mercoledì 29 giugno 2011

Gio Ferri “Quattro poesie inedite”

Immergersi nella lettura delle poesie di Gio Ferri vuol dire ritrovarsi in una stanza piena di riflessi sonori e di echi colorati, di parole che trascorrono come reti a strascico tirandosi dietro come preda altre parole, albatros, à rebours, ivre: sciami di libri classici che ci attraverso con un turbinio di fantasmi e di immagini, i quali divengono, pur se oggetti mentali, carnali, vivide presenze. Non certo di una compresenza indifferenziata si tratta, ma del frutto di una severa scelta, come annuncia la poesia stessa  “Il giorno del dio”, che vale per una dichiarazione di poetica dell’autore, del suo modo  di vedere la poesia. Giò Ferri prosegue da anni, con i suoi splendidi quattro libri “L’assassinio del poeta”, editi tutti da Anterem, il suo percorso all’interno delle forme metriche tradizionali e di quelle messe a punto dall’avanguardia, mai deponendo una saggia, ironica levità, sigillo di un inevitabile modo, anche metapoetico, di accostarsi  a tali forme e di installarsi all’interno di esse con vigile occhio, poiché, sia chiaro, non tutto è consentito: la poesia ha le sue leggiadre/ferree, indeterminate/precise regole.


Fantasmi d’Arcadia

Io mi vorrei che queste tue mèmori storie
di pètrule levighe e sparse fossero in una sola mano
raccoltie così unque eddove diversi prolifici semi
segni arsi e vitali infinitesimi d’ore dolenti e felici
et oracoli di spemi rupestri eppur ancora carezzevoli
così ancora sulla rupe teniamoci – che tu non temi
ed io non m’abbandoni ad astanze colpevoli narcisi egoismi
dolcezze effluvii d’abbondanze inusiti ai sensi comuni
sprecati e disutili ai bàratri inviti ai volupti richiami
e canti vani e manieristiche nautiche peregrinazioni.

Scorrono pètrule – appunto – per queste stanze
carnali e cercano i tuoi spazi minuscoli d’un giorno
d’un’ora ond’io orora m’appresto a sfiorare le impronte
a rimirare il fermo ricordo qui là dove stai e come sai
una ciottolina il bicchiere una seta un sedile un
libercolo smarrito sìmule traccia di sguardi dolcidui
e lontani e inani risorse d’amore.

Le bateau s’amuse sciaborda indefinite istanze
ansioso àlbatro ivre ai bagliori sènsili crede immagini
prènsili alla carne consuma residui d’angosce e non
prova  - risente quantunque il canto di quella attenzione
tua sottile umana tanto quanto disumana d’assenza –
quanto lontano è questo giorno – oggi – questo mormorìo
d’acque prolifica rivelazione d’istinti unici – noi -
quanto – io - rivoglia un poco totale disponibile la tua
inobbligata fedeltà così che si disvelino à rebours
meraviglie oceanine feste sull’acque giovinette grida
e lasciti generosi rigeneranti quand’io più
che segnali pretenziosi e immeritevoli altro non dia.

Ma tu uccello-donna pacatamente ascolti generosa
risposta proponi e ciascun dimentica il dolore
invano poiché il volo ampio è muto finché non lascerà
insincere fredde captive classiche scenografie
finchè alle improbabili rive d’Arcadia non s’arresterà
atona e silente la notte degli archi.
Il giorno del dio
Sappi dunque, quantunque     si sappia, et ovunque                   
s’aspettino travolgenti     l’ansie del dire e del fare
seppur nascoste e silenti      dismisure in verità
estranee ai detti comuni     a quelle indigenti istanze
quando ancor dianze la forma     serva le mentite istorie
lasci degli dei le spoglie    s’appressi alle inani voglie
sappi dunque di quel tempo     d’un dio che voglia varcar
le soglie del prolifico     et insensato senso.

Sappi che quel dio t’appare     quanto tu provi alle viste
ristare non di fabule     e vane e menzognere
bensì quando tu fedele     ritocchi e carni et ossa
così credi in quel dio      e come credi egli possa
giugnere dallo spirito     vivo e sanguigno del nulla
così come t’insegna     l’acre increduta vision
del meister che guarda e     sa eckhart folle di turingia
e dona e suona l’inno     della benigna arsura.

Sappi che della poesia     amante io mi ritrovava
avante per vanità     con color che di molto
sanno e vanno per metafore     e ancor per metonimìe
competences e analogie     lalangue e metalogìe
sensi e non sensi bataille     e lacan et ancor barthes
d’utilità saggi ai viaggi     intra parola e segno
et in sostanza pegno     di ricerca - e tuttavìa
con qual risorsa di     giustezza e di verità ?

Sappi allora ch’egli venne     più discreto e confuso
da quelle genti gaudenti     verso di me a passi lenti
riguardando con dolcezza     e discorrendo della
mia ragion avezza alle     dismisure del dire
e del fare che dicon     poetare così come
sanno gli maestri antichi     delle parole senza
viziosi sensi e artifici      bensì sensuali carnali
amorevoli in-dicibili     riscritture eternali.

