mercoledì 28 febbraio 2018

“Altre prospettive”, Paolo Di Capua in mostra a Genova




'Altre prospettive' 2017 legno scolpito/smalto ad acqua bianco/nero cm 97x69x3

Un costante andirivieni, tra le opposte caselle del geometrico e dell’espressivo, del tattile e del visivo, si situa nel pulsante movente dell’arte di Paolo Di Capua. Non si tratta certo di indecisione, quanto di complessità. Soprattutto in quanto non sono escluse, dall’arco oscillante che si estende tra le due opposte categorie, le fasi intermedie di integrazione fra gli estremi. Sarebbe a dire le fasi in cui il geometrico diviene espressivo e l’espressione si dà regole logiche. La precisione, la lucidità e la limpidezza, che si riscontrano nelle opere poste sugli estremi suddetti, vengono gradualmente mescidate negli stati intermedi in cui l’incontro delle due sfere concettuali mostra relazioni che, appunto, interferiscono fino a definire aree con caratteristiche del tutto autonome. Si sa che la logica della complessità è un paradigma introdotto per rendere conto di tutti quei fenomeni che non si adattano alle suddivisioni classiche. Ecco dunque che il tattile, che accerta una realtà oggettivata e che indica una realtà separata ed esterna, e che nel caso di Di Capua si declina in due diverse modalità: geometrica e informale, quando entri in collisione con la sfera interiore, psicologica, emotiva dell’artista, produce un’opera che reclama una diversa nomenclatura rispetto alle consuete che il critico usualmente utilizza. 

Si osservino, a tal rispetto, le due imponenti sculture lignee realizzate per questa mostra, “Altre prospettive”, le quali, con la loro suggestiva forma trapezoidale, sembrano scandire il tempo dello scorrere dell’acqua sotto traversine d’acciaio: perfetto esempio di come i segni informali della sgorbia convivano con la geometria. Analogo dialogo tra l’astratto e il concreto troviamo sviluppato anche nella scultura-progetto “Disegno imperscrutabile”, la quale, secondo l’idea di ‘opera aperta’, ovvero modificabile, con le sue pareti mobili fa vorticare lo spazio intorno alle superfici, ricordando gli ziggurat (torri templarie a imitazione dei monti con gli angoli non sempre orientati secondo i punti cardinali). Vi è immediatamente leggibile anche un riferimento mnemonico alla Torre di Babele che diede esca al formarsi della leggenda della confusione delle lingue: un tema che ritorna nel nostro discorso. Il giro dei piani di scorcio, determinati dal fatto che l’opera-progetto è formata da pannelli incernierati e dunque posizionabili nello spazio in vari modi, consente differenti visioni sul medesimo piano di scorrimento. L’oggetto tridimensionale ci spinge a compiere un’azione potenziale, a essere all’interno mentre lo osserviamo dall’esterno. Nel flusso continuo delle apparenze, volume, corpo e spessore si danno attraverso la memoria costruita dalle percezioni tattili. L’occhio ci sembra divenuto prensile, circolando sulla superficie e come toccando le asole scavate dalla sgorbia. Un gioco di forme dipinte in bianco e nero ci ricorda che pittura non è mai distante. Che le suddivisioni di genere sono lì più per essere messe alla prova che contraddette. 

L’artista fa quasi sempre uso di pigmenti bianchi e neri. Le lastre di acciaio tagliato a laser appartenenti alle serie “Stabbed soul” e “Oltre ogni logica” vengono verniciate a fuoco in nero e argento satinato, affinché diversissima, in tal modo, appaia la risultanza ottica della medesima materia. Il nero drammatizza e nasconde, l’argento ammorbidisce e dissolve. In ogni caso, mai nessuna superficie riposa nella sua evidenza; tutte subiscono un trattamento teso a massimizzare o minimizzare gli effetti di luce e tagli o azioni di scavo che trasformano il piano in volume. La materia, a cui spesso riserviamo il nostro approccio più scontato, da Paolo Di Capua riceve, invece, un vita diversa, un’apparenza altra. Il legno, inoltre, risveglia il ricordo dell’organico che viene a confliggere con le forme geometriche incise. In realtà, dovremmo porre attenzione al fatto che in arte, tutto è sempre mentale, che persino la materia vi è convocata nel suo aspetto artificiale.

