giovedì 27 aprile 2017

Marco Furia su "Rifrazioni e altri scritti" di Giuseppe Zuccarino, Joker, 2017




Il silenzio del dire

Ricca di originali spunti e di efficaci citazioni, “Rifrazioni e altri scritti”, articolata e illuminante opera di Giuseppe Zuccarino, mostra grande fiducia nell’espressione verbale.
Si legge a pagina 9:
“Il silenzio, occorre ammetterlo, ha un suo fascino e una sua difendibilità, specie in un’epoca in cui infuriano la chiacchiera e l’effimero. Eppure può rivelarsi da ultimo ingannevole e pericoloso, può risultare una forma di complicità, ancorché indiretta e involontaria, con l’esistente (inclusi i suoi aspetti più riprovevoli), può equivalere a lasciar parlare soltanto coloro la cui voce è artificialmente e artificiosamente amplificata”.
Un richiamo al coraggio del dire?
Meglio, alla sua necessità.
Dunque, dire perché è necessario farlo.
Bene, ma in quale maniera?
Ecco il pregnante interrogativo al quale questo intenso e agile libro propone, con appassionata intelligenza, diverse risposte fornite dallo stesso autore nonché da scrittori, poeti, filosofi, artisti, musicisti, studiosi.
Attenzione, però.
Nessun passaggio costituisce, nella sua indiscutibile rilevanza, elemento fondante, poiché il Nostro intende proporre una vivida raccolta di stimolanti spunti, non certo un trattato.
Dire, insomma, non è esaurire: il discorso rimane aperto e, perciò, necessario.
L’apertura implica necessità?
Sì, se l’esserci viene riconosciuto quale immensa costellazione di circostanze concrete e potenziali.
Dal possibile scaturiscono la scrittura creativa, il filosofare, il dipingere, il comporre musica, eccetera.
Non sorprende, perciò, che a pagina 59 sia posto l’accento sull’importanza del silenzio:
“Dallo stesso testo celaniano, il filosofo [Derrida] riprende altre due espressioni, “antiparola” e “svolta del respiro”. Esse gli servono per indicare l’interruzione, il silenzio, che consente la rottura della comunicazione ordinaria e l’instaurarsi di un dialogo più profondo. A questo fine, secondo il filosofo, devono tendere non soltanto la poesia, ma anche le altre arti: “Occorre, nella parola, salvare il silenzio” ”.
Bisogna “salvare il silenzio”, senza dubbio, ma “nella parola”.
Il dire custodisce il silenzio, poiché quest’ultimo è partecipe, in maniera per nulla secondaria, di quell’avventura chiamata umano linguaggio.
Non dobbiamo rifiutarci, quando è possibile, di sostituire alle rigide opposizioni il naturale modificarsi degli aspetti, dei lineamenti: in un volto triste si può scorgere l’allegria?
Forse, in qualche caso, è possibile, ma l’importante è che quello stesso volto può essere anche allegro: tristezza e allegria non sono qualcosa di applicato dall’esterno, bensì umane fisionomie.
Gli opposti, certo, esistono, nondimeno i tratti espressivi si mostrano in grado di promuovere il discorso ulteriore di attinenze esistenziali emergenti dalle dissomiglianze piuttosto che da insanabili contrasti.
Molti sono gli argomenti trattati da Giuseppe Zuccarino e dagli autori da lui citati: mi sono soffermato su quelli che ho ritenuto particolarmente significativi.
Altri, forse, non condivideranno questa mia opinione?
Merito della feconda complessità di “Rifrazioni e altri scritti”.

