti assumono una forma altamente definita. Qualsiasi dato, esattamente come avviene in un puzzle, viene identificato e collocato in qualcosa che se è mondo, alfine, non somiglia più al mondo. Potrebbe essere questa una delle possibili definizioni dell’arte. E Bandinelli, oltre che scrittore e poeta, è anche artista.

Ma non si tratta soltanto di distanziare la creazione dalla copia, perché prima ancora c’è un’altra distinzione più urgente da rilevare: la percezione non avviene a ridosso della realtà. La nostra mente ci inganna totalmente su quale sia la realtà del mondo (i colori e i suoni, ad esempio, non esistono nella realtà). A ogni buon conto, l’autore si avvale di una estenuata osservazione dei fenomeni per essere sicuro di aver captato tutto quanto si poteva con i pur limitati ricettori sensoriali che l’essere umano ha a disposizione. Nondimeno, esiste un’ulteriore sfera, un secondo stadio oltre il piano dell’elaborazione mentale: non si sa in anticipo, quando ci si accinge a scrivere, quale forma assumerà il raccolto sensoriale nel passaggio al piano dell’espressione linguistica. Bandinelli è perfettamente consapevole della coincidenza dell’espressione letteraria con la finzione e, pertanto, ben conosce che in palio non è la verità della realtà. Una conferma la offre, appunto, l’autore stesso, dichiarando che accumula ogni più impercettibile disposizione, sfumatura, ombra, intonazione o dubbio in un elenco ordinato, che redige daccapo ogni giorno. In tal modo, «ricomponendo ogni particolare in una nuova conformazione», egli sostituisce la precedente configurazione e ricomincia il processo di analisi e valutazione. Le acquisizioni vengono aggiornate e ciò dà conto della cangiante mutevolezza del sistema, ma tale portato conoscitivo è ancora definibile come processo unitario, non fosse altro perché univoco è il punto di vista soggettivo, sontuosamente accentuato, e il metodo, apertamente denunciato. Intanto, il linguaggio avvolge con le sue spire la congerie delle elaborazioni restituendo una sorta di ologramma, solo virtualmente tridimensionale.

Nel racconto Giro del mondo, le proposizioni vengono interrotte: un secondo flusso linguistico si sovrappone al primo senza apparentemente entrare in osmosi con il piano che registra le percezioni, come se la memoria dei viaggi effettuati s’innestasse senza confondersi con il piano di ricezione del presente. Se l’apertura delle parentesi e un carattere tipografico di minor corpo sono le marche che consentono al lettore di individuare lo stacco, pure, le frasi potrebbero ancora sembrare la continuazione le une delle altre. E, anzi, possono anche essere lette così. Sappiamo perciò di muoverci nel mentale, nel senso che la realtà non è più in gioco, e che i piani vi appaiono distinti, perché altrimenti confonderemmo la realtà percepita con la realtà immagazzinata nella memoria. Nondimeno, nel linguaggio, decade la possibilità di distinguere tra presenze e assenze, ossia tra la realtà «nella sua concretezza, solida, stabile e incontrovertibile» e i fantasmi. Se qui non intendo far riferimento alla vita che si confonde col sogno, non  oso però nemmeno dire che sogno e vita siano radicalmente diversi. Si apre una zona incognita, mobile, priva di verità e «indecifrabile», ma che non per questo è da espungere dalle mappe. Il linguaggio è una riduzione del percepito, ma è il filtro linguistico stesso ad attivare il la segnalazione delle terre impervie; segni di cui, anziché considerare la limitatezza, Aldo Bandinelli magnifica la funzione. Non a caso l’autore presenta già nel secondo racconto, Il Saltatore, la questione relativa all’impasse che spesso si prova quando non si sa nettamente distinguere tra percezione e ricordo e a questo proposito si rivolge alle risorse scritturali per stabilire la distinzione. «Forse» è l’avverbio di dubbio che segnala l’indecisione e che, cadendo in mille pieghe, ha l’estensione di un eterno irrisolto presente, ma anche di una precisissima mappa. Qui le intersezioni linguistiche assumono una veste ancor più astratta «come vertigine d’alto bordo, forse, o incantevole vista mozzafiato oppure inopportuna caduta di stile o raggiunge davvero un basso livello, o, è proprio uno schianto. Forse ha perso una scarpa e ha sentito il pavimento tremare con forza e diventare rovente». Ciò costringe, appunto, il lettore a rendersi conto dell’astrazione del linguaggio, in contrapposizione alla potenza immaginativa della mente. Quasi una contraddizione si disegna, dunque, tra la concettualità dei vocaboli e la loro capacità di farsi portavoce della ricchezza percettiva e inventiva, la quale si palesa mediante la funzione metaforica che in parte risolleva il linguaggio rendendolo più duttile, aperto e ambiguo. Tale divaricazione, presentissima, è come un fiume carsico: si sente l’acqua scorrere senza di fatto vederla ed è una connotazione originalissima dello stile di Bandinelli.