Il tatto, senso che ci consente di connetterci con ciò che ci è vicino, è in opposizione a ciò che invece vediamo (e non è un caso che la visione sia connessa anche al senso della distanza). Unire visivo e tattile non è solo aggiungere una cosa all’altra, ma creare le condizioni per una percezione sinestetica, perciò ci sembra possibile toccare con gli occhi, vedere con le mani. Lo sguardo scorre sulla superficie viva del legno a cui sono stati inferti colpi morbidi: le parti intaccate appaiono quasi un riflesso determinato da una convessità su una superficie riflettente, donando motilità alla materia pur possente, pesante. Scavando, asportando piccole porzioni di fibra vegetale, il piano risulta alleggerito, viene trasformato: esso si muove morbido e quasi flessuoso sotto lo sguardo, fluente come un fiume. L’attivazione sinestetica si coglie di fronte alle pareti di legno intagliate in cui la mano subentra all’occhio nell’esplorazione della forma, lì dove lo sguardo non percepisce, attraverso la calda luminosità, i bordi dello scavo, mentre subentra la memoria della mano che supplisce, rendendo percepibili densità e tensione.

Sull’algido estremo opposto, dunque, collochiamo le lastre di acciaio di ”Stabbed soul” e “Oltre ogni logica”, nelle quali sono stati praticati tagli e in tale tramatura inserite ulteriori lamine. La serie mostra una geometria ineccepibile, con le sue simmetrie, equilibri e rapporti purissimi. Anche la composizione sempre variata merita un discorso a parte: sorta di alfabeto visivo indicante che la perfezione può essere raggiunta in modi diversi: la serie acquista valore attraverso la diversa valutazione dei pesi e delle grandezze. Un grado di ulteriore profondità è dato dal gioco delle ricomposizioni e degli spessori. In generale, ogni opera di Paolo Di Capua è sempre in dialogo con lo spazio nelle sue diverse eccezioni: scultoreo ed architettonico.

Per i disegni, inchiostri su carta, pur se essi appartengono idealmente al gruppo delle opere ove il tattile non rientra, si rileva che l’espressione fa qui il suo ingresso più incisivo. Vi è una geometria già compromessa con l’emozione: la costruzione architettonica è realizzata con plinti giganteschi e pareti murarie vertiginose: i piani d’appoggio scivolano e le fortificazioni presentano al contempo fughe prospettiche incongrue. L’emozione, infatti, agisce fra tali quinte prospettiche alterando la normale, consueta sapienza costruttiva del disegno e indirizzando il ricordo verso i deliri piranesiani. I segni s’infittiscono o si diradano indicando le ombre proiettate dalle pareti, in alcuni tratti si assottigliano e si rarefanno per la presenza dissolvente della luce. Pare di scorgere le fasce diversamente luminose delle cime e delle valli e degli specchi d’acqua di un lontano aspro e invalicabile in “Paesaggio mentale”. D’altronde, proprio il disegno è l’attività che coniuga il fare con il conoscere e nei disegni di Paolo Di Capua il tratteggio che sgraffia la carta, come farebbe uno scalpello sulla pietra, si muove saggiando le molteplici direzioni che i segni potrebbero prendere, quasi derogando dagli spazi progettati, misurando le oscillazioni che raggiungono, le inflessibili direzioni da cui  tuttavia non demordono.

Fra i due estremi, cioè fra le opere limpidamente geometriche, come quelle in acciaio, e le opere in legno scolpito, maggiormente informali, ci sono altre opere, dislocate sul segmento intermedio, che mostrano varie ibridazioni tra astrazione ed espressione: si pensi al dittico in legno “Altre prospettive ”, sui quali, fra i lati di triangoli incisi che sembrano rifilati al laser,  si annida la polpa legnosa traversata da veri e propri colpi di luce. Oppure, alla stele “Piccola pianta notturna” realizzata in fusione di alluminio satinato, a partire dalla matrice in legno da cui sono state ricavate le forme in cera persa, formata da rettangoli impilati e roteabili, dunque ancora ‘opera aperta’, che palesa alcuni lati lisci e altri sgorbiati. Ora, proprio questa ibridazione dà luogo ai passaggi più intriganti in cui il geometrico diventa organico e l’oggettivo, fuori di sé, natura compresa, corrisponde in Paolo Di Capua all’esperienza forte della soggettività.