                                                                                                         Marco Furia

giovedì 20 aprile 2017

Alessandro Carrera sul “Bruto minore” di Leopardi, con disegni di Alberto Cerchi, Fiorina edizioni, 2017




Nel lapidario leporello di Fiorina edizioni, all’interno della collana “Le lune” dedicata a Giacomo Leopardi, sia per l’icastico testo di Alessandro Carrera sia per i disegni di Alberto Cerchi, i quali evocano la nitidezza e la fermezza di ciò che è scolpito nel bronzo, tracciando la scenografia delle azioni e dei pensieri di Bruto, si porta a un livello di altissima temperatura uno dei punti cruciali del pensiero di Leopardi, poiché proprio da questo punto, nella rete concettuale del poeta recanatese, si innestano altri sostanziosi rivoli verso ulteriori nodi.
Carrera espone con agilissima andatura la questione posta dalla canzone Bruto minore composta dal Leopardi nel  1821 e ha cura di interpolarla con il testo Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, scritta nel marzo 1822 dal Leopardi stesso, la cui forma è “un unicum nella produzione leopardiana”, in tal modo ricostruendo la visione del poeta che ha in animo di tracciare una via priva di intralci nella definizione della virtù come illusione, usando a puntello la figura di Teofrasto, in quanto la sua scienza (citiamo direttamente dal testo Comparazione) “non fu subordinata da lui, come da Platone, alla immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso di Aristotele; e indirizzata, non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero” tanto che “non è maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima”.
Carrera non tralascia nessuno dei luoghi che concorrono per il Leopardi alla dimostrazione di come, nel momento cruciale della sconfitta, Bruto comprenda che la sua vita sia stata condotta sotto l’egida di una pura illusione e mette sotto particolare illuminazione che anche la sapienza è cosa che, allo stesso modo della virtù, non fornisce alcun solido appiglio, e tanto meno consolazione, nel rovente momento della resa dei conti. Bruto ha in disprezzo gli dei e la natura, anzi li ha entrambi sfidati mostrando la forza della sua virtù, ma é vicino alla morte, che egli riceve “una rivelazione che è a suo modo una conversione rovesciata: “Bruto vicino a morire proruppe esclamando che la virtù non fosse cosa ma parola””, quasi traendo solo da quest’ultima considerazione la determinazione del suicidio.
Tracciando un quadro in cui la visione del Leopardi si riferiva all’età dell’immaginazione come a un periodo, anche sociale, nel quale la figura dell’eroe trovava rispondenza in un pensiero non ancora corrotto dalla ragione, Carrera, spinge più a fondo la sua analisi immettendovi valutazioni sulla storia, in cui è la politica che appare come scacchiera agita da uno snaturante potere che si oppone alla felicità umana, considerazioni a cui il professore di Letteratura italiana alla University of Houston (Texas) riallaccia, inoltre, il pensiero di Hölderlin e Benjamin.
In questo senso, vogliamo cogliere l’occasione per ricordare anche le parole di Francesco Flora, collegandole al ganglio tematico rilevato dal Carrera, poiché  riguardano la poesia e la felice contraddittorietà di Leopardi: è proprio la poesia, per quest’ultimo, la custode delle illusioni, in essa “il desiderio, l’illusione e il ricordo vivono come parola” e pertanto se il poeta “sempre asserì l’inutilità, il danno, la miseria della sapienza umana” è pur vero che è solo nelle illusioni che respira l’immaginazione, e ivi “il Leopardi credette di trovare il più solido bene di questa vita”. D’altronde, ancora usando il Flora per allinearci col Carrera, “solo i tristi non possono essere poeti” che potremmo parafrasare con “solo i politici….”.

                                                                                     Rosa Pierno


mercoledì 12 aprile 2017

Due poesie inedite di Giorgio Bonacini, 2017






*

Un' aria robusta si accende – non è
la più bella. Non è l’invenzione del tempo

che invita al suo pianto, né il volto
di desolazione che muove fatica

e non prende. E' trovare fortuna di suoni
che fanno parola, che brillano scuri

e non sembrano lingua - né musica
o sabbia - o gesti impietriti. Ma è così

che pensiamo - è così che diciamo.
Con soffi e segnali, e torsioni alla mente.


