giovedì 18 febbraio 2016

Manlio Monti e le edizioni de “Il Salice” di Locarno


                                                                     (Bernard Mandeville)
Le stampe che  Manlio Monti, maestro dell'incisione e pittore, realizza  per il Club 365 di Locarno, attraverso le edizioni “Il Salice”, scatenano un indomabile desiderio di collezionarle tutte, riducendo la distanza a quella che preferirebbe una talpa per introiettare le immagini, gustarne il colore, sentire l’odore della carta e degli inchiostri e soprattutto  verificarne l’accuratezza e la qualità.

La produzione di quest’appassionato artista svizzero, che si divide tra attività pittorica e attività editoriale, comprende anche la stampa di incisioni dedicata, da ben 19 anni,  al Club 365, sostenuto da una cinquantina di soci, che deve il suo nome al fatto che gli iscritti, al momento cinquanta, con un franco al giorno, per un anno, sostengono le incisioni, ricevendone tre. Le incisioni sono riservate esclusivamente ai soci. Le stampe hanno un formato di 30 x 40 cm, sono numerate, firmate dall’autore e accompagnate da una giustificazione e da una biografia dell'artista. La tiratura è strettamente limitata a sessanta esemplari. Ogni socio riceve lo stesso numero d'esemplare per tutte le incisioni.

La vicenda de Il Salice si può far partire nei primi anni ottanta, quando, in seguito a un corso d’incisione si costituisce un gruppo di persone vicine a questo tipo di attività. La prima cartella nasce nel 1988. L’interesse suscitato da questo lavoro d’esordio stimola Manlio Monti a dar vita alla casa editrice. La linea editoriale de Il Salice si sviluppa attorno alle ‘cartelle nere’, raccolte che abbinano sempre sei incisioni a un testo poetico. Nascono inoltre la piccola collana de I semi del Salice, libri di poesia e incisioni composti con caratteri di piombo e stampati a mano contenuti in un elegante cofanetto  e altre edizioni monografiche.  L'Atelier del Salice stampa solo incisioni in calcografia.

Così gli scriveva Michel Seuphor, artista e critico francese, intimo amico di Manlio Monti, in una lettera del 1989:

"Paris, le 10 mars 1989
Tout le monde admire votre Orphée, cher Manlio Monti. Il ne me quitte pas les mains. On cherchera en vain la plus petite faute dans ce travail. La simplicité y est l'alliée de la force. Rien n'y manque, rien n'est de trop. C'est un chef-d'ouvre de la dé licatesse discrète et du style. A mes yeux, il y a toujours une grande dépense d'art dans une technique achevée. J'estime que cela donne au monde une leçon lecon perpétuelle de la noblesse de l'artisanat.
Vous m'apportez une joie et une admiration qui ne se compare avec rien. Que pius-je vous offrir qui réponde à cela? qui vous fasse le même plaisir? Je cherche, je m'interroge et je ne trouve rien.
Con amore

Seuphor"

Manlio Monti seleziona  gli artisti in tutta Europa, guidato non da logiche mercantili o regionali, ma da un esclusiva valutazione estetica: quest’anno, ad esempio, saranno presentati tre incisori spagnoli. L’elenco messo insieme è davvero squisito: Achille Pace, Giulia Napoleone, Italo Valenti, Guido Strazza, Flavio Paolucci, Rosanna Carloni, Luigi Boille, Marina Bindella, Bernard Mandeville, Gianfredo Camesi, Jean Marie Balogh, Carlo Lorenzetti, Marco Mucha, Pierre Casè, Aldo Bertolini, Myriam Gesalaga.

Le edizioni de “Il Salice”  organizzano annualmente una giornata  presso l’atelier intitolato a Lucilla Caporilli Ferro alle Vattagne (Ponte Brolla) durante la quale i membri del Club possono prendere conoscenza, praticandole, delle diverse tecniche di incisione calcografica. Non solo una tana per amici, dunque, ma un luogo dove condividere una passione esclusiva.


                                                     
                                                                        (Flavio Paolucci)



      

venerdì 12 febbraio 2016

“Latte”, mostra di Iulia Ghita presso la galleria La Nube di Oort, Roma, 3-31 marzo 2016