Altrettanto straordinario, nel racconto Genitore e Figlio, è l’affidare a nomi astratti, Genitore, Figlio, Zio, Morto, Cugina, Vedova, il trasporto psicologico di personalità puntuali e concretissime. Con una costante divergenza tra le dramatis personae e i loro comportamenti (sguardi, sorrisi, brancolamenti), tra i ruoli tratti da gerarchie familiari e la realtà imponderabile delle loro individualità si dipana un gioco irrisolvibile.

Il lessico, aderente ai minimi dettagli per meglio servire la complessità di ciò che liquidiamo sbrigativamente come reale, ricorda immancabilmente il partito preso delle percezioni nella splendida prosa di T. Mann nel Tonio Kröger. Lo svolgimento prosastico, intanto, si avvolge intorno a impercettibili sensazioni fisiche che assurgono a indizi di drammatica gravità, con un movimento a tratti disgressivo e annidato che mena il lettore, senza tergiversamenti, verso le radici della propria precarietà percettiva ed esistenziale. È così che leggere vuol dire imparare, incontrare la propria realtà come fosse nuova, inveduta.


Catene aggettivali, fino a quattro occorrenze, nel racconto Deserto. Tre didascalie per una foto, provvedono alla descrizione degli oggetti, dei paesaggi, delle condizioni meteorologiche. La luce riflessa in ogni dove si ripercuote a sua volta in un inesausto affiorare di colori, sempre tenuti al guinzaglio da un lessico esatto, rigoroso, accurato,  quasi a mostrare la consuetudine dell’autore/artista, con siffatto indomabile Minotauro. L’horror vacui manifestato da Bandinelli prende la forma dell’enciclopedia, entro la quale ogni cosa viene collocata al fine di porre un freno all’altrimenti ingestibile ammasso. Il linguaggio autoriale, plastico, si avvale dell’estensione prolungata delle proposizioni, spesso incatenate tra loro in paratassi o  declinate in liste che, certamente, se tassellano la pagina, spingono ai margini una altrettanto evidente tendenza alla dispersione. Fuori dal recinto è stato risospinto il vuoto e il lettore può percepirne, quasi visivamente, l’ingombro: non gli si lascia mai la libertà di dimenticarne la presenza.


La sequenza dei racconti è intermezzata da Seulement, sette disegni a tempera su carta, i quali testimoniano della necessità di Aldo Bandinelli di esprimersi anche con mezzi grafici. La loro posizione centrale, senz’altra segnatura, pone, a parere dell’autore, la loro equivalenza con i testi, spingendo il fruitore delle opere ad accogliere le due forme espressive come un’ennesima variazione su tema della personalità creatrice. Si constata, ancora una volta, che il dirupato cammino tra mente che disegna e mente che scrive, se è insondabile, non da meno è meritorio di essere investigato, ancorché sia impossibile tra essi un percorso non problematico.


                                                                                 Rosa Pierno




martedì 14 gennaio 2025

Marco Furia su “Bagatelle” di Rosa Pierno, Trasversale, 2019


 

Opposti concetti?


“Bagatelle”, di Rosa Pierno, si presenta quale raccolta d’intense, brevi, prose in cui l’autrice propone tratti linguistici introdotti da titoli composti ciascuno da un concetto e dal suo contrario.

Leggo, per esempio, da “Ripetizione/Variazione”:


“La ripetizione è tollerabile nella variazione e la variazione è sopportabile nella ripetizione”


e da “Stabilità/Instabilità”:


“Se la successione degli eventi si manifesta senza interruzioni o salti, non si deve per questo pensare che l’instabilità non operi al di sotto della superficie”.


