Di Marica Larocchi – poetessa, critica e
traduttrice dal francese (Baudelaire, Rimbaud e Flaminien in primo piano) avevo
apprezzato in particolare la raccolta Le
api di Aristeo (Book, 2006). Ne avevo registrato una domanda, quasi un auspicio: “Sarà/
quest’occhio fiacco/ il faro di un vivaio più fiero?”. Ora con l’uscita di Grandangolo la sfida al ‘labirinto del
vedere’, adombrata in quell’interrogativo, acquista nuovi accenti. Già il
titolo conduce il lettore per direttissima nella sfera visiva. Nel visibile,
intendo, quale frutto poetico di una scienza ottica nietszcheanamente ‘gaia’,
proiettatata qui su un “arabesco di vene astrali”, su filature veggenti la cui
genesi è da ricondurre in ogni modo al labirinto-‘vivaio’
degli affetti corporei (“vene affilate per/ fendere la nebbia/ degli affetti”).
L’istanza rappresentativa sarà per forza di cose multiprospettica, sottratta per gradi ai condizionamenti
del logocentrismo, e lubrificata da quel “seme di manzia” primario (o logos spermatikos) incompatibile con
griglie semiotiche costituite. Un tappeto verbale che si svolge, a patto di
assumerne l’efficacia espressiva su ‘un’altra scena’, come luogo figurale
espanso, sussulto di topologie cosmiche alla ricerca del loro focus: “Già spremuti/ dalla siringa
cosmica […] sapremo captare ancora/ l’angolo della visione/ nel fuoco che
riposa/ verticale sull’accordo/ in bilico”. Al centro di questo accordo in
bilico tra verbo e visione sembra stagliarsi, ombelico del soggetto, la pupilla
regina.
In
ogni pupilla infatti – organo del cuore - nuotano “virgole” e “lembi di pagelle
stinte”, il cui movimento contribuisce a
dar vita, di poesia in poesia, a un vortice di torsioni, giunture e
disgiunzioni, colpi d’ala e contraccolpi. È la dinamica, detto in breve, che
l’incontro dialogico (seppur fantasmatico) tra sistemi segnici di diversa
natura e specificità presume, e di cui si fa carico, entro il fuoco metrico riverso sull’asse verticale, la
preponderante strofa lunga. Ma dove il vero propellente risiede nel costante
lavoro assegnato alla metafora – artefice di interscambi in questo universo del
tracciabile, potenziatrice della schermaglia amorosa condotta dall’ élan vital con la pagina bianca (le “fiere assenze sulla pergamena/ appena
illuminata”) – e a consimili tropi di straniamento. Sarà ancora la metafora,
figura per eccellenza del transito, a scandire paradossalmente i limiti, le
linee d’ombra da non oltrepassare, affinché il poiein non ceda alla
tentazione di farsi ‘esubero’ o puro
spreco: “Per le papille rimaste/ a gustare la fine degli/ alfabeti, ecco di
nuovo/ la tortura dei verbi, via!”.
“Via!”, tra papille e pupille, attraverso campate
testuali ‘a grandangolo’ dove il linguaggio verbale, nel suo scindersi fino a
lasciarsi penetrare dall’altro da sé, “interiorizza il figurale
nell’articolato”, come direbbe Lyotard. Ma se l’occhio irrompe nella parola è anche
grazie al gesto poetico che si ripromette di riparare (almeno parzialmente)
quella scissione, attizzando del linguaggio l’hybris e il furore oltrante, sfruttandone le incontenibili
ambizioni sinestesiche in vista di un, ipotizziamo, geroglifico orizzonte di
salvezza (“Pure Lei/ leva braccia e pupille/ verso la prua dell’orizzonte”). A
venir rimessi in circuito, in simile circostanza, sono materiali allegorici di
squisito timbro baudelairiano.
Poetare
al fine di inludere docendo? In un
certo senso sì, per Marica. L’illusione, in Grandangolo
(“illusorio liquore”) è quella di
realizzare un vortice scenico - portentosa fiera dell’ibrido e della
metamorfosi – esperito il quale l’io poetico possa riaffacciarsi sulla scena
del logos. O per mezzo di paradossali
sottrazioni e denegazioni (“un’ampia foglia di cielo/dove ogni grafia si è/ già
impressa e dissolta”) oppure, col supporto di aneliti espiatori, risalendo “la rampa dei sensi”, dunque con
quel viatico di dolorosa libido (“sillaberai ogni/ frammento di sospiro/ e
d’osso”) sottesa alla scissione e al suo contraddirsi. “Amplessi virtuali”,
avverte l’autrice, appercependo la cattura di “qualche chimera geniale”.
Saranno appunto chimere (corpuscoli dell’io, tuorli d’anima, dense linfe
assurte a “mia calligrafia”, sillabe sibilline, non di rado stringhe di
“bypassata memoria” entro un groviglio di ipotiposi incombenti) a configurare –
nella spasmodica caccia ai punti d’innesto - le gaudiose quanto controverse nuptiae di parola e immagine, coppia di
riferimento per ulteriori ricognizioni tattili o olfattive. Perché in
definitiva è nei sensi, in sensi peraltro irrigati con dovizia da rugiade platoniche, che si celebra l’enigma
del dire per figure.
“Ma sì, fissiamo/ prudenti l’obiettivo/ di
sbieco”; o, regolando inclinazioni e aperture, “visioni che fremono/ in parata
per obiettivi/ sempre aperti”. Visioni tese a circoscrivere, motu proprio, una singolare mitologia
che trova nascita e abbrivo nel corpo. Mentre
la parata, da supporre entro ellissi e spirali, concerne il soma nell’atto di rifocalizzare i suoi attributi
ridotti sovente a grumi e molecole (“l’estasi delle molecole”), per mescolarli poi
alchemicamente e proiettarli in sempre più eccentriche orbite visuali, verso i
territori dell’origine. E proprio nella preverbale chôra semiotica - secondo l’accezione di Julia Kristeva - va a
delinearsi l’orizzonte della parola, sia essa rantolo o alleluiah. Non importa
se, in un primo tempo, questo orizzonte coinciderà con gli anfratti oscuri dell’organismo, fino a toccare il ‘grado zero’ dello
scheletro: “ Servitù d’ossa: eredità/
cui mi legano pieghe/ di sillabe e rantolanti/ motti”. Lì sta in effetti il suo
misterioso imprinting.
Lasciando
intravedere una sfida a occhio-di-pesce con l’incognito, il grandangolo ci
sembrerà un “reziario” in grado di catturare
l’‘obiettivabile’nel suo illusorio insieme. Una chimera, di nuovo. Parata di
parvenze, entità riflesse nella parola costantemente in transito, sottratte a
fatica “dall’umile cancrena del tempo”, entità che si compongono e scompongono
in virtù di qualche astrale congegno, risagomato
magari nell’io sotto forma di “golem
che/ il tornio ha così bene/ levigato”. Questo io golemico ha un desiderio:
recuperare l’astro perduto. Gli basta, per rinfocolarlo, percepire “l’onda zufolare nella conchiglia incrostata”, o ascoltare un invito
come questo: “Coraggio: punta e slaccia/ quel tuo grembo d’ossa”. Un grembo di
tutt’altra specie è in attesa. L’importante, come auspicava Baudelaire, è sciogliere
l’àncora, elevarsi “au-dessus des étangs, au-dessus des vallées…”.
Su,
vita mia,
leviamoci
da questa
pozza
limacciosa!
Salpiamo
per rotte
limpide
e sconosciute
senza
bagagli, privi
d’identità,
di nome:
[…..]
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