Sappi ch’era quasi un     giovinetto e sorrideva
i bianchi denti gli occhi     attenti e naturali
virginei ai comuni sensi     le sillabe leggere
danzanti in-significanti     a quelle dotte sapienze
a me rivelatrici     invece d’in-leggibili
misteri et insaziabili     immisurabili essenze
così come alcuno mai     infine m’era apparso
al mio creativo et arso     silente desiderio.

Sappi allora mi sovvenne     l’insegnante ovidio
«se costoro l’arte non     conoscono d’amare
leggano questo carme     e letto dotti amino
con l’arte a vela o remi     veloce nave si guida
veloci volanti carri      con l’arte si guidi amore
come l’aereo automedonte     e tifi abile nocchiero
venere magistra a me     tenero amore prepose
invero egli è selvaggio     ma ancor docile fanciullo».

Sappi come quel giovine     venuto quasi dal nulla
sguardo fiero ma disposti     sensi mi rivelò
che l’amor di poesia     detto è di segno virgineo
che non guarda le storie     bensì sue sensuali forme
questo mi rivelò     rivelando se stesso
che appariva puro d’arte     e libero d’artifici
tuttavia colmo di vite     di sapienza primigenia
contraddetta aurea persona     eppure senza maschera.

Sappi allora come allora     seppi sebbene nascosto
ch’egli era un semplice dio     in quel giorno del dio
dalla originaria carne     di mistero e conoscenza
giunto sì dal nulla della     prolifica metamorfosi
là dove eternale il segno     si fa e si rifà materia
e nuova e senza orpelli     là dove ancor si prova
la necessità del dire    et oltre per nominare
la verità inspiegata     e la sua creatrice essenza.

Danza macabra
(Le cantate di Berna)  *

Sarabanda ruota lasciva
folleggia scheletrita Morte
alla gran sagra d’ogni sorte
sine cerebro si svolazza
si contorce canta et impazza.
Furba sturba la vedovella
e il cardinale. Si ribatte
l’anca lo stinco e il femorale
si rimpalla sdentati teschi
usa et abusa santi freschi
spensierata ghigna e digrigna
eppur ‘sì suadente e cortese
invita ciascun et a sue spese.
Teschia generosa non si
risparmia ti tocca e ritocca
e alfin pur ti blocca.
Suona bucine ingiudiziose
fuor del tempo d’ogni Giudizio
poiché sua è l’ora e dello sfizio.
Non impaura le dame e li
cavalieri e chi ancor di false
preci fa mestieri.
E così si piglia e ripiglia
discarniti suoi piaceri.
‘Sì danza l’uom e la femminella
con l’ossa gaudenti
e gli scarsi denti.
E si lacrima pallido
dolor alla sagra
delli morti per chi vermicolo
sempiterno si giace.
Allegranza ossuta invece
canta e tanto scricchiola e
si dà pace.
Quanto la Morte mai si tace.

* Albrecht Kauw nel 1649 riprese ad acquerelli le danze macabre (ora distrutte) dipinte da Niklaus M.Deutsch nel cimitero del convento benedettino di Berna.
Sonetto all’antica per Silvia
Convolano vivide ali di vento.
Amica dolcidula al canto della
speranza. Trascorre di stanza in stanza.
Là dove quando, quello spazio della

mente, lieve egli s’apre lieto al tocco
‘sì pacato e ridente di quel dono
intonso. Ed è pur silente quand’ella
di sé colma l’assenza vuota e stanca.

Perché leggera reca ciò che manca.
Sapiente dismisura, generosa
all’usura disgregata del tempo.

Lascia così svanendo oltre il bagliore
di quell’ore liete la traccia della
quiete ove s’appaga ogni voglia vaga.

domenica 26 giugno 2011

"Sefarad" musica di Fausto Razzi su testi di Molina, Pierno, Sanguineti

Serata lettarario-musicale presso la Reale Accademia di Spagna, Roma, il 28 giugno alle ore 20,30

Programma

1)  Del presente stato delle cose  per voce e supporto magnetico  (2008, nuova versione, 2010)
su testo di Rosa Pierno
      Voce recitante:  Maria  Letizia Gorga                                                                                                 
                                                                                               
2)  Sezioni I, II e IV da PROTOCOLLI, azione scenica per voci e strumenti (1989/92)
     dal testo omonimo di Edoardo Sanguineti
      (nuova versione 2011)                                                                                                                 
      Soprano:   Federica Scimia                                  
     Voci recitanti dal vivo:        Maria  Letizia Gorga               
                                              Ginevra Magiar Lucidi             
      Voci recitanti registrate:     Anna Cianca
                                               Giovanna Mori
                                               Mirella  Mazzeranghi 

3) Voci nella memoria   per soprano, 2 voci recitanti e trio d’archi  (2011, Prima esecuzione)
     testi tratti dal romanzo  SEFARAD di Antonio Muñoz Molina
    Soprano:          Federica Scimia  

    Voci recitanti:   Maria  Letizia Gorga
                            Ginevra Magiar Lucidi             
     Violino:            Luca Minciullo
     Viola:               Antonino Urso
     Violoncello:      Chiara Pozzi
                                                         


 Impianto di amplificazione della “Millenium” di Fabio Ferri




mercoledì 22 giugno 2011

La poetica del silenzio: una retrospettiva di Enrique Brinkmann


(a Londra presso la galleria Rosenfeld Porcini dal 24 giugno al 24 settembre 2011)