Che l’infanzia sia punto di snodo determinante la formazione dell’adulto è solo una parte della verità - il tempo dell’infanzia essendo un tempo non solo di risorse specifiche, ma anche di una particolare modalità di osservare e di comunicare.  Vi s’intercetta, infatti, uno sguardo fisso come una lente incendiaria sugli adulti. Alla loro sensibilità e alla loro distanza critica, affilatissime, concentratissime, corrisponde, nell’elaborazione restituita  dall’artista Iulia Ghita, una rappresentazione formulata, diremmo, da un raggio laser, il quale vada disegnando sagome incerte nei profili, ma tuttavia precise nella sostanza, quasi monosemica.
L’età dell’infanzia configura uno stato dell’essere la cui concentrazione e assolutezza nelle relazioni rimarrà un marchio, come un primigenio stampo al quale l’adulto dovrà adeguarsi. Si può intendere in questo senso il lavoro dell’artista rumena in mostra presso la galleria La Nube di Oort, dal 3 al 13 marzo 2016, ma anche nel senso di una volontà di individuare tre stati del medesimo “essere bambini” esemplificati dallo sguardo di richiesta trepida, quello inconsapevole e quello di contrapposizione al mondo degli adulti.
Tre bambini-simbolo animano, in tre enormi, avvolgenti acquarelli, dunque, le pareti della galleria, immersi in una natura solo falsamente accogliente, in realtà estranea almeno quanto lo sono gli adulti caratterizzati dalla loro crudele indifferenza. La natura diviene segno ed è  più o meno accentuata in relazione alla rilevanza del rapporto emotivo con un altro essere. Persino la loro ingenua collocazione in un ambiente coloratissimo e affascinante, è problematica: se è uno dei mondi possibili in cui collocarsi è anche contemporaneamente il mondo dell’estraneità, forse il mondo in cui si è sospinti dalla disattenzione adulta, tout court. Quasi una sorta di ghetto. C’è una stretta dipendenza, pertanto, tra la serenità del paesaggio in cui i bambini sono serenamente immersi e la sua trasformazione in un paesaggio accidentato e pericoloso in funzione dello sguardo di disapprovazione - rancore e rimprovero - rivolto al mondo genitoriale.  Dall’infanzia dell’autrice, raffigurata sulla carta assieme a suo figlio, ci giunge un monito al nostro tempo attuale in cui la compresenza in noi stessi, del bambino che siamo stati, deve trovare quantomeno accoglienza insieme ai nostri figli reali, ai bambini in generale. Una ben diversa disposizione che può garantire un migliore ascolto ed evitare il dolore causato dall’incomprensione, la creazione di un baratro tra l’età adulta e l’infanzia.

                                                                                            Rosa Pierno



La Nube di OOrt – Via Pricipe Eugenio 60, Roma

Orario di apertura: dal 3 al 14 marzo 2016 da martedì a venerdì  17.30 / 19.30  e  dal 15 al 31 marzo 2016 per appuntamento (3383387824)

lunedì 8 febbraio 2016

Prefazione di Gilberto Isella a Bagatelle di Rosa Pierno

  
 Bagatella richiama il bagatto – prima carta dei tarocchi – e il bagatto viene inequivocabilmente associato al gioco e  all’astuzia. Giocare con la vita, col destino, o in ambito diverso realizzare il suono di una partitura (in tedesco spielen, alla lettera ‘giocare la musica’). Si pensi alle celebri Bagatellen  di Schubert e Schumann, dove sequenze ludiche stracolme di ‘materiale informativo’ dimostrano di poter brillare con spiccata efficacia sia pure entro forme ristrette. Miniature il cui senso – musicale o verbale, non fa differenza - si costituisce attraverso un processo idealmente teso all’aforisma, ovvero al noema-sistema aperto ed enigmatico per eccellenza.
   Anche Rosa Pierno gioca. Gioca, operando su brevi corpi verbali autonomi (ciascuno copre una lessìa oppositiva), con un’idea di testo promosso a organismo normativo-didascalico di scrittura. Ne evoca i dispositivi emozionali e razionali soggiacenti, lo assume come luogo dell’artificio guidato ma anche (o proprio per questo) luogo del conoscere. Intendo dire quel tipo di conoscenza che, qui più che mai, si acquisisce sperimentando l’irrisolvibile instabilità del senso: “Se la successione degli eventi si manifesta senza interruzioni o salti, non si deve per questo pensare che l’instabilità non operi anche sotto la superficie”. Nel corpo delle Bagatelle offerte a Opera Nuova (una prima serie è uscita nel n° 90/2015 della rivista “Anterem”) il soggetto impicito della scrittura ha qualche tratto che lo rende affine al Monsieur Teste celebrato da Paul Valéry. Ossia quell’esprit libre che “faceva variare, metteva in comunicazione e, in tutto il campo delle sue conoscenze, poteva tagliare e deviare, nominare ciò che non ha nome”. Spirito mercuriale, per il quale ogni testo è occasione di dis-chiusura, dis-velamento.
   Una costante di Pierno, messa già in atto in Coppie improbabili (2007), medaglioni dedicati all’arte pittorica dove ogni raffronto tra artisti interpellava l’inestricabile dilemma affinità/contrasto, è quella di porre la questione della dicotomia (di ogni dicotomia), in termini assolutamente problematici. La dicotomia, cavallo di battaglia della logica classica, s’impone con ironica neutralità nei titoli di ogni bagatella, e tuttavia nello sviluppo testuale, fantasmaticamente argomentativo, si decostruisce in varia misura. Il dogma della ‘messa a fuoco’ cede ai contraccolpi di ‘sfocature’ compatibili con la curva mobile del senso. Tra polo positivo e polo negativo passano fasci energetici devianti e destabilizzanti. Per sostenere la loro effimera identità, i poli si sfiorano, si contaminano a vicenda, si scambiano funzioni e valenze semantiche, cedendo l’uno all’altro particelle di materiale diegetico. Poiché qui la poesia, facile arguirlo, poggia su una virtuale dispositio di occorrimenti narrativi-drammatici, a diversi livelli di serendipità e/o suggestione memoriale, mentre l’impianto meta-trattatistico  (di cui ai giorni nostri è stato maestro Giorgio Manganelli) funge da apparato scenico. “Il protrarsi della rappresentazione porta inevitabilmente a sviluppo figure e temi, tuttavia raramente produce configurazioni che non siano mere permutazioni di fanti con re”. E se la rappresentazione non fosse appunto che un gioco di carte, con le sue aleatorie posizioni, sotto la regia di un invisibile bagatto?