                                                                Rosa Pierno 

Spazio M&M di Alessio Menesini
Via Perosi, 13 canc.
Genova

Dal 3 al 24 marzo 2018 


mercoledì 21 febbraio 2018

Mario Fresa “Svenimenti a distanza” il melangolo, 2017





Per il solo fatto di frantumare la consequenzialità logica, non si può imputare a Mario Fresa, per suo ultimo libro di poesie e prose Svenimenti a distanza, il melangolo, 2017, la volontà di deporla, né di sostituirle altra cosa. 
Nemmeno si può affermare che vi sia una logica diversa. Forse, la potrebbe riferire a quello stato della malattia, della follia, dell’alienazione che di fatto finisce per alterare quasi completamente l’usuale quadro di riferimento. Ma con certezza possiamo asserire che qualcosa di saldo resta, che fra le maglie qualcosa passa d’integro: sono gli oggetti. Tuttavia ben presto scopriamo che tutto è animato, antropomorfizzato: la finestra ci parla, gli insetti sono “di viva, bollente calma”, come quelli di conio kafkiano, e che ogni cosa è anche meccanizzata: l’emicrania è ‘da riparare’.
L’uomo acquisisce identità soltanto assumendo quella degli oggetti o, addirittura, agendo in essi: nell’orologio si cade, si sparisce in un bicchiere d’acqua. Il soggetto dorme “come un’ombra cinese”, oppure “finge di essere un suono / interminabile” o si sente “più giardino di ieri”.

Ciò che è immanente, sebbene umanizzato, o anche distorto o deformato come sotto lente convessa, si deve misurare con un polo astratto, dove non regna minore alterazione: “una marziale grazia / nelle sue tasche azzurre”. Ciò che è intangibile, pertanto, rotea ancora attorno a ciò che è umano e ne assume il corpo, tende a sporcarsi con la materia, si colora, acquisisce un carattere eterogeneo.
Nella terza delle nove sezioni, di cui solo due in prosa, Nodo parlato, colui che parla non cambia posizione, non finge travestimento, anzi svolge il suo racconto con un linguaggio comune, senza fratture: “Dice di sì: gli ho ripetuto lentamente la notizia, / per non fargli del male”. Ma forse lo scambio è già avvenuto, e non di poco peso, quello tra vivi e morti. Le esistenze sono interscambiabili lungo l’asse temporale: la storia, quella tragica, si conficca nelle carni delle vicende quotidiane, quasi un orrore nell’orrore.

Poi gli ha gridato: prendetelo e marchiatelo
col ferro rovente! E quei tre non si parlano nemmeno:
il borioso compagno, allora, ci viene tutto addosso:
e ha gli artigli protesi, e poi si arrabbia perché
si è accorto che ha il nome uguale al mio. 