Il punto di sutura tra stile geometrico e informale è un paradosso perché ciò che definisce l’uno è l’esatto contrario di ciò che definisce l’altro. Ci sono campi del sapere (che potremmo definire “insiemi”) che contengono le unioni paradossali e uno di questi campi per antonomasia è l’arte, ove Enrique Brinkmann rende la sua opera uno spericolato esercizio di equilibrismo in cui, anziché far confliggere gli elementi paradossali, li fa dialogare, li abitua alla convivenza, ne ottiene intersezioni e osmotiche penetrazioni. Nella serie intitolata “Sequenza”, presenze atomistiche, punti-luce, si accendono e si spengono su una tela che ne intercetta ora lo stato energetico ora lo stato di massa.  E quando si verifica un infittimento dei punti, ecco consolidarsi inspiegabilmente, poiché i punti non hanno dimensione,  sotto il nostro sguardo, un arco, qualcosa a cui non si può negare il riconoscimento di solida sostanza.

Le opere di Brinkmann riescono a rappresentare ciò che è invisibile ad occhio nudo tramite analogie con ciò che è visibile. E, d’altronde, nuove forme nascono proprio tramite questa relazione: entità astratte, a cui peraltro se non possiamo dare un’attribuzione di realtà, nondimeno dobbiamo riconoscerle come potenzialità della nostra mente. Le tele per Enrique Brinkmann sono strumenti di intercettazione, vere trappole per catturare l’invisibile, schermi per mostrare che esso esiste e che si possono addirittura fare ipotesi, immaginare relazioni, individuare traiettorie per via intuitiva, i cui risultati scorrono autonomamente rispetto a quelli scientifici, ma fra i due, a tratti, si scoprono tratti in comune.

La passione di Brinkmann per i lucori, le texture, non è solo amore per il segno,  per la scrittura, è anche appassionato collezionismo di tracce: le sue tele potrebbero essere tavole della memoria, su cui il tempo non ha potuto cancellare interamente i segni. Se scrivere la totalità è azione impossibile  e infinita, pur tuttavia essa è tracciata nel nostro stesso corpo in quanto portiamo come staffette il ricordo e la cancellazione allo stesso tempo di tutto quello che è stato e di quel che diverremo.

Dalla parvenza all’idea: ecco il passaggio metafisico che ci balena in mente dinanzi a queste opere. Ma anche la sensazione che queste opere vogliano indagare il processo mentale come situato a metà strada tra il corpo e la mente.  Per Brinkmann è attraverso la rappresentazione delle cose che si può indagare il loro funzionamento. E, pertanto, sulle tele, vere e proprie trappole per mosche, secernenti liquori zuccherosi o pigmenti contrastivi che consentono di catturare il moto attraverso i segni che lascia,  pare d’individuare cellule nervose che si slanciano l’una verso l’altra a cercare l’incontro o a negarselo, scie, macchie, legamenti che certo se illustrano il processo fisico rinviano inevitabilmente anche a quello mentale.  

Anche le figure condividono al pari dei fotoni la caratteristica di essere appena una parvenza: ambiguamente site tra uno stato gassoso (informale) e uno stato materico (geometrico) esse emanano arcaica forza. Sono figure che hanno assorbito l’ombra, che proiettano luci provenienti da cavità interiori, con le quali riescono a illuminare uno sfondo altrimenti senza sbocchi o che con lo sfondo ingaggiano una lotta carnale  al limite del disfacimento. In seguito, lo sfondo avrà introiettato il corpo, schiarendo i suoi colori, dividendosi in porzioni, mimando una regressione: dal corpo alla divisione cellulare. In posizioni temporali successive, nell’arco storico della produzione di Brinkmann,  si riconosceranno parti di corpo smembrate, organi che hanno vita autonoma, fino all’iscrizione dei segni sulle membrane organiche: dal corpo alla scrittura per l’oramai compiuto passaggio tra fisico e mentale.  

                                                                          Rosa Pierno

domenica 19 giugno 2011

Vittorio Gregotti “L’ultimo hutong” Skira 2009

In quale modo Vittorio Gregotti affronti la progettazione architettonica nella nuova Cina è esemplificato in questo articolato libro, capace di attrarre non solo gli architetti, ma  tutti i lettori interessati a comprendere quali siano i problemi da affrontare nella pratica architettonica e, contemporaneamente, a cogliere l’occasione di avvicinarsi, e non superficialmente, alla cultura cinese. Il catalogo è corredato da una messe di foto e disegni pregevoli che guidano il lettore nella conoscenza dell’architettura e dell’urbanistica della Cina millenaria, profondamente diverse da quelle occidentali.

Che progettare voglia dire essenzialmente confrontarsi con la storia culturale e territoriale, oltre che specificatamente architettonica, assume un’evidenza particolare in questo libro, poiché da sempre Vittorio Gregotti si batte per una pratica architettonica che non consideri l’oggetto architettonico come un elemento estraneo da innestare nel tessuto urbanistico. La buona architettura è in questo senso individuata attraverso la valutazione di un principio insediativo specifico, che tenga conto della storia architettonica e urbanistica in cui si va a inserire, affinché sia esso a sostenere le decisioni, anche diverse,  e la definizione di nuove relazioni fra l’esistente e il nuovo. Poiché, per Gregotti, altrimenti, “con l’estinguersi dell’ossigeno della storia si spegne anche il fuoco dell’utopia, e quindi forse anche quello delle arti”.
 