                                                                                                                     Gilberto Isella




Bagatelle

Ripetizione/Variazione

La ripetizione è tollerabile nella variazione e la variazione è sopportabile nella ripetizione. L’amorfia è in ogni caso esclusa per la messa in campo di artifici atti a ritardare la decisione.  Invertendo marcia, non si avrebbe cambio di direzione. Sarebbero seriali anche la caduta e l’ascesa. Il cambio di scala, consentendo di creare miniature, ridimensionerebbe il problema. Strizzando gli occhi, seguendo le volute cromaticamente vivide e smaltate, ci si dimenticherebbe del libro, che pure narra di una storia secolare. Esiste, tuttavia, una variazione galoppante che giunge fino alla conclusione e impedisce che la forma si disperda in molteplici finali. Cadrebbero, pertanto, le discordanze, e tutto diverrebbe coerente. Se, invece, la commedia si riducesse a due sole battute, anche se intensissime, indicatrici di una desolata affezione, non si potrebbe che continuare fiaccamente fino allo scontato epilogo.

Determinato/Indeterminato

Tanto più la trattazione è incompleta tanto più essa deve apparire rigorosa. La rappresentazione della figura principale, dove l’elaborazione lo richieda, porta in regioni sconosciute, delle quali, nondimeno, si desidera fornire un’anticipazione, anche nella ricca veste di preambolo illustrato. Seppure non si giunga mai al cuore del racconto, il motivo si sviluppa a poco a poco come un pane messo a lievitare. Per movimentare il resoconto si può aggiungere il solito ingrediente: l’opposto del buono, il contrario della cattiva. Fantasie, nemmeno perverse, non mancheranno di deturpare l’idea originale.

Intimo/Estraneo

I pensieri inespressi non hanno concatenazione, si ammucchiano senza stratificarsi, si mescolano senza fondersi. Sembrano alla fine provenire da un luogo esterno, da una rappresentazione scenica in cui siano coinvolti attori non previsti dalla sceneggiatura. Come note di passaggio, generate dall’appoggio ad altri corpi, paiono anelli ai quali manca per sempre una catena. L’estraneo si configura come personaggio mitico, egli non ha alcuna relazione con la massa di detriti che simboleggia il personaggio principale, il solo a essere dotato di un io lirico. Anche  accostando a tale idolatrato soggetto la presenza di un amante, non si ottiene un’armonica tolleranza tra le parti.

                                                                                                          Rosa Pierno


(pubblicato nella rivista Opera Nuova, Lugano)