Fra memorie disseppellite e verità sotterrate, la spola che interpola l’una e l’altra sfera è la lingua, la diversificata modalità che il linguaggio concede per parlare dell’effrazione dei mondi. Al contempo, l’effrazione delle regole induce immediatamente al riso. Così i dialoghi inefficaci, quasi tra sordi, poiché la malattia altera la materia del contendere, innalzando una barricata non superabile, sono spesso pronunciati da persone che ridono, sorridono. Vi è il senso di una paradossale comicità, la quale evidenzia una tendenza alla constatazione di un’autentica, irrisolvibile disfatta, e di un precipitare inarrestabile nell’insensato.
 “L’importante è – sempre ridendo – vincere questa apatia: / e allora ci divertiamo ad osservare il corpo accartocciato / sulla parete,”
Oltre al gusto del ridere, vi è anche il gusto di “essere la cosa giusta, / ma al posto sbagliato”. Il “romanzo malattia” consente la sostituzione di una cosa con un’altra: esso  incita alla decifrazione, costringe a cercare una continuità impossibile perché vi convergono storie irriducibili una all’altra, eppure compresenti: “e se questa è una finzione, sta’ sicuro / che ben presto ci guarirà”.
Medusa della specie è la quarta sezione, dove si infittiscono vieppiù i riferimenti a La Montagna Incantata di Mann. Comprendiamo che la parola ancor prima che frutto di esperienze è - per la sua impossibilità di essere slegata dal senso, dal contesto, dalla polisemia - prima di tutto memoria, ricordo di ciò che è stato letto, ascoltato.
Con la parola si narra ciò che è stato già narrato, forse non altro, quando poi vi sia come dichiarato il rifiuto di percorrere le proprie trame, una nuova tessitura. In ciò troviamo forse, più che la fine della letteratura, la sua elevazione all’ennesima potenza: che importa raccontare il nuovo,  quando leibnizianamente possiamo ritessere un libro con vecchie parole e trascorrere dalla vita alla morte e viceversa. 
A riprova, la presenza di un Bugiardino. Note e istruzioni per l’uso, in coda al libro, il quale indica alcuni stimoli che Fresa ha colto, dati di partenza, prelievi, i quali indicano un punto della rete da cui è partito per scrivere: l’occasionalità mostra anche l’intercambiabilità degli stessi. Non importa dil luogo di partenza: a qualcosa si approda: l’avvenuta tessitura della pagina. 
Tutta la letteratura è convocata, dai gironi alle api, dai banchi disastri che a noi fanno vedere in mente Melville ai personaggi delle favole (in Galateo per un abisso), mai lontano Carroll. Ecco, ancora, il ritornante sorriso, la necessità del ridere, che è come un segnale disseminato lungo le pagine di questa silloge per avvertirci a ogni svolta che è nel mondo dell’artificio che siamo caduti e che in quel luogo anche la malattia non è vera malattia, ma fuga della mente: “il mare aperto fuori, / e risa violentissime che generano insieme / dolci segreti di vanità”.

                                                                                        Rosa Pierno

martedì 13 febbraio 2018

Alla strenua ricerca della natura. Mostra di Dina Moretti e Loredana Müller


Opera di Dina Moretti


Tutta percorsa all’insegna della natura, la mostra delle due artiste ticinesi, Dina Moretti e Loredana Müller, è la dimostrazione di quanto uno sguardo fortemente direzionato, fino a sprofondare nelle oscurità della materia, non possa che restituire la vera immagine della natura: il suo aspetto puramente mentale.

La levità dei segni, nati da un’investigazione che tenta di scovare l’invisibile almeno nelle sue ultime parvenze percepibili, fa collezionare a Dina Moretti una serie di immagini parziali, di dettaglio, che mai tentano la totalità, ma si preoccupano di effettuare un’indagine che scavalca la particolarità della pianta per cogliere il segreto del suo sviluppo. Non è la ricerca della pianta originaria, ma il suo modo di fare figura, i suoi snodi, le direzioni in cui avviluppandosi cresce o, addirittura, il modo in cui ingloba i fori e nodi nella corteccia. Il dettaglio pare perdere sostanza, man mano che lo sguardo si avvicina. E il visibile s’ammanta di nebbia, di veli, dell’impossibilità di svolgere interamente la materia, di scorgere il motivo della variabilità vegetale. Piante interamente pensate, luminose, addirittura! Piante che possono collocarsi sul limine dell’organico, ove il dialogo tra bianco e nero o fra i grigi o i seppia in scala cromatica contribuisce a rendere ancora più impalpabile il costrutto visivo. Ciò che è vegetale sembra ritorcersi e andare a riempire le pagine del libro sulla natura di Dina Moretti, dove mai però compare il dato geometrico e le cose sono prese col solo movimento del disapparire. Le immagini si creano sulla superficie del foglio, agganciando il vuoto.

È col colore che, invece, Loredana Müller investiga il mondo, dalle piante deducendo un vellutato verde, luminoso e acquoreo oppure frantumando la materia vegetale secca e facendola mulinare in vortici che espellono lo spazio dal disegno, ma lo affastellano di tinte. È una natura con moto, che si dà alla percezione nel divenire delle aggregazioni e del rinfrangersi delle tonalità cromatiche con passaggi suadenti e morbidissimi. A volte il movimento è colto nell’istante della divisione cellulare, rendendo visibile a occhio nudo, ciò che l’artista immagina. Il colore ribolle o formicola, si placa o si addensa, caratterizzando ogni porzione di spazio. Lo spazio diviene ricettacolo di frammenti, vi si accalcano tramature vegetali, cellule, fiori colti al microscopio, strutture con filamenti, tessuti epiteliali, quasi un vocabolario delle tessiture organiche. Eppure si sente l’inorganico, quasi come per una sinestesia, sempre in azione e in ogni dove. È ciò che appare evidente osservando i medaglioni color terracotta in cui persino la figura umana è riprodotta al modo di un calco, di un ritrovamento archeologico, insomma sempre con una trasposizione che denuncia la sua alterità rispetto al dato reale. Alcune figure affiorano da un reticolo di segni poiché è il segno, la sua centralità ad essere in questione. La distanza tra essere umano e materiale vegetale o organico viene, in tal modo, a cadere, esibendo la sua ininfluenza. Ciò che conta è che la natura mostri i suoi segni.