Dunque, la maggior parte del libro si presenta come uno studio sulla società cinese, sulla sua evoluzione culturale e sulle direttrici di sviluppo che la società nel suo insieme si dà: “Quale cultura si associa all’emergere della Cina? Quale estetica, quale filosofia dell’urbanesimo, del paesaggio e della vita sociale?” Il che non è prendere alla lontana il problema della progettazione, ma affrontarne direttamente la questione centrale. 

Molte delle risposte che lo studio affrontato da Gregotti fornisce sono sconfortanti: “La Cina è il cantiere del mondo, ma la maggior parte di ciò che viene costruito mi sembra un’ottusa imitazione dei modelli occidentali” e procede criticando l’educazione antistorica e antiestetica e le ragioni del business, dunque, delineando le difficoltà della Cina di “esprimere una sintesi feconda fra la propria tradizione e la modernità”. Ma ciò si scontra anche con la non riproducibilità del modello di sviluppo occidentale sulla scala demografica cinese. E, dunque, la soluzione non può essere una semplice “esportazione” dei nostri modelli progettuali.

All’individuazione dei nodi da risolvere, delle questioni che l’architettura è chiamata ad affrontare, si affiancano i giudizi negativi di Gregotti  verso le architetture prodotte dalle archistar occidentali, le quali operano nella negazione di qualsiasi specificità delle condizioni e di ogni tradizione culturale locale, mentre appare essenziale “una generale presa di coscienza delle ragioni della propria storia” per stabilire con essa la distanza critica capace di fondare identità comprensibili e civili, sensibili alle diverse condizioni storiche e geografiche e alle loro prospettive future.    

L’idea di pianificazione di Vittorio Gregotti è l’idea di una costruzione ragionevole e flessibile basata su ipotesi di trasformazione effettuate nell’interesse collettivo, fondata “su un’architettura la cui identità disciplinare è fondamento di ogni positiva e necessaria relazione interdisciplinare, in grado di offrire con i propri strumenti qualcosa in termini di uso  e immagine proprio di ciò che non è presente”, assieme al miglioramento dell’abitabilità del territorio e della città e alla ricerca di una mediazione sociale da parte delle azioni dell’architettura.

Ecco così delineate da Gregotti con grande fermezza le coordinate all’interno delle quali egli imposta la propria teoria progettuale: “ Riscoprire i linguaggi e i valori, le forme e i luoghi adatti per ospitare l’anima antica della Cina, è una missione dell’architettura del XXI secolo che non ha solo una dimensione estetica”: sono, infatti, in gioco la qualità della vita, la dignità umana, la salvezza dell’ambiente, il futuro del nostro pianeta.  

Rosa Pierno  

giovedì 16 giugno 2011

Marco Furia su Amelia Rosselli, “La libellula e altri scritti”, edizioni SE, 2010

Nel corso del 2010, sono stati dati nuovamente alle stampe, con il titolo di “La libellula e altri scritti”, alcuni importanti testi di Amelia Rosselli.
Questa nota riguarda il poema “La libellula” (1958) e alcune poesie tratte da “Serie ospedaliera” (1963 – 1965).
Colpisce subito l’imponente quantità di materiale, risultato di un’intensa attività d’accumulo, percorsa dal dolore, reclamante sbocchi espressivi: in siffatto frangente, l’aspetto stilistico viene a costituire non mero veicolo, bensì tentativo di vera e propria coincidenza.
─ Se dico così, è così ─ sembra intendere la poetessa.
E se è così, aggiungo, lo è per tutti.
Insomma, la presenza fisica delle parole implica, assieme, la vita dell’autrice e dei lettori.
Esprimono, davvero, tendenza all’universalità i versi
“… la mia volontà sia regina delle
stelle e delle notti”.
Ora, come appare evidente, una volontà regina del cosmo supera qualunque umana possibilità.
Non siamo in presenza, tuttavia, di abnormi proiezioni di un estremo soggettivismo (o, in ogni caso, non si tratta unicamente di questo), ci troviamo, piuttosto, al cospetto di una sorta di caparbio talento che nella costruzione di un certo mondo poetico vede non (solo) l’affermazione del sé, ma la stessa possibilità di vita propria e altrui.
Ecco perché
“… non ce la faccio più
a guidare il rinoceronte”
è pronuncia lucida, franca, eppure tale da non provocare desistenza: la nostra poetessa tenterà di guidare quel “rinoceronte” sempre, fino alla fine.
Frutto di vicende esistenziali tormentate, questa poesia non manca di peculiare leggerezza: l’immensa congerie degli argomenti non impedisce ad Amelia di posarsi (come fa una farfalla o, forse, una libellula, quasi scegliendo talune corolle) su certi tratti, anche minimi, insistendo nel mostrarne l’importanza, l’incidenza su un tutto esistente proprio in virtù dei particolari.
C’è sofferenza in questi gesti?
Anche.
Se la presa d’atto (esito di non facile percorso) porta ad ammettere la presenza di fiducia, parole come
“… La miscela è troppo
fine: il ricordo è troppo tagliente: l’incastro
è troppo vivido”
manifestano, senza dubbio, dolorosa difficoltà.
Una forma di consapevolezza conduce, dunque, al tormento?
Soltanto in parte.
Quella “miscela” “troppo fine”, quel “ricordo” “troppo tagliente” e quell’”incastro troppo vivido” rendono palese un acceso desiderio di comprensione in cui è da cogliersi un dato non negativo: la vita non sta là, fuori di noi, in attesa di (pur utili) giudizi, poiché è l’esserci, qui e ora, l’àmbito decisivo.
Un àmbito nel quale saremmo coinvolti, in ogni modo, anche qualora fossimo inclini ad amare lo spettacolo della natura più che lo svolgersi dello sviluppo umano:
“… oh io amo più forse
le colline e le fresche brezze e le verdoscuro
pinete, che i giganti passi dell’uomo”.
Cosa resta, alla fine?
Resta la prova di una straordinaria costanza nel percorrere, finché possibile, un arduo itinerario, resta la conferma di una risoluta tenacia nell’impegnarsi a esprimere se stessi scrivendo sulla pagina le parole giuste, adatte, ossia quelle che non tradiscono perché non possono più farlo.