domenica 31 gennaio 2016

Gilberto Isella su "Grandangolo" di Marica Larocchi, Joker, Novi Ligure, 2015

  Di Marica Larocchi – poetessa, critica e traduttrice dal francese (Baudelaire, Rimbaud e Flaminien in primo piano) avevo apprezzato in particolare la raccolta Le api di Aristeo (Book, 2006). Ne avevo registrato  una domanda, quasi un auspicio: “Sarà/ quest’occhio fiacco/ il faro di un vivaio più fiero?”. Ora con l’uscita di Grandangolo la sfida al ‘labirinto del vedere’, adombrata in quell’interrogativo, acquista  nuovi accenti. Già il titolo conduce il lettore per direttissima nella sfera visiva. Nel visibile, intendo, quale frutto poetico di una scienza ottica nietszcheanamente ‘gaia’, proiettatata qui su un “arabesco di vene astrali”, su filature veggenti la cui genesi è da ricondurre in ogni modo  al labirinto-‘vivaio’ degli affetti corporei (“vene affilate per/ fendere la nebbia/ degli affetti”). L’istanza rappresentativa sarà per forza di cose  multiprospettica, sottratta per gradi ai condizionamenti del logocentrismo, e lubrificata da quel “seme di manzia” primario (o logos spermatikos) incompatibile con griglie semiotiche costituite. Un tappeto verbale che si svolge, a patto di assumerne l’efficacia espressiva su ‘un’altra scena’, come luogo figurale espanso, sussulto di topologie cosmiche alla ricerca del loro focus: “Già spremuti/ dalla siringa cosmica […] sapremo captare ancora/ l’angolo della visione/ nel fuoco che riposa/ verticale sull’accordo/ in bilico”. Al centro di questo accordo in bilico tra verbo e visione sembra stagliarsi, ombelico del soggetto, la pupilla regina.
   In ogni pupilla infatti – organo del cuore - nuotano “virgole” e “lembi di pagelle stinte”, il cui  movimento contribuisce a dar vita, di poesia in poesia, a un vortice di torsioni, giunture e disgiunzioni, colpi d’ala e contraccolpi. È la dinamica, detto in breve, che l’incontro dialogico (seppur fantasmatico) tra sistemi segnici di diversa natura e specificità presume, e di cui si fa carico, entro il  fuoco metrico riverso sull’asse verticale, la preponderante strofa lunga. Ma dove il vero propellente risiede nel costante lavoro assegnato alla metafora – artefice di interscambi in questo universo del tracciabile, potenziatrice della  schermaglia amorosa condotta dall’ élan vital con la pagina bianca  (le “fiere assenze sulla pergamena/ appena illuminata”) – e a consimili tropi di straniamento. Sarà ancora la metafora, figura per eccellenza del transito, a scandire paradossalmente i limiti, le linee d’ombra da non oltrepassare, affinché il poiein  non ceda alla tentazione di farsi  ‘esubero’ o puro spreco: “Per le papille rimaste/ a gustare la fine degli/ alfabeti, ecco di nuovo/ la tortura dei verbi, via!”.
    “Via!”, tra papille e pupille, attraverso campate testuali ‘a grandangolo’ dove il linguaggio verbale, nel suo scindersi fino a lasciarsi penetrare dall’altro da sé, “interiorizza il figurale nell’articolato”, come direbbe Lyotard. Ma se l’occhio irrompe nella parola è anche grazie al gesto poetico che si ripromette di riparare (almeno parzialmente) quella scissione, attizzando del linguaggio l’hybris e il furore oltrante, sfruttandone le incontenibili ambizioni sinestesiche in vista di un, ipotizziamo, geroglifico orizzonte di salvezza (“Pure Lei/ leva braccia e pupille/ verso la prua dell’orizzonte”). A venir rimessi in circuito, in simile circostanza, sono materiali allegorici di squisito timbro baudelairiano.
   Poetare al fine di inludere docendo? In un certo senso sì, per Marica. L’illusione, in Grandangolo (“illusorio liquore”) è quella di realizzare un vortice scenico - portentosa fiera dell’ibrido e della metamorfosi – esperito il quale l’io poetico possa riaffacciarsi sulla scena del logos. O per mezzo di paradossali sottrazioni e denegazioni (“un’ampia foglia di cielo/dove ogni grafia si è/ già impressa e dissolta”) oppure, col supporto di aneliti espiatori,  risalendo “la rampa dei sensi”, dunque con quel viatico di dolorosa libido (“sillaberai ogni/ frammento di sospiro/ e d’osso”) sottesa alla scissione e al suo contraddirsi. “Amplessi virtuali”, avverte l’autrice, appercependo la cattura di “qualche chimera geniale”. Saranno appunto chimere (corpuscoli dell’io, tuorli d’anima, dense linfe assurte a “mia calligrafia”, sillabe sibilline, non di rado stringhe di “bypassata memoria” entro un groviglio di ipotiposi incombenti) a configurare – nella spasmodica caccia ai punti d’innesto - le gaudiose quanto controverse nuptiae di parola e immagine, coppia di riferimento per ulteriori ricognizioni tattili o olfattive. Perché in definitiva è nei sensi, in sensi peraltro irrigati con dovizia  da rugiade platoniche, che si celebra l’enigma del dire per figure.
   “Ma sì, fissiamo/ prudenti l’obiettivo/ di sbieco”; o, regolando inclinazioni e aperture, “visioni che fremono/ in parata per obiettivi/ sempre aperti”. Visioni tese a circoscrivere, motu proprio, una singolare mitologia che trova nascita e abbrivo nel corpo.  Mentre la parata, da supporre entro ellissi e spirali, concerne il soma nell’atto di rifocalizzare i suoi attributi ridotti sovente a grumi e molecole (“l’estasi delle molecole”), per mescolarli poi alchemicamente e proiettarli in sempre più eccentriche orbite visuali, verso i territori dell’origine. E proprio nella preverbale chôra semiotica - secondo l’accezione di Julia Kristeva - va a delinearsi l’orizzonte della parola, sia essa rantolo o alleluiah. Non importa se, in un primo tempo, questo orizzonte coinciderà con gli anfratti oscuri  dell’organismo,  fino a toccare il ‘grado zero’ dello scheletro: “ Servitù d’ossa: eredità/ cui mi legano pieghe/ di sillabe e rantolanti/ motti”. Lì sta in effetti il suo misterioso imprinting.
   Lasciando intravedere una sfida a occhio-di-pesce con l’incognito, il grandangolo ci sembrerà un “reziario” in grado di  catturare l’‘obiettivabile’nel suo illusorio insieme. Una chimera, di nuovo. Parata di parvenze, entità riflesse nella parola costantemente in transito, sottratte a fatica “dall’umile cancrena del tempo”, entità che si compongono e scompongono in virtù di qualche astrale congegno,  risagomato magari nell’io sotto forma di  “golem che/ il tornio ha così bene/ levigato”. Questo io golemico ha un desiderio: recuperare l’astro perduto. Gli basta, per rinfocolarlo,  percepire “l’onda zufolare  nella conchiglia incrostata”, o ascoltare un invito come questo: “Coraggio: punta e slaccia/ quel tuo grembo d’ossa”. Un grembo di tutt’altra specie è in attesa. L’importante, come auspicava Baudelaire, è sciogliere l’àncora, elevarsi “au-dessus des étangs,  au-dessus des vallées…”.
 
Su, vita mia,
leviamoci da questa
pozza limacciosa!
Salpiamo per rotte
limpide e sconosciute
senza bagagli, privi
d’identità, di nome:
[…..]


