Appena un
delicatissimo aroma che si sparge da una boccetta aperta, è quanto ci è dato
avvertire dalla lettura delle poesie inedite che Stefano Iori ci ha concesso di
conoscere in anticipo e che faranno parte della sua prossima silloge. La delicatezza è quasi una
sua cifra stilistica, ma ci sembra qui ancor più esaltata dalla rastremazione
dei mezzi: rare voci verbali, nomi collezionati nei pressi del corpo e della
natura, i quali creano più un diradamento che una semplificazione, più un’evaporazione,
appunto, che una raccolta di oggetti. Vi è presente non solo l’accumulo, ma
anche l’alternativa, il sentirsi messi ogni volta di fronte a un bivio dinanzi al
quale si debba scegliere, ma che sul momento annichilisca. La poesia di Stefano
Iori, partendosi dal contingente, tenta
dapprima di approdare all’idea. Alla presa salda che sul reale può effettuare
soltanto la formulazione di un concetto, ma forse questo è messo in dubbio in
un successivo frangente, ove parrebbe si opti per l’azione. Spesso, raggiunta tramite una sorta di
esaurimento dei sensi connotativi di un tema, più spesso ancora mirante a
individuare una sola nozione che riesca a rovesciare il senso della
costellazione semantica, così come si rovescia un guanto. C’è sempre un modo di
guardare che sfrutta lo stato delle cose
per rifonderlo in nuova progettualità. Non importa se illusorio potrebbe
apparire l’atto di trasformare il reale: è certo che l’azione, la disposizione
mentale a vedere diversamente racchiude in sé valore autonomo. Con tale prospettiva,
la poesia dischiude a se stessa un’area di agibilità fattuale, apre persino a
uno spazio di condivisione lì dove non esplicitamente si fa riferimento a una
collettività. Ci accorgiamo, infatti,
che essa è in qualche modo presente tramite l’umanizzazione degli oggetti: il
tavolo lacrima, le carte mordono, il ricamo si fa turpe: sorta di
socializzazione, la quale rimanda a una
folla di astanti, anche se seduti in platea. Centrale, per il poeta risulta il
lavoro condotto su di sé, lo scavo inesausto che però presenta il frutto del
proprio lavoro in relazione a un pubblico. Tre poesie… soltanto… ma restiamo in
attesa dei restanti profumi…
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Viso di
vento
o
piglio leonino
ghigno
sfondato
o
guance di seta
È
diritto abete
É
sbilenco ulivo
A volte
maschio
altre
femmina mancina
Vien
cantando
con la
falce in spalla
vien
ridendo
con
passo d'ombra
Mi vede
e saluta
mi
tocca e sfiorisco
Dopo
poco
risorgo
in forza
con
cuore d'atleta
e
lucida mente
Solo la
pelle mia
tradisce
l'inganno
Trama
fitta e dolente
di
sfregi passati
rude
scrittura
turpe
ricamo
Nessuna
evidenza
di fine
sutura
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Accolgo
distratto
quel
tanto che basta
a
carpire schegge
di voci
chiassose
Annullo
toni
enfasi
e
bersagli
Trascrivo
parole
di
seguito
sole
lavate
dal tanfo
di nomi
scaduti
Le
conto e le canto
pulite
infine
Salmo
negato
se l'udito è corrotto
ghiotto di lusinghe
bramoso d'illusione
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Notte
Legni
si piegano
sotto
il peso dei libri
Macchine
e carte
mordono
il tavolo
che
piange nel buio
con
gemito sottile
Notte
La
sedia respira
senza
il mio peso
Leggerò
domani
ciò che
non ho scritto
Stefano Iori,
mantovano, è giornalista professionista. In gioventù ha recitato per il Teatro
Autonomo di Roma e poi fondato la compagnia Ipadò (otto regie). Si
è rivelato alla critica e al pubblico con la monografia critica I
Grandi del Cinema: Tinto Brass (Gremese Editore, 2000). Varie le sue
collaborazioni, tra cui quella all’Editoriale Giorgio Mondadori. Ha firmato tre
sillogi poetiche: Gocce scalze (2011), Sottopelle (2013,
con prefazione di Gio Ferri) e L’anima aggiunta (2014,
edizione italiano-inglese con prefazione di Beppe Costa). Numerosi i premi e le
segnalazioni nel suo curriculum poetico. È presente in numerose antologie, fra
tutte l’Enciclopedia di Poesia Contemporanea (Fondazione Mario
Luzi, 2013). La giovinezza di Shlomo è il suo primo romanzo.
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