                                                                                                             Marco Furia


lunedì 13 giugno 2011

Gabriella Drudi “18 dipinti e un acquatinta. Toti Scialoja” 1991

Una sorta di tabula rasa è invocata da Gabriella Drudi, mentre si accinge a parlare delle opere del marito, Toti Scialoja, nel catalogo “18 dipinti e un acquatinta. Toti Scialoja” 1991, Pordenone, quasi a lasciarsi alle spalle la frequentazione costante che gliele ha rese troppo familiari. Azzerare per porsi dinanzi alle opere come per la prima volta. Quel “che cosa resta da dire”,“che cosa ho di fronte, una tela, dei colori, ovvero una presenza secondo la quale vedo e mi vedo?”. La scelta delle domande è naturalmente significativa. Poiché è di tutta evidenza che a partire dall’oggetto d’arte si cerca di traghettare verso l’io. Irrinunciabile presenza dell’io, da cui ripartire sempre, a cui giungere tramite l’arte: “Siamo sempre pronti a dare un volto prima ancora di vedere, un senso prima del disvelarsi delle cose nell’incontro, umano inganno avere in mano il bandolo. Come nell’atto creativo, nell’accoglienza dell’opera d’arte l’inizio è smarrimento: andare verso”. Ed è un andare verso per accogliere il vero dell’arte. “Vero che? Il visibile”. “Questa pittura richiede allo sguardo un inseguimento scomposto e ricomposto, con pause, intervalli – più: un incessante mutare di rotta, corsa, stasi, ripresa, abbaglio, buio, incandescenza. Irretito nella mischia cromatica lo sguardo oscilla, trasale, raduna lontananze e presenze incombenti, precipita assieme alla figura innescata dal pennello nero e soccombe sotto una velatura di dripping, risale in un lancio di rosso cadmio, bruscamente in arresto, o teneramente condotto nel tenue impallidirsi di una velatura”. Sarà allora il visibile ad apparire ignoto, ad apparire opaco a separarci dall’esistenza. “Dipingere per accogliere una somiglianza, per non dire identità”. Il visibile, questa “immanenza che subentra al suo contrario”: ecco che cos’è la pittura. Dipingere sarà di conseguenza per qualsiasi pittore vedere dinanzi a sé “questo germinare segreto, incomprensibile, ma innegabile, del vissuto”. “La pennellata riconosce, si rammenta, anticipa, tesse un dramma, contraddice, si impadronisce di sensi fuggiaschi, apre il sipario sul malvisto, unisce l’incompatibile, intravede l’impossibile”. “Alla fine è sempre il nostro oscuro vissuto che tiene banco”. Sarà proprio questa relazione, sempre cedevole e sempre ricostruibile a costituire la vera posta in gioco. In questo senso l’arte diviene l’unico strumento che l’essere umano ha a disposizione per     “fondare un credo sinonimo dell’esistere”. E la Drudi inscrive la pittura di Scialoja, il quale ha sempre dipinto a favore di un progetto, in cui il tempo ha sempre infilzato i processi psichici, all’interno di un “intrico di scomparse, resurrezioni, assembramenti e riverberi”. L’identità è affidata alle parvenze che si materializzano sulla superficie. “Le impronte con il loro carico organico nel loro disporsi in orizzonte sono il segno che differenzia l’opera di Scialoja da quelle solo gestuali e testimoniano “del sentimento di sé nel flusso di cui non sappiamo nulla”. E ove anche la  “la pennellata è in se stessa  figura”, capace cioè di far risalire sulla superficie della coscienza ciò che riconosciamo, a cui attribuiamo identità. Obbedire alla torsione del polso, dare spazio alla memoria inconsapevole, afferrare l’universo sospeso e dargli corpo: “prendere alla lettera la visione” e “leggere figure e gesto contemporaneamente”.


                                                                                                           Rosa Pierno

mercoledì 8 giugno 2011

“Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo” Bruno Mondadori, 2007

“Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo” Bruno Mondadori, 2007 è una collezione di quattro interessantissimi testi di Jean-Luc Nancy, Georges Didi-Huberman, Nathalie Heinich e Jean-Christophe  Bailly sul tema dell’arte contemporanea presentati da Federico Ferrari, il quale introduce gli interventi cercando di presentare le problematiche connesse a tale definizione. Contemporaneo, infatti, non ritaglia più una porzione temporale riguardante l’attualità, ma una porzione specifica dell’arte: quella che non fa più riferimento al concetto di arte tradizionale.