                                                                                              Rosa Pierno



TRACCE, SEGNI, ENERGIE.
carte, tavole, tele
Dina Moretti e Loredana Müller
Vi aspettano lunedì 19 febbraio alle 19
ad areapangeart, centro culturale a Camorino.
Presenta Gilberto Isella
Suoni in sala Edith Salmen
Per saperne di più:
www.areapangeart.ch


Opere di Loredana Müller

venerdì 2 febbraio 2018

“Carte certe. Scegliete una carta”, una mostra al di là dello specchio alla galleria hyunnart studio, Roma



               Paul Klerr  ' Il segno e il colore in armonia '  2016  cm 40,5 x 28,5



Pensata da un artista, Paolo Di Capua, nel suo spazio hyunnart, per gli artisti,  -non solo per quelli notissimi, ma anche per coloro che hanno perseguito in disparte la loro personale ricerca, tutti di generazioni diverse, - la mostra collettiva Carte certe. Scegliete una carta ha come obiettivo l’emersione di un percorso personale, che, in relazione alla ricerca espressiva e al mezzo più immediato per fissarla, qual è la carta, si costituisce come momento fondante della posizione di ciascun artista nei sentieri dell’arte.
L’esposizione è anche un’occasione per avere sotto lo sguardo la compresenza delle molteplici linee espressive che dagli anni Sessanta si sono succedute fino ai nostri giorni. Dall’astrazione all’espressionismo gestuale, dall’informale al segno-scrittura, dalla geometria alla figurazione. Ma percorriamo più dappresso le tendenze ravvisabili nella mostra, anche se avvertiamo subito il lettore che certi “ismi” sono camicie di forza o cassetti tranquillizzanti in cui riporre oggetti che non si lasciano tuttavia esautorare da una classificazione.  Per chi opera dall’interno, nel fare, e si muove spesso in bilico tra posizioni che sono poste come boe dall’esegesi critica, esse sono, infatti, davvero riduttive.

Si guardi al gesto di Guido Strazza che col segno incide, cercando profondità nella superficie, e Seo Yun Jung che cerca l’equilibrio tra corpo e mente nel processo pittorico, mostrando una forza espressiva in straordinario equilibrio con l’economia dei mezzi. Ernesto Porcari, ancora col gesto, cerca una scansione, un ritmo, mentre Paolo Di Capua, infittendo e variando la frequenza, del segno, si dirige in innumerevoli direzioni procurando l’impressione che la carta si pieghi, acquisisca volume. I plinti a tempera di Lorenzo Guerrini hanno una forza tettonica che sembra straripare e riguardare direttamente l’emozione, la fondazione del sé. Le opere di Paul Klerr sono costruite al computer: i  colori sono pirotecnici, mentre il segno subisce la rigidità traduttoria del mezzo meccanico. All’inverso, con straordinaria economia di mezzi, i lavori di Giuliano Lombardo registrano la formazione di punti di luce che assurgono a entità geometriche nel nero siderale.

Un dialogo tra ombra e luce, colte entrambe nel loro valore assoluto (inchiostro e colore della carta), dove linee astratte s’incaricano di trasportare il colore, agisce all’interno delle opere di Carlo Lorenzetti. Le opere geometriche di Ettore Consolazione aggettano nello spazio, con il collage di carte ripiegate a ventaglio e bastoncini, il tutto caricato da un colore che rende gli elementi geometrici espressione di una costruttività emotiva, mentre più raggelata appare l’opera di Paola Fonticoli, ove la sensibilità si appunta sull’equilibrio miracoloso di carte ritagliate e incollate solo parzialmente. In quest’ultime opere la carta sfida il volume, mostrando che non le appartengono limiti di sorta. Quasi drammatica, al confronto, appare la figura geometrica costruita da Teodosio Magnoni, che riesce a rendere paradossale la bidimensionalità della superficie. 

