lunedì 28 marzo 2022

Marco Furia sul libro di Lucetta Frisa, “Ho tante albe da nascere”, puntoacapo Editrice, Pasturana (AL), 2022

 


Inediti enigmi


Il nulla è pur qualcosa?

A che cosa si pensa quando si pensa al nulla?

Questi quesiti sorgono leggendo i seguenti versi della lucida raccolta “Ho tante albe da nascere” di Lucetta Frisa:


“Non penso a nulla. Qualcuno

penserà per me […]”.


Ora, prendere atto di un pensiero che si sostituisce al proprio è già, di per sé, un pensiero, particolarmente sincero per giunta.

Del resto, nessuno è del tutto privo di pensieri e nessun altro può pensare totalmente per qualcuno: siamo al cospetto qui, con evidenza, di una pronuncia dichiarativa e nello stesso tempo evocativa dall’indubbio valore poetico.

Anche il verso


“il mio mai nato futuro”


pare sulla stessa lunghezza d’onda.

Ogni vivente ha un non ancora “nato” futuro che, altrimenti, non sarebbe tale: siamo di nuovo in presenza d’una sorta di annuncio che non manca d’essere un richiamo.

Il futuro, in ogni modo, è anche possibilità di esistenziale predizione espressa per via di precise capacità descrittive:

 

“[…] Sarò fata elfo

o semplicemente creazione ibrida”.


Ripeto, modificandoli, i quesiti posti all’inizio:

Il futuro è pur qualcosa?

A che cosa si pensa quando si pensa al futuro?


Non mancano, poi, lineamenti narrativi dallo svolgersi inatteso:


“Al centro di un flutto

una pietra

si dice sia ghiaccio

ma poi all’improvviso

il ghiaccio si scioglie”.


Una pietra-ghiaccio che improvvisamente “si scioglie” nel sorprendere induce a riflettere su come le parole, specie quelle poetiche, sappiano aggiungere qualcosa d’inedito: la poesia, lungi dall’essere un di meno, è un di più?

E, se sì, secondo quali atteggiamenti linguistici?



Forse, alla nostra poetessa non interessa sciogliere enigmi, bensì proporne di sorprendentemente nuovi?

Senza dubbio, poiché la meraviglia è parte integrante di questa versificazione: tutto ciò che ci circonda, viene suggerito, può essere visto-vissuto in molte diverse maniere.

Ecco che cosa emerge, alla fine, dalla lettura di queste ben scandite cadenze, agili e ricche di significato, capaci di soffermarsi su singoli tratti ricavandone immagini il cui realismo viene stravolto rimanendo, però, in qualche modo tale.

Si legge all’inizio della raccolta:


“All’alba

gli uccelli cantano note stonate

consegnano una luce

tenuta stretta in gola

nella notte”.


Bene, pare proprio che quegli uccelli non siano più loro ma siano anche pur sempre loro.


                                                                                                             Marco Furia


lunedì 14 marzo 2022

Lucienne Peiry “Fernando Nannetti. Libro di pietra” Pagine d’Arte, 2021

 

Su un vero e proprio progetto ideativo è basata l’opera di Fernando Nannetti, il quale, rinchiuso nell’ospedale psichiatrico e giudiziario “Ferri” di Volterra, scava nell’intonaco del cortile interno con l’ardiglione della fibbia del suo gilet su una superficie di 70 metri di lunghezza in 9 anni (dal 1959 al 1961 e dal 1968 al 1973). Certamente, la sua è stata un’infanzia drammatica: cresciuto in un istituto di beneficienza, viene collocato, ancora minorenne, in un istituto psichiatrico, mentre si aggrava il problema alla colonna vertebrale. La diagnosi di schizofrenia, comprendente allucinazioni e deliri, determinerà la sua permanenza a vita in istituto. I suoi dati biografici vengono ripercorsi nella sua scrittura: <<collo, decollare, Cervi Forlanini Carlo Clinica 378, Neuropsichiatrico Volterra, Voltaire Nannetti Speciale>>.


Il suo diario in luogo pubblico registra la presenza di alcuni ospiti catatonici: egli scrosta la superficie circoscrivendo corpo e testa di coloro che sono seduti sulle panchine. L’attività procede superando una serie di difficoltà pratiche: procacciarsi altre fibbie perché si consumano presto, evitare il dileggio altrui, addirittura riscrivere su alcune porzioni che vengono nuovamente intonacate, ma soprattutto mettere a punto una grafia angolata, piena di cuspidi, non corsiva, dato che le curve non sono eseguibili nella durezza della malta e del cemento. Sappiamo che il concetto di Art brut, coniato nel 1945 da Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti o da ospiti di istituti psichiatrici, si riferisce a opere che sono prodotte al di fuori delle norme estetiche convenzionali. Ciò che è in gioco è pertanto un’arte in cui i loro autori traggono tutto (temi, selezione dei materiali, messa in opera, modalità espressiva) dal loro profondo e non da stereotipi dell'arte. Lucienne Peiry ha cura di inserire nel suo saggio, continui e opportuni parallelismi con l’Art Brut al fine di enucleare coincidenze e analogie. Ad esempio, la scrittura dell’artista Jean Cramphil intagliata con un coltello sul pavimento di quercia o quella di Costance Schwartzlin-Berberat che presenta lettere allungate fino al limite della loro riconoscibilità. 