*

Un’isola dipende. Un’altra
è libera ma brucia. In pieno rigoglio

di incitamenti è pronta a esplodere
di piume, pesche, siepi tanto alte

da oscurare. Un’isola si vede.
Un’altra attende. Inventa e sperpera

il suo cuore. Parola detta lucida
e serena – per qualcuno nella notte

segna e suona. Un’isola si muove.
Un’altra prende corpo ed è reale.




Non abbiamo potuto fare a meno di pensare a La tempesta di Shakespeare nel leggere queste due poesie inedite di Giorgio Bonacini. Certo le parole 'suoni', 'isole', 'brucia', 'lingua' ci hanno messo subito sulla strada, certe tracce  incantatrici, ma quello 'sperpera' assonante con Prospero, anzi semanticamente opposto, ci hanno confermato nel miraggio: l'isola  si muove, prende corpo ed è reale.
Intendendo la commedia shakespeariana come un inganno visivo, poiché la magia non ha certo, ivi, maggior potere della natura umana, anzi è puro strumento contrastativo che serve a mettere in risalto l'ampio raggio che il concetto di umano può assumere (dai vizi più abietti alle più solide virtù), resta in piedi, in tal modo, questo nostro iniziale abbaglio, poiché propedeutico alla comprensione. Ci rassicura, d'altra parte, lo stesso  Bonacini sul suo valore conoscitivo: "Parola detta lucida / e serena - per qualcuno nella notte // segna e suona".
La parola non può essere volatile, può anzi avere la concretezza dei più rocciosi fatti, rammentandoci che alle parole siamo ancora noi ad affidare il loro valore. E il loro suono ha per molti la verità di una debito da saldare. Ancora alle parole è affidata la possibilità di modificare l'assetto delle nostre esistenze, il nostro modo di vedere il mondo e di agire sul palcoscenico che ci è toccato in sorte. Solo la mente potrà inscenare torsioni e ravvedimenti, vedere tristemente o crudamente,  produrre soffi e suoni. È questa la magia: l'unica vera. Parole son fatte della stessa sostanza dei suoni, diremmo. Ma è facile, seguendo i distici di Bonacini, lievi e sapienti, volgere le visioni nel loro segno contrario.
Le continue inarcature, per intanto, non producono fratture nel verso, ma sembrano tessere più strettamente la materia fonica ai colori iridati: come sarebbe il colore di un tessuto prodotto dalla mente. Forse dovremmo assieparci nello stallo, da lì monitorare l'andamento, evitando ogni abbrivio che portasse troppo velocemente alla soluzione, ogni definizione troppo ripida: dovremmo esistere come si sta a teatro.
                                                                                            Rosa Pierno

giovedì 6 aprile 2017

"La vita solitaria" con una lettura di Chiara Fenoglio, incisioni di Alessandra Varbella, Fiorina edizioni, Varzi, 2017




Una serie di incisioni di Alessandra Varbella, con una luna che sembra allontanare da sé la polvere ferrosa della notte, ricostruendo una visibilità che allontana, pur se solo parzialmente, la minaccia delle tenebre, lasciando accedere all'esistenza, quasi per un fulminante lasso di tempo, la selvaggia pianta dei ripidi pendii,  è il miglior viatico alla breve quanto intensa pagina che con grande perizia Chiara Fenoglio incide a sua volta sull'ultimo dei sei idilli di Giacomo Leopardi, La vita solitaria, scritta quasi certamente nel 1821.

Ben si conosce il metodo di lavoro leopardiano, che riprende e rilavora incessantemente i suoi tópoi e mai non dismette di collezionarli nelle nuove relazioni che istituiscono, ricavandone ogni volta processi significativi sempre più ricchi e mossi, più vitali e contraddittori, impossibili a ricomporsi in unità. Ed è proprio attraverso la riscrittura del linguaggio poetico tradizionale, e in particolare del Petrarca, come mette in rilievo la Fenoglio, additando l'originale sistema di riferimenti semantici che si attivano nella poesia del Leopardi in relazione all'autore del Canzoniere, poiché variano le condizioni personali e varia il modo di incasellare il reale nei due autori, oltre che naturalmente la lingua, che si può intendere come La vita solitaria acceda al grado di particolare centro d'irradiazione anche della produzione successiva.