Jean-Luc Nancy rileva che per la prima volta nella nostra epoca, non tutta l’arte prodotta attualmente viene etichettata come contemporanea,  e immediatamente a ridosso di come esista la necessità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è. E nel definire l’insieme  delle opere per cui concordiamo si possa utilizzare la parola arte senza ulteriori distinguo, Nancy dà una definizione elastica e flessibile, adattissima allo scopo. Conosciamo l’impossibilità di definire univocamente l’arte e di come anzi proprio in questa impossibilità risieda la sua ricchezza, ed è su questo appiglio che Nancy colloca la possibilità di comprendere se l’oggetto di fronte a cui ci troviamo appartenga o meno al dominio artistico. Ci troviamo di fronte a un’opera d’arte quando il senso formato dall’arte “permette una circolazione di riconoscimenti, identificazioni e sentimenti, senza però fissarli in un significato ultimo”.  La polisemia dell’arte è sfuggente: l’arte crea plurime possibilità di senso e dunque dà forma a un mondo in cui il significativo non è stabilito né chiuso. Mentre assistiamo a un fenomeno inverso per l’insieme che racchiude le opere definite come arte contemporanea: esse sono veicolo di un significato univocamente determinato, si riducono a quello, azzerando la polisemia. Ecco il perché di quella fastidiosa sensazione che percepiamo dinanzi a opere il cui esplicito e inflessibile senso ci fa nascere un dubbio sulla loro valenza artistica. Questa oscillazione - domanda che si ripropone dinanzi a ogni nuova opera che cada sotto il nostro sguardo - è legittima, perché ogni volta dovremo considerare l’opera chiedendoci quali elementi un’opera d’arte metta in gioco. Non tutte le opere di arte contemporanea sono da escludere dall’insieme delle opere d’arte. Sarà dunque proprio l’interrogazione sui possibili sensi che scaturiscono da un’opera a farci comprendere quando siamo di fronte a un prodotto artistico o meramente comunicazionale.

E non è un caso che Didi-Huberman inizi la sua ricognizione a partire dalla durata, “dal rapporto tra storia e memoria, tra presente e desiderio”, cioè dai contenitori del plurimo senso, visti in antagonismo con la consuetudine. Le immagini consuete non sono in grado di costruire una durata. E in mancanza della durata siamo nel regno dell’artificio del linguaggio mediatico. Nell’analizzare l’opera di Pascal Convert, il filosofo afferma che ci troviamo dinanzi a qualcosa di cui tutto, materia, luce, significato resta non immediatamente traducibile in un senso stereotipato: tutti i suoi segni sono ambigui.  Dobbiamo essere noi a ricostruirli. Pazienza, scoperta, interrogazioni, dubbi si succedono instancabili muovendo e spostando tutti i paletti percettivi a cui eravamo abituati. In particolare, per l’opera di Constant “ Sans titre (inspirée de Veillée funebré au Kosovo), Didi-Huberman fa riferimento al libro di Lessing “Laocoonte” che nega alle arti plastiche la possibilità di esprimere il dolore poiché “mostrare all’occhio il massimo vuol dire tarpare le ali alla fantasia”. Mentre l’opera di Constant sembra superare questo limite. Come mai?  Sarà innanzitutto necessario distinguere tra la fotografia di Georges Mérillon (da cui Constant è partito per realizzare la sua opera) e l’opera di Constant, tra la storia del fotogiornalismo di guerra e l’opera appartenente all’ambito della storia dell’arte: cioè tra i loro contesti specifici. Il filosofo cita Deleuze: “E’ evidente che l’immagine non appartiene al presente” e ancora “I rapporti temporali non sono visibili nella percezione ordinaria, ma lo sono  nell’immagine, dal momento in cui essa è creatrice. Essa rende sensibili e visibili i rapporti temporali irriducibili al presente”.    Siamo dunque nell’ambito della durata e dove c’è storia, c’è montaggio. Warburg ha studiato le espressioni del dolore nell’opera d’arte. E allo stesso modo Didi-Huberman vuole porre l’una accanto all’altra la fotografia di  Mérillon e l’opera di di Costant per trovare in questo atlante delle lamentazioni le relazioni formali, le circolazioni temporali, le ripetizioni, gli arresti, il ritmo, attraverso cui “la memoria è per così dire l’organo di modellizzazione del reale, che può trasformare il reale impossibile  e il possibile in reale”. Ma affinché questo accada è necessario rigettare ogni genericità e costruire “la durata attraverso un montaggio regolato di immagini singole prese nell’ampio rizoma delle proprie relazioni”. Anche in questo caso, dunque, la contemporaneità va esperita, ricreata, setacciata: è da essa che nascono diversi rivoli che poi prendono differenti direzioni, in relazione alla modalità di restituzione.