                                                                             Gilberto Isella

sabato 23 gennaio 2016

Antonio Rossi “Brevis Altera”, Book editore, 2015



Una geografia domestica e industriale, quella di Antonio Rossi in “Brevis Altera”, Book editore, 2015, attraversata da distorsioni temporali, le quali agiscono smaterializzando gli oggetti, anche da un punto di vista semantico. Il senso, almeno, ne risulta alterato, si esce dal conforme, dall'abitudinario. Ciò che è asettico o scontato o degradato nella sua funzionalità diventa estraneo, o meglio, lo diviene in base al fatto che la sua riconoscibilità non  è più immediata. Le "finestre tortuose", il "telaggio da sollecito / urto svelato" se hanno il compito di farci notare tali oggetti, hanno come non riposto fine di mostrarci la sconnessione dei nostri scenari di riferimento. In senso lato, il pericolo denunciato è di abitare un mondo troppo supinamente recepito, mentre il risiedere dovrebbe essere l’oggetto di un progetto. Abitare non è funzione che non includa il concetto di collettività e di storia. Oggetti sotto straniante luce divengono meccanismi in grado di produrre senso, di attivarsi affinché con "vortici opportuni e sparpagliato / soffio lontano sospingano il piombo / ovunque depositato".

In ogni singola poesia troviamo una serie di parole che delineano una immagine precisa, fanno riferimento alla storia. Ma quale tipo di storia e quale meta essa si prefigge? Quasi uno scopo improbo riuscire a dirimere la questione e trarre un responso dai "Pochi disegni sull'acqua / sospesi forse davvero bastano". È, tuttavia, la poesia ad assumersi l’onere della prova: essa, infatti, si contrappone alla storia, aristotelico retaggio, per una capacita più ampia e profonda di far parlare i segni. La portentosa posizione dell’aggettivo che precede quella del sostantivo, ad esempio, contribuisce a scollare il significato dal significante, quasi una leva che sollevi il coperchio, che sveli il meccanismo:

Lama e vertice
quale propensa superficie
con esattezza incidere
o lenire senza che uno strato
danno subisca o sfregio
così che intatto rimanga
nella frequente penombra
forse già  sanno.

E, dunque, niente è innocente: vi è una sorta di sospetto, di dubbio che esala come veleno dalla superficie materica delle cose, oltre che dal linguaggio. Doppiezza di ogni elemento,  tecnologico o semplicemente funzionale, che, secondo il doppio movimento adorniano, solleva una contraddizione ineludibile. Così l'utensile si mostra chiazzato e morbido, in un irrisolvibile paradosso. Le poesie, sapientemente costruite, disegnano una sorta di indovinello, quasi una mitica reminescenza, su ciò che configura l'ambiente umano, ma ora lo sappiamo, esso non è neutrale, sospinge all’azione  o all’apatia che sia. Asserito che il tecnologico, in relazione alla natura  è l'innaturale, anche la natura non è immune dallo scatenare un venefico dubbio:

Fronda di rovere o scalfita
betulla e sempre avida nervatura
di clematide o florida pianta
Infestante da oscuro granello
a insetto divoratore o cospicua
muffa sfuggito potranno forse
aver principio.

Forse, il “disancoraggio”, diviene una risorsa al fine di divellere la continuità per spingere verso la riconquista di un senso maggiormente adeguato, coincidente con il  proprio ritrovarsi. In ogni caso è la mossa da cui partire per rompere la scena illusoria che incatena in uno stato acritico.

Dove una linea sconfini
forse da una fune impigliata
o colore fuori tempo
si saprà; e se la meta
era quel procedere in sospensione
presto surrogato da inezia
o distrazione può darsi
ciò sia imputabile
a una smarrita fattezza
nel pulviscolo ammutolita.

La relazione oscillante e irrisolvibile tra scopo e meta delinea una scenografia pulviscolare, degradata o almeno non  a fuoco. Un  reticolo di specchi, la presenza di qualcosa da decifrare, il dialogo tra originario e culturale costringe Rossi a utilizzare il pensiero come strumento a cui ancorarsi: “e di ogni fessura o pensiero / fai tuo presidio”, dove proprio il disancoraggio è da superare. Il poeta svizzero, in un incanto fissato in un istante, compone il gesto-limite per eccellenza, il quale mettendo a nudo, maschera ciò che svela.  Numerose divengono le assonanze con l’Antica Grecia:  dallo specchio, all’enigma, in una scenografia in cui la visibilità ha un ruolo centrale. Riflessione ed enigma sono le facce di una medesima medaglia, ove se l’oggetto ha la caratteristica di sfuggire alla presa, anche il soggetto sfugge, o meglio, inserisce la sua invisibile presenza nella visibilità del guardato da se stesso.