Bene, un’ indagine “al di sotto della superficie” mi sembra in generale peculiare oggetto di questa scrittura: la parola può aggiungere o togliere qualcosa a chi la scrive come a chi la legge.

Poiché un’interpretazione autentica non può esistere, non resta che suggerire tratti, immagini, aspetti ponendo in essere non tanto un racconto quanto ambiti, circostanze.

Circostanze poetiche, quelle di “Bagatelle”, capaci di creare feconde sorprese e meraviglie.


Leggo da “Connesso/Sconnesso”:


“Nuove relazioni, le quali s’intrecciano e si sciolgono, sottolineano i punti periferici, deprimono quelli centrali, s’allumano e si smorzano senza spegnersi. Nel loro libero gioco, il senso si ricompone continuamente e forma rivoli. A volte, però, evapora e non si sa come motivare l’accaduto”.


Un “senso” che “si ricompone continuamente” e liberamente è immagine quasi caleidoscopica in grado di richiamare l’intima natura della scrittura, modo d’essere di chi scrive o legge non assoggettabile a definitive spiegazioni.

Siamo al cospetto di un’espressione linguistica che allude a sé stessa e nel medesimo tempo al resto del mondo secondo dicotomie rappresentate, del resto, dai titoli delle singole brevi prose.

Emerge, davvero, un’indomita propensione a comunicare per via di parola nella consapevolezza di come il dire presenti molteplici, spesso inaspettati aspetti:


“Il senso aveva avuto modo di incrostarsi sulla roccia delle occorrenze e delle ripetizioni, donando spessore a deboli accadimenti, pertanto, ora, a giochi fatti, non si può omettere o ricominciare come se nulla fosse stato”.


Gli attenti, precisissimi, tratti di Rosa illuminano incrostazioni, “occorrenze e ripetizioni”, ben consci di come il piccolo e il grande, il generale e lo specifico, non siano che diversi aspetti (a ben vedere nemmeno poi così opposti) dell’umano atteggiamento comunicativo.

Appare quanto mai consona, perciò, la suggestiva immagine di copertina (opera della stessa autrice) in cui un misterioso linguaggio, fatto di segni forse ancestrali o forse provenienti da altri mondi, emana un enigmatico senso che riesce a catturare lo sguardo e a trattenerlo.

A trattenerlo per l’infinito istante d’uno specifico esistere.


                                                                                         Marco Furia



Rosa Pierno,“Bagatelle”, Trasversale, 2019



  


mercoledì 16 ottobre 2024

Marco Palladini “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?”, Racconti, Gattomerlino, 2024


Nei racconti distopici di Marco Palladini, C’è qualcuno ancora vivo là fuori?, Gattomerlino, 2024, in posizione centrale vi è un mondo espresso linguisticamente, dove il linguaggio usato dà la misura della patologia che affligge la società, ma anche della distanza che separa linguaggio e vita, a differenza di quel che avviene con le “avventure internettare”, le quali non si distinguono dalle vicissitudini quotidiane. È l’autore stesso a indicare, per i suoi testi, l’esistenza di un “preciso cronotopo” (coordinate spazio temporali e, conseguentemente, culturali). Apro una parentesi sul concetto di tempo, perché mi sembra importante sottolineare che per gli stoici, il passato, il presente e il futuro non erano affatto tre parti della stessa temporalità, ma formavano due letture del tempo, ognuna completa ed escludente l’altra, tuttavia entrambe necessarie: da una parte il presente sempre limitato, che misura l'azione dei corpi come cause, e lo stato delle loro mescolanze in profondità (Kronos); dall’altra il passato e il futuro essenzialmente illimitati, che raccolgono in superficie gli eventi incorporei in quanto effetti (Aiôn). A volte si dirà che esiste solo il presente, il quale riassorbe in sé il passato e il futuro. A volte, si dirà che soltanto il passato e il futuro sussistono e suddividono all’infinito ogni presente. La scrittura di Marco Palladini sembra avvalersi di questa seconda lettura, relativa all’illimitatezza degli eventi, senza forma e senza senso. L’analisi cronotopica serve a comprendere il testo nel suo insieme: la realtà storica in cui è ambientato, il rapporto dell’autore con questa realtà e il tipo di rappresentazione scelta. Bachtin, dopo avere affermato che il cronotopo letterario permette di determinare il genere letterario di un romanzo e le sue varietà, aggiunge che «la tipologia del “cronotopo” si costruisce sull’opposizione “mondo proprio/mondo altrui”, mentre la tipologia dell’“enunciato” si basa sull’opposizione “linguaggio proprio/linguaggio altrui”». Quindi si tratta di comprendere i diversi livelli del testo: da una parte vi sono le informazioni non letterarie (come la storia, la psicologia sociale, la linguistica); dall’altra vi sono i fatti emotivi, l’autobiografismo, mitizzato o mistificato, e l’individualizzazione.