Con la volontà di aprirsi un varco nella confusione di definizioni e di approcci critici, la sociologa Nathalie Heinich, anch’ella constatando che l’arte contemporanea non definisce un periodo temporale, ma un genere, cerca di aprire un varco nella selva, aggravata dal fatto che oggi “ non vi è una logica normativa continua, che stabilisce gradi di qualità estetica, ma un tipo di logica classificatoria discontinua, che determina posizioni di appartenenza o esclusione” ove l’”illegittimità degli uni è, dunque, la legittimità degli altri”. Utilizzando le definizioni di Thomas Kuhn, elaborate per il dominio scientifico, la Heinich afferma che quella attuale si presenta come una “crisi di paradigmi”, ove però sono ben tre, e non una, le categorie dell’arte: classica, moderna e contemporanea. L’arte contemporanea “si basa sulla trasgressione sistematica dei criteri artistici”. E ciò “la distingue radicalmente dall’arte classica, ma non da quella moderna, nella quale si era già sperimentata una serie di trasgressioni”. Per la Heinich tale ripartizione comporta dei vantaggi, se li si consideri non escludentisi l’un l’altro”, ma “come generi, che coesistono senza che nessuno esiga legittima esclusività”. Proprio l’esistenza di tali generi eviterà la confusione tra “i criteri generici (che stabiliscono l’appartenenza all’arte moderna o contemporanea) con quelli valutativi (che all’interno di ogni genere, determinano la maggiore o minore qualità delle proposte artistiche)”. In questo modo lo studioso potrebbe “trasformarsi in esperto, che consiglia la definizione di questi paradigmi come generi e autorizza, allo stesso tempo, il salto da una norma univoca a una pluralistica, sostenuta dalla dissociazione tra criteri generici e criteri di valore”.

L’ultimo testo critico è di Jean-Cristophe Bailly, il quale affronta la durata del tempo e il concetto di contemporaneità così come esso è catturabile tramite fotografia, la quale ha uno statuto speciale poiché la fotografia coglie molto più di quanto noi stessi percepiamo. Il contemporaneo, così come emerge dalle fotografie, è “sospeso e adagiato tra quello che non è più un futuro e quello che non è ancora un passato. Non appartiene,  dunque, alla storia dell’arte, ove si distinguono le opere  con una logica cronologica. Essa appartiene a un genere autonomo, proprio della fotografia, la quale è soprattutto un effetto di rottura: è sempre fatalmente contemporanea a quello che si vede. E inoltre, essa se s’insedia nel registro dell’esattezza è anche una specie di allegoria dell’inimitabile, in cui magico ed esatto coesistono. Ogni fotografia “è assimilabile a un tuffo assoluto nella materia del tempo, l’unica materia senza spessore di cui ci è dato avere esperienza”.
Ove si vede come Bailly tenda a non dare rilievo alla problematica della contemporaneità sollevata dagli altri pensatori, ma tenda a definire per la fotografia un concetto autonomo e specifico di contemporaneità e a donare alla fotografia un ambito di ambiguità che però caratterizza per gli altri relatori una caratteristica propria dell’arte.
Rosa Pierno

lunedì 6 giugno 2011

“Parole & Figure” Edizioni Pagine d’Arte 2011, Mostra al Museo Villa dei Cedri, Bellinzona



Il catalogo d’arte “Parole & Figure” che è stato redatto da Matteo Bianchi per la mostra che ha curato presso il Museo Villa dei Cedri, Bellinzona (17 aprile - 17 luglio 2011) si configura come libro che approfondisce con interventi critici notevolissimi la relazione tra parole e figure, tra linguaggio e arte. Vogliamo citare gli autori dei testi per dare il senso della qualità degli interventi: oltre a Matteo Bianchi, Luigi Cavallo, Yves Peyré, Véronique Mauron, Zeno Birolli, Elena Pontiggia, Itzhak Goldberg, Carolina Leite, Valentina Bucco, Luigi Cavadini. E, inoltre, con un omaggio ai testi di Michel Butor.

Se il cuore della relazione parola/figura viene sviscerato, le immagini che la compongono ne risultano amplificate. Se le immagini indicano direzioni ibridate e polimorfe, i testi cercano di individuarle e canalizzarle. Una sorta di gioco a rimpiattino ove nessuno ha la meglio, ma ogni volta la staffetta viene portata un po’ più avanti, da tutti i partecipanti, di una qualche distanza infinitesimale come vuole il paradosso di Zenone. 

Tanto per restare nelle immagini scaturite dal linguaggio filosofico o letterario che sia  (esattamente come questi testi si pongono anch’essi in zona anfibia), in questa faglia lavorare è pericoloso: si vedono piccoli umani - lillipuziani in confronto all’oggetto intorno a cui stanno lavorando - sono sospesi nel vuoto con corde dondolanti. Come altrimenti definire l’esplorazione, paradossale per definizione, di un oggetto effettuata con un oggetto diverso (equivalente al confronto tra uva e mele). In che modo innestare parole nelle immagini, o far parlare immagini? Retorica domanda: con tutte le proprie forze, naturalmente!

Nel catalogo vengono affrontati i due corni della faccenda: l’innesto delle parole nelle immagini, ove esse ne divengono parte integrale, o una sorta di scrittura, che almeno nasce dal suo ambito e s’installa con pienezza nell’area dell’immagine e l’assedio che la parola porta all’immagine nel tentativo di farla parlare. Nel primo caso vengono analizzate le modalità con le quali l’innesto di una materia nell’altra si realizza fino a divenire il medesimo strato epiteliale. Nel secondo, viene indagato il modo in cui la parola rivendica una capacità di analisi che riporta alla luce il granello di sabbia attorno a cui si è formata la perla. Entrambe azioni che, a ridiscendere il fiume o a risalirlo che sia, mettono in luce la questione inerente alla relazione tra linguaggio e arte.

