giovedì 13 ottobre 2022

Giuseppe Martella su Elisabetta Sancino, “Collezione privata”, Puntoacapo, 2021

 

Per la moderna narratologia, l’ecfrasi e la proairesi costituiscono le due modalità complementari per la costruzione di un racconto. Entrambi i termini derivano dal greco antico 

dove originariamente “ekphrasis” significa proprio in primo luogo la descrizione verbale di un dipinto o di una scultura, mentre “prohairesis” nell’etica di Aristotele significa la scelta deliberata di una opzione a preferenza di un’altra. Così il primo termine designa l’interruzione del processo narrativo per descrivere per esempio un personaggio, un ambiente, uno stato d’animo, ecc. A ben vedere vi è un’ambivalenza implicita nel termine “ecfrasi”, poiché esso denota da un lato una concatenazione funzionale all’interno di un certo codice e dall’altro invece un salto fra due codici o media distinti. Insomma esso ha la doppia valenza metonimico-metaforica, di tropo di contiguità e tropo di salto.

In questo senso, quest’ultima raccolta di Elisabetta Sancino costituisce un sistematico esercizio di ecfrasi poetica, in quanto saccheggia la storia dell’arte post-rinascimentale per comporre la propria “collezione privata”, dove le sei sezioni tematicamente omogenee si possono paragonare ad altrettante sale di una galleria artistica nonché ad altrettante stanze della memoria dell’io poetico. Tuttavia, piuttosto che descrivere i quadri o le sculture di riferimento, censite per titolo, autore e data (eccetto che nella sezione “Anonymous” dove si tratta invece di materiali, scuole e tecniche pittoriche), l’autrice li usa come spunti per la propria invenzione e riflessione in versi, ponendo in rilievo proprio quella reciprocità metaforico/metonimica che, secondo Jakobson, caratterizza il testo poetico in quanto tale.

A proposito di questa silloge, insomma, si può parlare di ecfrasi metonimica in quanto le estrose riflessioni, o “Estroflessioni”, come recita il titolo della prima sezione, emanano dal dipinto di riferimento per riversarsi sullo spazio immacolato della pagina, sull’ideale “Livre” di Mallarmé, alla cui disposizione grafica, impaginazione e rilegatura, tocca di tenerle in forma e di donar loro un senso plausibile. A questo proposito, esemplare, per esempio, risulta la lirica omonima della prima sezione, Estroflessione di Enrico Castellani, 1971: “vedi la mia anima estroflessa/ come un pugno di narcisi sulla sponda/ come i chiodi che spingono in fuori/ da una tela post-moderna.” (27) Si tratta dunque di una sorta di dripping metafisico, come dello sgocciolare dell’idea di fondo sul proprio piano di immanenza, dove prende corpo un’ampia varietà della morphé pittorica, accuratamente scelta e montata in una sequenza non già cronologica ma piuttosto analogica e immaginativa. 

La dovizia di dettagli e la pertinenza degli incisi, suggeriscono una notevole dimestichezza dell’autrice con la storia e forsanche con la pratica delle arti figurative. Comunque si tratta di una collezione massimamente motivata, di cui va esplicitato il genere e il grado di privatezza, come tratto costitutivo del senso della silloge. Ciò a partire dalla prima lirica della prima sezione, dove il tenore del divisionismo astratto di Piero Dorazio viene reso con rara perizia e originalità, come del resto accadrà per tutti i dipinti in seguito censiti. Siamo di fronte dunque a un’opera di arte concettuale ma concretissima e viva in tutte le sue fibre, i cui fremiti possiamo percepire sinesteticamente e a volte toccare con mano, quasi ci fosse stata restituita l’antica valenza del poiein come manipolazione materica prima ancora che esercizio di invenzione immaginativa o eidetica. L’interconnessione di materia e tecnica si coglie ancor meglio nel seguente quadro, “La bava” di Giulio Turcato, un altro esponente della pittura informale italiana del secondo dopoguerra, dove l’éidos sotteso, “la colatura dorata dell’anima”, (18) si incarna nella resina che cola lungo la corteccia di un pino, ipostasi dell’io poetico, nel cui stomaco alfine penetra a mo’ di nutrimento e sulla cui pelle lascia macchie o scorie. L’oggetto del dipinto di turno, insomma, prende spesso e volentieri la parola, divenendo soggetto del discorso poetico, nucleo dell’iconismo intrinseco che lo caratterizza, ma che qui subisce una sorta di ribattitura o di geminazione speculare che talora provoca una vera e propria mise en abime dell’immagine, una proliferazione folle dei doppi, come nel gioco di riflessi di una quadro di Monet dove, con impeccabile sinestesia, “la curva odorosa della terra” (19) fa tutt’uno con la sua follia primaverile.

