domenica 31 gennaio 2016

Gilberto Isella su "Grandangolo" di Marica Larocchi, Joker, Novi Ligure, 2015

  Di Marica Larocchi – poetessa, critica e traduttrice dal francese (Baudelaire, Rimbaud e Flaminien in primo piano) avevo apprezzato in particolare la raccolta Le api di Aristeo (Book, 2006). Ne avevo registrato  una domanda, quasi un auspicio: “Sarà/ quest’occhio fiacco/ il faro di un vivaio più fiero?”. Ora con l’uscita di Grandangolo la sfida al ‘labirinto del vedere’, adombrata in quell’interrogativo, acquista  nuovi accenti. Già il titolo conduce il lettore per direttissima nella sfera visiva. Nel visibile, intendo, quale frutto poetico di una scienza ottica nietszcheanamente ‘gaia’, proiettatata qui su un “arabesco di vene astrali”, su filature veggenti la cui genesi è da ricondurre in ogni modo  al labirinto-‘vivaio’ degli affetti corporei (“vene affilate per/ fendere la nebbia/ degli affetti”). L’istanza rappresentativa sarà per forza di cose  multiprospettica, sottratta per gradi ai condizionamenti del logocentrismo, e lubrificata da quel “seme di manzia” primario (o logos spermatikos) incompatibile con griglie semiotiche costituite. Un tappeto verbale che si svolge, a patto di assumerne l’efficacia espressiva su ‘un’altra scena’, come luogo figurale espanso, sussulto di topologie cosmiche alla ricerca del loro focus: “Già spremuti/ dalla siringa cosmica […] sapremo captare ancora/ l’angolo della visione/ nel fuoco che riposa/ verticale sull’accordo/ in bilico”. Al centro di questo accordo in bilico tra verbo e visione sembra stagliarsi, ombelico del soggetto, la pupilla regina.
   In ogni pupilla infatti – organo del cuore - nuotano “virgole” e “lembi di pagelle stinte”, il cui  movimento contribuisce a dar vita, di poesia in poesia, a un vortice di torsioni, giunture e disgiunzioni, colpi d’ala e contraccolpi. È la dinamica, detto in breve, che l’incontro dialogico (seppur fantasmatico) tra sistemi segnici di diversa natura e specificità presume, e di cui si fa carico, entro il  fuoco metrico riverso sull’asse verticale, la preponderante strofa lunga. Ma dove il vero propellente risiede nel costante lavoro assegnato alla metafora – artefice di interscambi in questo universo del tracciabile, potenziatrice della  schermaglia amorosa condotta dall’ élan vital con la pagina bianca  (le “fiere assenze sulla pergamena/ appena illuminata”) – e a consimili tropi di straniamento. Sarà ancora la metafora, figura per eccellenza del transito, a scandire paradossalmente i limiti, le linee d’ombra da non oltrepassare, affinché il poiein  non ceda alla tentazione di farsi  ‘esubero’ o puro spreco: “Per le papille rimaste/ a gustare la fine degli/ alfabeti, ecco di nuovo/ la tortura dei verbi, via!”.
    “Via!”, tra papille e pupille, attraverso campate testuali ‘a grandangolo’ dove il linguaggio verbale, nel suo scindersi fino a lasciarsi penetrare dall’altro da sé, “interiorizza il figurale nell’articolato”, come direbbe Lyotard. Ma se l’occhio irrompe nella parola è anche grazie al gesto poetico che si ripromette di riparare (almeno parzialmente) quella scissione, attizzando del linguaggio l’hybris e il furore oltrante, sfruttandone le incontenibili ambizioni sinestesiche in vista di un, ipotizziamo, geroglifico orizzonte di salvezza (“Pure Lei/ leva braccia e pupille/ verso la prua dell’orizzonte”). A venir rimessi in circuito, in simile circostanza, sono materiali allegorici di squisito timbro baudelairiano.
   Poetare al fine di inludere docendo? In un certo senso sì, per Marica. L’illusione, in Grandangolo (“illusorio liquore”) è quella di realizzare un vortice scenico - portentosa fiera dell’ibrido e della metamorfosi – esperito il quale l’io poetico possa riaffacciarsi sulla scena del logos. O per mezzo di paradossali sottrazioni e denegazioni (“un’ampia foglia di cielo/dove ogni grafia si è/ già impressa e dissolta”) oppure, col supporto di aneliti espiatori,  risalendo “la rampa dei sensi”, dunque con quel viatico di dolorosa libido (“sillaberai ogni/ frammento di sospiro/ e d’osso”) sottesa alla scissione e al suo contraddirsi. “Amplessi virtuali”, avverte l’autrice, appercependo la cattura di “qualche chimera geniale”. Saranno appunto chimere (corpuscoli dell’io, tuorli d’anima, dense linfe assurte a “mia calligrafia”, sillabe sibilline, non di rado stringhe di “bypassata memoria” entro un groviglio di ipotiposi incombenti) a configurare – nella spasmodica caccia ai punti d’innesto - le gaudiose quanto controverse nuptiae di parola e immagine, coppia di riferimento per ulteriori ricognizioni tattili o olfattive. Perché in definitiva è nei sensi, in sensi peraltro irrigati con dovizia  da rugiade platoniche, che si celebra l’enigma del dire per figure.
   “Ma sì, fissiamo/ prudenti l’obiettivo/ di sbieco”; o, regolando inclinazioni e aperture, “visioni che fremono/ in parata per obiettivi/ sempre aperti”. Visioni tese a circoscrivere, motu proprio, una singolare mitologia che trova nascita e abbrivo nel corpo.  Mentre la parata, da supporre entro ellissi e spirali, concerne il soma nell’atto di rifocalizzare i suoi attributi ridotti sovente a grumi e molecole (“l’estasi delle molecole”), per mescolarli poi alchemicamente e proiettarli in sempre più eccentriche orbite visuali, verso i territori dell’origine. E proprio nella preverbale chôra semiotica - secondo l’accezione di Julia Kristeva - va a delinearsi l’orizzonte della parola, sia essa rantolo o alleluiah. Non importa se, in un primo tempo, questo orizzonte coinciderà con gli anfratti oscuri  dell’organismo,  fino a toccare il ‘grado zero’ dello scheletro: “ Servitù d’ossa: eredità/ cui mi legano pieghe/ di sillabe e rantolanti/ motti”. Lì sta in effetti il suo misterioso imprinting.
   Lasciando intravedere una sfida a occhio-di-pesce con l’incognito, il grandangolo ci sembrerà un “reziario” in grado di  catturare l’‘obiettivabile’nel suo illusorio insieme. Una chimera, di nuovo. Parata di parvenze, entità riflesse nella parola costantemente in transito, sottratte a fatica “dall’umile cancrena del tempo”, entità che si compongono e scompongono in virtù di qualche astrale congegno,  risagomato magari nell’io sotto forma di  “golem che/ il tornio ha così bene/ levigato”. Questo io golemico ha un desiderio: recuperare l’astro perduto. Gli basta, per rinfocolarlo,  percepire “l’onda zufolare  nella conchiglia incrostata”, o ascoltare un invito come questo: “Coraggio: punta e slaccia/ quel tuo grembo d’ossa”. Un grembo di tutt’altra specie è in attesa. L’importante, come auspicava Baudelaire, è sciogliere l’àncora, elevarsi “au-dessus des étangs,  au-dessus des vallées…”.
 
Su, vita mia,
leviamoci da questa
pozza limacciosa!
Salpiamo per rotte
limpide e sconosciute
senza bagagli, privi
d’identità, di nome:
[…..]


                                                                             Gilberto Isella

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