Ma vogliamo fermarci qui per rimandare a questo libro imprescindibile, non senza però avere nominato gli artisti che sono stati ispiratori e utilizzatori di questo proficuo e promettente lavoro sulle possibilità dell’espressione umana: Bertrand Dorny, Anne Walker, Georges Badin, Jacques Clerc, Alberto Magnelli, Olivier Debré, Vieria da Silva, Pierre Alechinsky, Christian Dotremont, Henry Michaux, Jiri Kolar, Imre Reiner, Gastone Novelli, Emilio Tadini, Ruggero Savinio, Giuseppe Guarino, Jean_Pierre Schneider, ÉtienneViard, Alexandre Hollan, Ana Hatherly, Flavio Paolucci, Fernardo Bordoni. 

Rosa Pierno

venerdì 3 giugno 2011

Paolo Di Capua alla 54a Biennale di Venezia 2011- Padiglione Italia nel Mondo: Seoul


Nell’ambito della 54a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia 2011-Padiglione Italia nel Mondo, presso la sede dell’Istituto Italiano di Cultura e dell’Ambasciata Italiana a Seoul, diretto da Lucio Izzo, Paolo Di Capua, che ha vissuto per anni nella Corea del Sud  tenendovi numerose mostre, è stato prescelto insieme a Andrea Dichiara, Marco Bruno e Simone Carena per rappresentare l’arte italiana in Corea.
Paolo Di Capua ha concentrato la sua ricerca, durante l’intero arco della sua attività artistica, su due linee: una, geometrica, astratta, condotta sulle linee e sui poligoni, in cui la costante presenza del bianco e del nero non ha solo una funzione sussidiaria, ma connota una dialettica senza sfumature, e l’altra, condotta su materiali naturali, il legno, la pietra, con i quali l’artista rifugge dalla precisione geometrica e resta saldamente ancorato alla natura, compiendo un’opera di scavo artigianale sulle superfici dipinte anch’esse con il bianco e nero, ma in cui questa volta i colori vengono applicati in maniera imprecisa, soggetti come sono alla scabrosità delle superfici. 
Ci accorgiamo, dopo aver delineato queste due direttrici artistiche, che  la scultura  presentata dall’artista “Crescita di piante notturne” 2011, alluminio e acciaio, h. cm 350,  si avvale delle esperienze sedimentate nelle due vie di ricerca,  pervenendo a un terzo stato, qualcosa che assembla in sé sia la ricerca sulle forme naturali sia l’astrattezza consentita dall’opaco materiale dell’alluminio e dal brillante acciaio.  La piccola selva formata dalle quattro aste, distribuite su una base di cm. 250x250,  riporta immediatamente a un boschetto, in  cui ogni singola asta è assimilabile, per analogia formale, a un albero. Ogni albero è formato da parallelepipedi, archi di cerchio, triangoli e tutti impilati in posizione sfalsata in modo da convocare anche un forzato concetto di equilibrio, un equilibrio impossibile che pure è raggiunto tramite un artificio. Questa piccola foresta richiama una concettualizzazione che si diparte dagli elementi naturali e che giunge alla geometria, ecco qual è la terza via a cui avevamo accennato.  Il materiale dell’acciaio non perdendo le tacche della lavorazione artigianale del legno ne porta impressa l’origine e viene qui in mente il passaggio dall’utilizzo dall’albero, che sosteneva la trave nelle capanne, alla colonna del tempio greco.
Ogni elemento dell’albero non viene reso così come lo si ritrova in natura, esso è stato elaborato, trasformato, sottoposto a modifica: reinventato. Lo schema che consente di riconoscere un albero in un’asta formata da parallelepipedi funziona come cornice di riferimento.  E che schema sia anche diversamente leggibile in un contesto diverso, rende più complesso e completo lo studio effettuato dall’artista, per il quale partirsi dalla natura è elemento imprescindibile e caratterizzante al fine di giungere alla creazione di una natura artificiata, la quale traccia nelle trasformazioni di cui è stata fatta oggetto l’individualità dell’artista, le ragioni dell’io: il riconoscimento della propria ragione d’essere di artefice.  Il passaggio all’uso del metallo s’innesta in questa trasformazione a riprova che la concettualizzazione operata sul dato naturale apporta un maggiore grado di astrazione. D’altronde, il richiamo a un materiale diverso, che queste opere conservano nel segno dello scalpello impresso nel legno, conferma che l’artista non vuole cancellare il dato di partenza. Qui, il metallo rappresenta il legno. Ci si sarà alfine resi conto che il lavoro di Paolo Di Capua è condotto sulle modalità percettive, sulla formazione del concetto, su schemi e contesti, su rappresentazione e gradi diversi del processo di astrazione. Un’opera che pretende una riflessione sul lavoro artistico e sulla sua capacità di essere un esempio concreto di conoscenza ed esperienza.

                                                                                                    Rosa Pierno
http://www.iicseoul.esteri.it/