La scrittura ideata da Nannetti sembra volontariamente paludarne la leggibilità. Essa è continua, non presenta alcuna punteggiatura e a ogni lettera si avvale di una diversa inclinazione, cosicché l’intero testo sembra affetto da un moto ondoso, dove ogni riga pare voler interferire con quella superiore o inferiore. La scrittura sulla pagina muraria non ha un ordine, non presenta pause, raramente assedia una figura (una chiesa, una stella, una nave, un elicottero, d all’autore stesso disegnati). Le maiuscole e i numeri fluttuano nello spazio, roteano senza ancoraggio. Le disegna capovolte e anche a rovescio. Ogni lettera alfabetica sembra così ignorare il legame con la precedente e la seguente e quasi non richiedere la decifrazione della parola intera. Tuttavia, le pagine esistono, egli le riquadra con una linea continua: hanno la dimensione media di 120 x 120 cm. Addossato al muro, Nannetti ha un obiettivo ben delimitato, un compito da eseguire, un horror vacui da eludere, che Peiry invita a considerare come un amor implori (amore del pieno) in ossequio al desiderio che anima colui che appone segni indefessamente per realizzare ciò che prima del suo atto non esisteva, visto <<dal punto di vista della creazione e del desiderio di espressione, anziché in una prospettiva patologica>>.

La non immediata leggibilità, poiché vedremo che le parole invece delineano una sorta di autoritratto sia cosmico sia tellurico, sempre spazialmente collocato, ubiquitario, favorisce un’esaltazione della comune origine della scrittura e dell’immagine, almeno nel senso dell’indistinguibilità originaria di segno e immagine nello schema di matrice kantiana.


Dalle logorree, da cui fu affetto mentre era nell’ospedale psichiatrico di S. Maria della Pietà a Roma, città nella quale nacque, col trascorrere degli anni, si chiuse in un mutismo che concedeva alla parola la sola incarnazione nella pietra, togliendole il primato del suono. Una parola priva di sintassi, ma che ha un legame con le altre parole basato sia sulla similitudine sonora sia sull’analogia semantica; nascono in tal modo neologismi, dai quali Lucienne Peiry ricostruisce identità, luoghi, livello di conoscenze ed esperienze e soprattutto evidenzia la creatività insita nell’attività straordinaria di Fernando Nannetti. Se dalle cartoline che egli scrive si evince la capacità di costruire frasi di senso compiuto, dal racconto che egli fa all’infermiere Aldo Trafeli si viene a conoscenza del fatto che da elettricista aveva collaborato con l’artista Gino Severini per l’impianto elettrico al Palazzo dei Congressi a Roma, facendo ipotizzare a Peiry che Nannetti avesse avuto modo di conoscere la poesia futurista, anche per certa nomenclatura che fa riferimento a onde elettromagnetiche e lancio di missili.


Il libro è corredato dalle fotografie di Pier Nello Magnoni, le quali testimoniano che il lavoro lapideo di Nannetti sta cadendo in rovina assieme alla struttura non più in funzione. Inoltre, altre immagini completano il volume: vi sono i pochi disegni salvati dai mille prodotti che meritano attenzione, anche per la distanza che presentano rispetto a quelli scavati sulla parete muraria. Quando la scrittura è presente appare ingabbiata da una griglia di linee orizzontali e verticali, quasi fosse ricostruito quel quadrettato tipico dei quaderni delle elementari. La scrittura soffocata, corsiva, è quasi completamente cancellata, schiacciata dalla griglia che la incasella. A volte, più che una grafia, sembra essere un tracciato cardiaco. Il foglio disegnato con una biro, in formato A4, presenta sempre una banda nera centrale che divide il foglio in due, nel senso della larghezza. Ne viene fuori l’idea di un quaderno, contornato da una cornice. La ripartizione spaziale guida anche la serializzazione delle figure, le quali sono disposte su righe regolari: stelline, croci, bandiere. Nella reiterazione, permane la fluttuazione della figura che ruota nella propria casella. La cornice, che i bambini usano fare nei loro quaderni della scuola elementare, sostituisce la scrittura e si accampa al centro. Il rapporto scrittura e immagine appare pertanto, in queste opere, rovesciato. Anzi, complice la quadrettatura, si potrebbe dire che le figure abbiano assunto il valore segnico di una scrittura in cui alle lettere alfabetiche sia stata sostituita integralmente l’immagine. 

Affascinanti, quanto problematiche, produzioni di tal fatta ci inducono a riflettere e ad accogliere e, dunque, a verificare con rinnovato impeto, la forza espressiva che dimora, imperterrita, nell’essere umano.


Rosa Pierno