Il soggetto, ad esempio, in un racconto, coincide con Marco Palladini, con l’“io sono scritto”, «ossia rimbaudianamente Io è un altro che mi scrive», ribadendo in tal guisa anche la presenza di una ripetizione riproposta all’infinito, ove si perde ogni cognizione identitaria. Tale tempo differito impedisce costrutti di qualsiasi genere, storici, mnemonici, affettivi. In tal modo, emerge la svalorizzazione: si può osservare la modalità con cui, la narrazione, ripetendosi incessantemente, discioglie il senso nel non-senso. Ci ritroviamo con Palladini, a seguire le orme dell’Alice carrolliana e di Gadda, dopo che  Deleuze con il suo La logica del senso ci ha fornito le precise coordinate della loro posizione spazio temporale di rizomatica ricostruzione.

Quelli che Palladini presenta come racconti polizieschi mettono estesamente in mostra il meccanismo di eliminazione del senso e, conseguentemente, dei valori. I precari, ad esempio, che rubano il lavoro ai fattorini, intercettando per primi le chiamate dei clienti per gli ordini, non sono che una scena ripetuta cronologicamente e spazialmente che prelude alla mise en abyme della società contemporanea, ma appunto, attraverso  l’estensione in superficie, anziché lo sviluppo in profondità.

Nei racconti si mette a segno «una spettrografia dello stare al mondo che disperatamente cerca di misurare la sua futile essenza». L’autore individua attraverso alcuni sintomi le persone affette da un sistema culturale privo di regole e limiti: «non ti raccontano storie, bensì stati d’animo e di malanimo, sentimenti trasmutanti secondo un finale di partita, palesemente taroccata, giocata tra bari di professione che si spifferano l’un l’altro che non c’è limite al peggio» e, tuttavia, «c’è sempre un beckettiano impulso a continuare imperterriti dopo la fine. Chiuso un capitolo se ne può ogni volta aprire un altro, ovvero rientrare in gioco». La regola principale che vige nel regno letterario palladiniano è la citazione a catena.

L’autore fornisce anche un elenco relativo alle strategie attuate dal potere per mezzo delle quali si annulla la distinzione tra i valori: si usa una dialettica fallace, si fa tabula rasa dell’ordine del Logos, ma anche del disordine del Caos, cosicché «anche lo squallore viene reputato un valore». Palladini assume così il ruolo di colui che denuncia i comportamenti menzogneri: «altra azione di copertura... atto di sviamento nomenclatorio... confusione di ruoli e livelli... depistaggi a cascata... spiazzamenti a go-go... un vortice di delitti radicati nella politica ‘latu sensu’ della megalopoli...»: si tratta della perdita dei fondamenti. Nel momento in cui non è più praticabile la separazione tra vero e falso, tra bene e male, ecco che si può dire raggiunto lo scopo del potere, quel potere che, secondo la lezione di Foucault, indottrina esseri umani privi di capacità critica. La mancata distinzione dei valori ha la meglio persino sulla percezione del sé. Ciò che non si può discernere sembrerebbe costituire per l’autore il vero problema contemporaneo; si tratta, a ben vedere, di un’incapacità di sentire e di pensare, ossia di un problema educativo.