Il disancoraggio, dicevamo, produce enigmi, recidendo il senso dal significante, quando si tratti di parola, o la funzione dall'oggetto, oppure provoca una sorta di paralisi: non si sa come collocare o come servirsi delle cose: "un oblò spaiato un mocassino", "su un innocuo traliccio una concisa luminarie. Una “misurata presa", d'altronde, offre la natura: rispetto a essa, il soggetto non riesce né a costruire un proprio ruolo né a sentirsi parte integrante. La descrizione coinvolge il soggetto in quanto percettore; impossibile per lui tirarsi fuori: invischiato dai suoni, dagli odori, riconosce ai degradati ambienti industriali ancora valore di scenario, quasi per un’incoercibile capacità di potere costruire, persino nei più refrattari luoghi, una porzione di intimità. La natura, rappresentata da ben miseri steli, non demorde, resta simbolo di un rapporto necessario, anche se momentaneamente disarticolato. Di una pianta si può ignorare il nome scientifico, ma non la fondamentale relazione. Lasciamo ad Antonio Rossi l’ultima parola su che cosa si possa trarre dai suddetti elementi, indicando al contempo il movente della scrittura, che è sicuramente una ricerca, un invito a una nuova costruzione:

Senza ostacolo si giunge
fuori mano per scoprire
lamine  desuete o un refe
strappato e oltre tenue
discesa ornamenti e fogliame
da maltempo trascinati
nel sottinteso luogo dove
indugio non è pensato.


                                                                                    Rosa Pierno

lunedì 18 gennaio 2016

Bertrand Dorny e Bernard Noël “Alberi” edizioni Pagine d’Arte, 2015


In edizione bilingue, italiana e francese, nella collana ciel vague, le edizioni Pagine d’Arte ci riservano un’altra splendida opera grafica Alberi con testi poetici di Bernard Noël e opere fotografiche di Bertrand Dorny, anche se difficilmente si accorda a queste ultime l’appartenenza alla produzione fotografica, travalicando esse nel disegno.

Nato dapprima come libretto d’artista tirato in sette esemplari è stato poi ripreso da Matteo Bianchi e Carolina Leite, i quali presiedono alle scelte editoriali di Pagine d’Arte, per essere offerto a un pubblico più vasto. Nonostante ciò, l’edizione stampata riesce ad offrire, per cura e raffinatezza, la sensazione creata da quella originale, nella quale le poesie erano redatte a mano e le foto incollate su carta.

Il titolo originale dell’opera è emblematicamente Ecrire dans l’aire ed è del 2013. Le immagini si situano ambiguamente tra fotografia e disegno, quasi un omaggio al metamorfismo che, di fatto, è operazione che resta rara nell’ambito delle opere d’arte (si pensi al collage nei quadri cubisti o all’iperrealismo in cui la pittura si finge precisa come il risultato del mezzo fotografico).  I rami degli alberi paiono di grafite e s’inerpicano negli spazi bianchi quasi forati dal lucore della carta, fingendo, con le lacune nella grana, i pori, appunto, del foglio.

Il cielo oppone i suoi segni voluminosi e morbidi agli scheletrici rami, spogli e puntuti. L’artista colleziona, con ogni immagine, varie modalità di contrasto della scala dei grigi. La medesima opera, quindi, è replicata presentando di volta in volta un cielo assente, lievemente mosso o grevemente drammatizzato, mentre i rami e il tronco acquisiscono una maggiore scabrezza (i giochi della luce contribuiscono a donare volume al fusto) inversamente proporzionali a ciò che avviene sullo sfondo.

Il testo poetico, che trae la propria ragion d’essere dal dialogo con le suddette opere visive, ne risente e lo declama a piani polmoni, anzitutto costruendo la rete di relazioni che legano l’albero agli altri elementi, ma intendendoli metaforicamente come scrittura e con ciò ponendosi subito sul crinale che denuncia la propria operazione come metatesto: “linfa e senso vi mescolano terra e aria / il nostro pensiero ha perduto questo sapere / cerca l’accordo che lo sappia rinnovare  / ma l’orizzonte muta ancora di posto”  intendendo con questo che la percezione e la consapevolezza dello scarto con l’immagine resta faglia aperta e problematica.