Ciò implica, appunto, una considerazione del poeta di Recanati sulla propria poetica, esplicitata nel suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: "Solo gli antichi, per il loro stato d'ignoranza, potevano trarre vero piacere dall'imitazione della natura con la parola. Al poeta moderno non rimane che imitare la natura attraverso gli occhi degli antichi, unici ad avere creato diletto nei lettori" essendo liberi dalle catene di una ragione che si oppone a ogni pur sana illusione. Proprio la messa a punto di una poetica restituita dal lavoro sui materiali prelevati dalla tradizione consente al Leopardi, come prima al Petrarca, di giungere a quelle vette poetiche che in ogni caso, in entrambi, pur se con precise differenze, come ci tratteggia Chiara Fenoglio, vengono elaborate all'interno di una vita solitaria, subita o autoimposta che sia.

Il risultato sarà una straordinaria posizione che del piacere, in prima istanza impossibile a causa della disillusione procurata da una razionalità che colpisce l'uomo moderno impedendogli di aderire alla natura e alle sue illusioni, non fa un luogo di rifiuto totale,  ma sfrutta la sottrazione di azione e desiderio, traendo a riva l'assenza di ogni dolore: l'unica pace possibile, l'unico piacere recuperabile. Fenoglio, saldando in rapidissima successione alcuni punti salienti, compreso il concetto del Mengaldo relativo a una linea di circolarità che ha nel finale della poesia molti elementi dell'attacco, ci porge il senso di una linea poetica, la quale sia sul giudizio che Leopardi stesso ebbe del Petrarca, sia sulla distanza della poesia dei moderni da quella petrarchesca, svolge, dinanzi ai nostri occhi, i motivi dei sei idilli tutti. Per Leopardi, essi coincidevano con la ricerca di una verità che fosse anche, contemporaneamente, una risposta esistenziale.

                                                                                                    Rosa Pierno

domenica 2 aprile 2017

"San Gottardo" di Pietro Montorfani con incisione calcografica di Loredana Müller, edizioni Weiss, 2017







Una sorta di geografia antica, come quella dove le coste venivano disegnate scrivendo i nomi dei paesi che si affacciavano sulle sabbiose rive o gli scoscesi pendii, è quella tracciata da Pietro  Montorfani, il quale, ancora con i nomi, disegna sotto i nostri occhi quella strada ritorta  inerpicantesi  tra monti e fiumi, in uno specifico angolo di mondo, il San Gottardo,  che va a collassare in un punto che pare inghiottire tutto: sparisce la via nell'intestino buio di un pietroso sipario, ove si predispone il passaggio di treni ricolmi di merci, immersi in silenziosa attesa, quasi fosse un trapasso in altro spazio. La delicatezza del testo che restituisce l'ovattato e quasi incomprensibile luogo, per l'inusuale, ambigua caratterizzazione spaziale, crocevia di percorrenze impervie, con un finale degno di un prestigiatore che faccia sparire alla vista ciò che pur non sembra celabile, è rafforzato dall'incisione calcografica su lastra di zinco ad acquatinta e maniera a sale di Loredana Müller.  Con la scala drammatica dei grigi, l'artista riesce a tracciare astrattamente le scaglie boschive, i ripidi tracolli, gli strapiombi arditi e le zolle in cui la luce raggiunge il suolo in una tavola che ricorda l'intarsio tentato con materie incompossibili.
Il prezioso volume edito da Josef Weiss è il quarantanovesimo all'insegna del Dîvân ed è composto in caratteri mobili in trentatre copie.




Miracolo sul passo della Flüela


Non già sulla trentaquattresima
ma sull’unica, torta, che si arrampica
a fianco dello Schottensee,
tra il Corno bianco e quello nero,
tra Reno e Inn, in un punto
della mappa d’Europa in cui le auto
è meglio che si adagino sui treni
e attendano, dentro il buio dei monti,
l’altro lato...