La scelta della grafite, per Bruno Aller, implica una morbidezza che immette sinuosità sulle superfici pur rigide dei suoi poligoni, fra i quali inserisce anche lettere ponendo un’equivalenza fra volumi nati in sistemi segnici diversi. Paolo Pelliccia si diparte da un gesto che imita la scrittura, ma che è ben ancorato a una pratica espressiva, con la quale costruisce l’io a partire dalla ricorsività e dal riempimento infinito della superficie, tassellando il mondo di un dire inespresso. E, ancora con la scrittura, Silvia Stucki, disegna bambine e cornicette, oppure esegue stilemi floreali che hanno l'essenzialità di una cifra.  Con estrema delicatezza Alberto Vannetti sfuma le sue figure fino a stornarne la rotondità. Edoardo De Cicco fa passare in secondo piano il soggetto del disegno con un tratteggio energico, grazie al quale il piano risulta come squassato. La linea s’incarica di costruire il mondo e di disfarlo, in Rosa Pierno, e le figure vengono ad addensarsi su una superficie instabile come l’aria, che si espande, si ritrae e si scioglie, sì che la finitezza degli  oggetti ne dipende. 

Alcune opere si muovono esplicitamente sul crinale del confronto con la natura, come quella di Enrico Della Torre, che ha asciugato ogni riferimento, giungendo  a rastremare valori cromatici a indicazioni di presenza. In quest’area si situano anche le incisioni di Loredana Müller, la quale non rinuncia mai all’assunzione della natura quale dato di partenza, seguendo l’elaborazione percettiva con le sue ambiguità fino alla distillazione dell’immagine. E dall’osservazione degli esili e più lievi elementi naturali, Livia Liverani, giunge a tessere, coi suoi collage, racconti con rarefatte presenze.

La ricerca sul colore è, in Jonathan Hynd, tesa a mostrare pulsioni sul foglio attraverso centri vitali e zone di dispersione. Di certo il suo lavoro non è troppo distante dalle griglie espressive necessarie alla ricerca di Federico Palerma, il quale registra le ripercussioni interiori di ciò che guarda e di ciò che ode. Incline, a verificare le profondità intestine delle carte, è Samuele Montealegre, ove il segno materializzato esclusivamente col colore attraversa differenti strati, emerge e s’inabissa.

La figuratività piena, che non disdegna di guardare certe illustrazioni per l’infanzia di Alberto Vannetti, si espande nel colore e con il colore dialoga, ponendosi al fianco del lavoro di Naoya Takahara, in bianco e nero, per l’analoga  l’immediatezza del costrutto alla ricerca di emblemi e di simboli che mirano alla comunicazione. Con una parallela ricerca, Gianluca Esposito, si avvale del collage per costruire opere che hanno il sapore delle immagini fuori moda, di un significato fattosi enigmatico. Il gusto delle silhouette è nei lavori di Lea Contestabile, la quale attinge dal mondo dell’infanzia, dalle favole dei libri illustrati per tracciare il proprio mondo onirico. Clara Martelli Castellano fa esplodere il colore sugli oggetti: colpi di luce visibili solo a contatto con la materia. Più intimista è il lavoro, per la scelta di toni sanguinolenti e catramosi o di blu fondi scansionati da tacche nere,  di Marco Fioramanti.

Inoltre, l’uso della carta consente una libertà straordinaria per quel che riguarda le tecniche pittoriche: si va infatti dalla grafite, all’incisione, dal pennarello all’inchiostro di china, dall’acquarello alla tempera, dal collage alla calcografia, in un ventaglio di possibilità che sfonda il consueto, trasportando dall’altro lato dello specchio: dal reale all’arte.


apertura sabato 3 febbraio 2018 ore 18
3 febbraio / 9 marzo 2018

Hyunnart Studio: Viale Manzoni 85/87 00185 Roma Orario di aperture: martedì/venerdì 16/18,30 o per appuntamento 335 5477120 pdicapua57@gmail.com