                                                                             Rosa Pierno

mercoledì 13 gennaio 2016

Gilberto Isella “L’occhio piegato”, Book Editore, 2015


Le considerazioni che oggi riguardano l’equilibrio o la supremazia del potere, declinato secondo i concetti di consumismo, massa, civiltà globalizzata con i suoi luoghi di esercizio, il supermercato, e persino il privato, rispetto all’autonomia del soggetto, sono rivoltati e rinnegati da un Gilberto Isella incoercibile all’appiattimento del singolo, alla sua supina definizione, in quanto ben consapevole dell’impossibilità di addivenire a una soluzione delle contraddizioni con termini che saldino le coppie antinomiche, convinto, anzi, dell’assoluta necessità di negare tale soluzione. Nella contrapposizione di origine/meta, individuo/società, trascendenza/immanenza, sono conservate e anzi innescate le potenzialità dello scontro, secondo la direzione percorsa da Adorno in Minima Moralia. Un libro, L’occhio piegato,  dunque, etico, con una forte propensione costruttiva.
Se persino il glabro petto di un volatile può dar luogo alla stura del vaso poetico, ci sentiamo, leggendo, affrancati dall’universalità del concetto di globale. Come vasi comunicanti, il travaso dalla voce poetica all’afflato partecipativo del lettore si rivela catartico: valga come prova che se la poesia non cambia il mondo, non gli consente nemmeno di sedere sugli allori. Nessun luogo è quello che sembra. Il valore della percezione è già valore creativo. Persino stimolante: nei freddi corridoi delle merci ordinate sugli scaffali si aprono porte di plurime dimensioni, dove il potere della mente resiste a ogni oltraggio e a ogni passo mette a punto strategie di diffrazione, strategici scarti dal consueto.  Le merci, poi, sono traini di veri e propri viaggi sensoriali che affiorano sullo specchio della coscienza di sé, proprio a dispetto e sullo sfondo del  degradante luogo: “Da stoccaggi  l’arte evacua asprezze / vagheggiandovi gli alvei del miele / /  Nel balsamo dondola la tigre / per un velo che sente tracimare”. Il poeta crea una  collisione/collasso tra merci impilate e certe installazioni di arte contemporanea mostranti l’estrema omogeneizzazione dei linguaggi e se ne appropria per creare un luogo inusitato in cui la merce appare cambiata di segno. Non è solo critica, al modo in cui siamo abituati dalla scuola di Francoforte: è un atto creativo, quello stesso che se Adorno non poteva proporre fino in fondo a causa del fatto che pensava che l’arte fosse una sovrastruttura e che quindi non potesse cambiare lo status quo, Isella invece propone: atto creativo inteso nel suo potenziale fattuale, e quest’ultimo accostamento non sembri utopico. L’arte cambia le cose, perché cambia le prospettive interpretative da cui dipendono i nostri atti, la nostra disposizione verso il mondo. Non si tratta semplicemente di astrarre, nel passaggio di scala tra individuo e società, perché il quid che si perde è esattamente quello che non può essere tenuto sotto controllo. La funzione del poeta-intellettuale è questa: allargare la frattura, mostrare l’inconciliabilità dei concetti presi dal lato del singolo e dal lato della collettività e servirsi di entrambe le sponde per puntare i piedi e darsi lo slancio, ricreando ogni volta una nuova pedana di scontro.

L’uroboro clientesco
accerchia la casa e ringhia

Consegna macerie di muscoli al taglio

Ma la coda è a sua volta circondata
da una cinghia che in monitor s’allunga
e ha gli occhi di bue dell’erbavoglio.

Credere soltanto a una contrapposizione è letale: i concetti sono innestati l’uno nell’altro, frastagliati e intrecciati al punto da risultare indistinguibili, eppure, ciò nonostante, antagonistici e irrisoluti. La polimorfia è insediata nel cuore stesso del processo d’interpretazione del reale: ‘succiaromi’, ‘beccuzzato’,  ‘similbianco’, e riverbera i suoi effetti nelle ulteriori due sezioni de L’occhio piegato, imperniate una sulle banche, Migrante in Ade, e l’altra sulla libido censurata: Censuralbe.   Il linguaggio più algido, costruito con apparente logica (“geometrica legge è neutrale stilema”) o simbolico, avendo avuto cura di svuotarne il senso (“rostro del salmo / punteruolo // lì si smarrisce l’accordatore”) rende palese che il linguaggio è, appunto, strumento essenziale nella lotta a una lettura dogmatica e rassegnata.

Prima che l’arco d’angelo
Abbandoni il palato
Uno sperone d’ombra
Deformi il vagíto

Risuona l’eco delle parole di Benjamin, che avevamo già ritrovato nel tema della merce-feticcio, nella sua subdola e poliedrica valenza, in cui l’immagine – e  si ricorda che la poesia di Gilberto Isella è essenzialmente  visionaria – ha un ruolo interscambiabile nel processo di ricreazione del dato reale. E’ strumento di riassemblaggio.  Non solo, dunque, le parole aprono le cataratte del cielo semantico, ma anche le immagini fungono da meccanismo che fa scattare serrature: “Da sempre n’importe où  / sotto vuoto l’immagine  /  la rete sua vinta / l’oculo a pieghe”. Non distante quello sfondamento del finito che Giordano Bruno aveva inaugurato e che trova esplicita citazione nei versi, quasi una spolverata che indora il tutto coi suoi venefici strali:  “inabissi la bestia nella luce”, “e la bestia vola”  e che vale come dichiarazione di poetica: l’immaginazione può tutto e il contrario di tutto.

                                                                                    Rosa Pierno

giovedì 7 gennaio 2016

Pierre Boulez “Pensare oggi la musica”, Einaudi, 1979


Un libro importante per la critica musicale è quello  tagliente e fermo di Pierre Boulez Pensare oggi la musica, datato 1979, capace di rispondere  non soltanto alla domanda su quale funzione debba avere la critica, ma a quella molto più scottante di quali oggetti e con quali modalità la critica debba svolgere il suo compito e il compositore fondare il proprio oggetto estetico.   

Se, Considerazioni generali, può considerarsi capitolo introduttivo a tratti giocoso, l’ultimo, Necessità di un orientamento estetico, vede calare un netto colpo di scure su imprecisioni e posizioni dimidiate, portando a isolare nella radura così disboscata, l’indissolubilità di forma e contenuto e cioè tra tecnica e concezione estetica e mostrando quanto non si possa dare nell’opera compiuta nessuna struttura che possa da sola esautorare il prodotto creativo senza al contempo considerare il senso della operazione che si sta attuando.