Dicevamo dell’impronta concettuale implicita a questa intera operazione e tale che la regge da cima a fondo, come celata fra le righe e negli spazi bianchi del testo, costituendo l’asse portante di una architettura che risponde come in controcanto a quella poetica del gesto eversivo che è stata usata e financo abusata nella pittura, sia figurativa che astratta, del Novecento, dove per lo più la vocazione è stata barattata con la provocazione e il culto dell’artista si è sostituito a quello dell’opera, oramai privata per sempre della sua aura, a causa della riproducibilità tecnica in serie e della mercificazione integrale che ne è seguita. Ma non qui, nelle pagine di questo libro, dove vocazione e provocazione si sposano felicemente e dove l’effetto di straniamento e rinnovamento percettivo intrinseco all’arte poetica viene ricondotto da un lato alla radice gestuale dell’oralità primaria delle rapsodie preomeriche, e dall’altro alla concretezza materica di tanta arte del Novecento: si pensi per esempio ai tagli di Fontana o ai sacchi di Burri, piuttosto che all’arte povera e, in seguito, alla body art e alla land art, per finire coi geniali graffiti di Banksy che chiudono idealmente il cerchio della provocazione novecentesca, trasportando il museo in strada, in risposta al gesto dissacrante di Duchamps che aveva introdotto il suo “Orinatoio” nel museo.

E in effetti, in questa sua esemplare “collezione privata” l’autrice saccheggia tutta l’arte occidentale, dal Rinascimento a oggi, soffermandosi in specie sulle opere del Novecento, dalle magiche composizioni di Paul Klee, che coniugano geometrie astratte e grafica infantile, (78) all’espressionismo astratto di Pollock (60) e di Rothko (50), dalla “spoliazione brutale del corpo” (61) denunciata dalla pop art di Andy Warhol, per esempio, con la sua moltiplicazione della immagine di Marylin Monroe, “la faccia bionda della donna/ che si fuma la vita” (61), per finire con il concettismo iperbolico di Yves Klein che trae, nel corso della sua breve carriera, tutte le conseguenze della provocazione eretta a principio dell’arte, vendendo barattoli di vuoto e facendoseli pagare in oro puro che poi gettava nella Senna, “per riequilibrare l’ordine naturale.” E che programmaticamente sostituisce il culto della personalità a quello dell’opera, dichiarando che “il pittore deve creare costantemente un solo unico capolavoro, se stesso.” Non per caso infatti a Klein viene dedicata un’intera sezione di questa silloge, “L’oltremare”, (47-52) dove si consuma l’emancipazione del colore dal disegno, specialmente nei suoi monocromi blu che annullano ogni dimensione, saturando l’intero campo del visibile. Ma il programma di Klein viene nel contempo rovesciato nelle pieghe delle estroflessioni della nostra raccolta: “Vedi il rettangolo saturo e luminoso/ come un cielo immagazzinato nel torace/ prima o poi/ si sfalderà in germinazioni silenziose/ ma continuerà a splendere.” (49) Oppure: “con la testa ficcata nelle rotaie/ blu oltremare la terra le stelle/ le nuvole che non ci sono più/ i pianeti che ti formicolano sottopelle.” (51). Esempi probanti di ciò che ho definito “ecfrasi metonimica”, cioè della versione dell’immagine istantanea nella sequenzialità propria del linguaggio verbale, nello spazio metrico del testo. 

In questa prevaricazione del blu, che informa l’intera opera di Klein, si conclude idealmente la dialettica fra disegno e colore che attraversa tutta la storia dell’arte, e che costituisce anche il tema di fondo della nostra raccolta, facendo tutt’uno con la tensione metafisica tra forma e flusso, arte e natura, che investe tutti i dipinti e le scuole qui prese in considerazione, dalla classica misura dei maestri rinascimentali, al manierismo gotico dei Preraffaeliti, dal segno dinamico dei Futuristi, alla follia del colore nei gialli di Van Gogh e di Chagall, o dell’ “assolo giallo della chitarra senza/ stop” (61), che viene posto a sigla sinestetica della intera vicenda della pop art del Novecento. E che si insinua anche subdolamente in quella riduzione topografica del paesaggio del Wald Bau di Klee (dove predominano il verde e le strutture triangolari) come il perturbante principio di piacere che ci assale “quando la luce è troppo forte”. (78) E che, nello scandagliare la foresta di simboli di Baudelaire o il retro-paesaggio di Zanzotto, ci rammenta la tensione inesausta e più che mai drammaticamente attuale fra natura e tecnica, ossia anche fra arte e natura. 

“Collezione privata” dunque, sia nel senso che l’autrice ha esplorato la storia dell’arte, trascegliendone alcuni campioni da utilizzare come materiali della propria inventio. Ma anche nel senso che tale è destinata a rimanere per sempre, cioè a non venire compresa secondo l’originaria intenzione autoriale, ma solo nell’inevitabile scarto ermeneutico inerente a ogni singola ulteriore lettura. Fra questi due sensi del termine si apre l’abisso della creazione poetica, nonché il senso recondito dell’iconismo essenziale che la caratterizza e che mirabilmente è stato mostrato in una varietà e pertinenza di esempi, in questa silloge di raro valore e assoluta originalità, che va annoverata a mio avviso tra i libri più significativi di questi ultimi anni. 


Giuseppe Martella