Sulla scena del crimine, nel racconto La notte degli occhi, il detective, snocciolando frammenti di citazioni, compie un attraversamento di cliché letterari, testimoni di quell’«ipertrofia immaginaria che poi si arrovescia e si sfinisce nel proprio multiplo vuoto» a cui lo stesso autore non si sottrae, lasciando sulla scena del delitto una traccia personale: quella della propria passione per gli acrostici (si ricordano numerose poesie di Palladini costruite con tale regola). A ogni modo, se il ruolo di un investigatore è decifrare i segni – e per questo la memoria corre ai metodi investigativi analizzati da Ginzburg – quelli che Palladini lascia nella sua scrittura (oltre all’acrostico, ci sono anche i tre puntini di Morte a credito di Céline e il gaddiano flusso di vocaboli estratti da numerosi linguaggi tecnici: filosofia, antropologia, economia, sociologia, presenti in Quel pasticciaccio brutto di via Merulana) costituiscono precise marche che tracciano alcuni confini: quelli propri dello stile. Céline, con i tre puntini, dà luogo a un puro merletto, con i suoi vuoti, le sue trasparenze o, al contrario, costruisce i binari che conducono il lettore, senza tentennamenti, dove vuole lo scrittore, mentre  gaddiana è la volontà di dimostrare che alla letteratura è rimasto il solo scopo di registrare criticamente la realtà e la sua assurdità, la superficialità della classe borghese e la sensazione di caos dilagante dovuta alla modernità, la sua mancanza di senso e la sua molteplicità. Calvino scrisse che Gadda «vede il mondo come un “sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato». Nel senso che ogni minimo oggetto è visto come il centro di molteplici relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, sicché le sue descrizioni e divagazioni divengono infinite. Difatti, l’opera in entrambi, Gadda e Palladini, non termina banalmente con l’arresto del colpevole da parte dell’investigatore. Non a caso, Deleuze e Guattari con le loro “tracce rizomatiche” sono invitati speciali alla tavola pantagruelica di Palladini, grazie a qualcosa che si estende in superficie anziché in profondità. Si conferma, dunque, che ciò che sta alla base dell’indagine dei vari investigatori e reporter è una conoscenza indiziaria a cui manca sempre la prova finale. 

Sono numerose le mappe tracciate da Marco registranti gli indicatori relativi alla società: quella politica, sociale, psicologica, letteraria, ma particolarmente salace è la critica che Palladini rivolge alle patrie lettere, definendole ‘kakolettere’, così come si esercita un ‘kakologos’ in ogni disciplina. Ma se il metodo indiziario è incapace di risolvere le contraddizioni con le quali la realtà si presenta all’interpretante, allora la realtà diviene un labirinto privo di uscita, al modo in cui non si esce dalla Torre di Babele o dai gironi dell’inferno, che ne costituiscono i modelli metaforici. Le tragiche vicende quotidiane, i fatti di cronaca innescano nel personaggio di turno un flusso ininterrotto ove da un punto nevralgico si toccano tutti gli altri punti nevralgici del sistema, contemporaneamente e senza soluzione di continuità, comportando l’inesorabile presa di coscienza che fa deporre ogni speranza su un possibile cambiamento anche in uno solo di questi snodi (violenza, ignoranza, povertà, sopraffazione). 

Marco Palladini scrive che «non vuole comunque smettere di sperare contro la speranza». Quest’ultimo suona come un concetto paradossale, ossia che la speranza sia un sentimento sorgivo come la vita, ma del tutto slegato dalla realtà; una credenza inutile, ma insopprimibile. Difatti, sembra prevalere, in Palladini, il parere che la scrittura non valga come progetto, che sia senza speranza come in Kafka. L’inesauribile effervescenza immaginativa dell’autore si rifrange nei suoi alter ego senza che mai lo soccorra alcuna fiducia nel cambiamento. Sembrerebbe che né natura né cultura possano modificare lo stato in cui versa l’essere umano. I personaggi appaiono ricavati da maschere prevedibili, sono determinati dai loro cliché linguistici. Salgono e scendono sulla linea dell’orizzonte come fossero issati su una ruota. Nessun grado di libertà: la stessa scrittura di Marco Palladini, con la sua irruenza asfittica e priva di soste, provvede a trascinar via le precarie esistenze dell’Attore Sentimentale, della Psicologa Paranoica, dell’Amministratore Ladro. Con la loro psicologia ridotta allo spessore di una lamiera, essi si alternano nel plot senza mai addivenire a una soluzione pur temporanea delle loro vicende esistenziali e per questo sono esposti ai colpi del tiratore del luna-park. Con eccelsa precisione, colui che prende la mira è l’autore stesso. 


Rosa Pierno