Non è banale tale assunto, il quale, fra l’altro, traina con sé una serie di corollari che definiscono il ruolo del tutto fuorviante della spontaneità e dell’istinto, di matrice romantica, contro la riflessione  mentre si caldeggia una ragionata adesione a un posizione teorica scelta con ponderazione. Non si può aderire per la sola forza di una preferenza emotiva a una tecnica di cui non si sia preliminarmente sceverata la validità formale e altrettanto vale per la posizione estetica.

La realizzazione, dunque, come rapporto di pensiero e tecnica, che Boulez vede vacillare nella produzione dell’epoca, aperta a uno sperimentalismo privo di costrutto o troppo assecondante rispetto alla vulgata del momento. Il compositore fa esplicito riferimento all’assunzione all’interno della tecnica musicale delle caratteristiche di altre discipline, la quale mostra quasi una sfiducia, in alcuni, per gli “aspetti morfologici” o un’allergia a ogni concetto estetico, in altri. La scissione fra forma e contenuto, presente a suo avviso in molti suoi contemporanei, provoca per Boulez danni irreparabili.     

Nemmeno la storia riesce a vagliare esiti maggiormente validi: “L’aggressività dello sguardo storico rende poco; si riduce spesso a giudizi umorali, psicologicamente interessanti ma privi di generalità: destinati dopo tutto a rimanere <>!”. Occorre “riconoscere che l’ascendente di certe opere, di certi compositori non è forzatamente immediato”. Analogamente, non è possibile avere la consapevolezza di tutti gli aspetti del presente anche nel momento in cui lo si sia abbracciato nella sua totalità, per ciò è d’uopo un processo elaborativo che verifichi la validità di taluni elementi in relazione alla propria attività.   

I procedimenti di scrittura musicale sono mezzi “perfettamente adatti all’invenzione di un dato compositore”. È necessaria “una conoscenza reale delle leggi grammaticali alle quali obbediscono” al fine di non cadere nel manierismo. “Qualsiasi riflessione sulla tecnica musicale deve trarre origine dal suono, dalla durata, dal materiale sul quale lavora il compositore”. E come esempio, Boulez afferma che non vi è alcuna garanzia che certe forme di permutazione matematica o di forme cifrate  – le quali forniscono una guida  rassicurante, ma non creativa – abbiano validità qualitativa se immessa nella struttura sonora. Allo stesso modo denuncia carenza immaginativa in chi introduce concetti filosofici all’interno del fatto sonoro. Soltanto “la padronanza del linguaggio implica una conoscenza tecnica approfondita” al fine di dominarlo e non soltanto di fornire idee al suo impiego. 

La musica merita “un campo di riflessione che le appartenga in proprio”. Gli apporti esterni possono funzionare per analogia e “non con un’applicazione letterale priva di fondamento”, pena il ricadere nell’arbitrario. Il fenomeno musicale se richiede un pensiero specializzato, richiede altresì l’analisi del suo stile, tenendo ben presente che è pressoché impossibile “voler analizzare in un unico modo il processo della creazione”, il quale, fra l’altro, necessità della giustificazione collettiva.

Boulez affronta vari nodi teorici: il problema della tradizione, del dialogo tra ragione e passione, del ruolo fecondo del dubbio e del sostegno appassionato alla ricerca, accendendo poderosi fari sul “potenziale di incognita racchiuso in un capolavoro” e sulla necessità di uno specifico pensiero musicale.


                                                                         Rosa Pierno

sabato 2 gennaio 2016

da "Le carte dei poeti", mostra al Museo Civico Villa dei Cedri, 2015


Enrico della Torre, Materie, 1990, pastello su carta




Gilberto Isella, Materie,

Quella tavola azzurra,
che antiche piste deduce
da un orizzonte finito in guazzo

Ora esso è lì, col gioco luminoso
dei suoi scarti
aggrazia due scimmie speculari
ne salva i profili in pure essenze

Per la materia
è tempo di salpare
verso l’arbitrario più nascosto

Portico scavato sotto strada,
oscura brezza in trasparente libagione

E per giri di aperto e chiuso
come per catturare porte
un soffio
il più-che-terrestre
sposa il gesto dell’imitante




Sergio Emery Ville venete, 1983 tecnica mista su carta



Rosa Pierno, Ville venete

Con le bambole di pezza si tiene ancorato alla terra, a essa legato senza remissione. Bambola è simulacro di sé, oggetto di scambio che salva entrambi i contraenti: uomo e sistema. Bambola ti sta affianco, ti assiste nel viaggio, ti sostiene crudelmente, digrigna i denti, ti porge, come serpente, realtà adulterata e monca. Ti insinua in scorci parziali, artefatti, in paradisi artificiali. Bambola è viatico per attraversare la desolata landa di polvere e fango o galleggiare sull’acqua con lo sguardo rivolto alla sgombra celeste volta.   Il nero, appesantendo con la sua zavorra le lievi parti chiare,  sottolinea l’estraneità delle membra, distanti dal corpo vivo, che dall’angolo osserva lo spettacolo. Eppure, esse ancora afferrano la mente, trainando in vorticosi moti, sfondando l’immobilità della materia inerte. Ignude, e coi cerchiati occhi, prive di arti,  vitalissime e smorte, del medesimo colore della cenere, s’involano come libellule in un promesso cielo ove il pensiero alligna e non demorde.




Dal catalogo “Le carte dei poeti”, mostra al Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona, 2015, edizioni Pagine d'Arte