venerdì 16 ottobre 2015

Manlio Monti: Pittura



Nomade, si aggira tra materie incongruenti, sul limitare della loro accostabilità e, simile al dio Vulcano, trova il modo di forgiare il loro innesto.

La carta sulla tela ha sempre un che di precario per i lembi mal disposti all’adesione, l’umidità che erutta bolle, le fibre che si torcono e si rigonfiano secondo leggi contrastanti. Ma la coesione deve essere raggiunta poiché resistere deve all’onta del tempo e aver ragione, con la costrizione, dell’ibrida unione.

Sulla tela la carta incollata costruisce profondità e spessori proprio mentre offre il minimo appiglio. Vi si formano sacche di penetrabilità, sottolineate da ombreggiature di pigmento nero: sorta di colla tirata per la manica.

La carta, trattata, indica una tendenza mistificatoria: non vuole apparire come tale, ma come sostanza avente caratteristiche appartenenti ad altre materie, trascinando la tela in una comune sorte artificiale.

Foglio incartapecorito, pergamena pronta ad accogliere figura che non verrà: assenza che desidera presenza e pone come visibile solo il supporto che la implora.

È simile a un innesto che resista nonostante si  percepisca estraneo al contesto, pure se è sostenuto da asfalto nero che equilibra le masse. Bitume vi appare come colore, persino trasparente, rispetto all’opaca carta.

L’inserzione del foglio è un espediente per introdurre una forma, la quale a sua volta è il pretesto per inserire un colore che subisce una trasformazione su un differente supporto. Tuttavia, la sua immissione è bacata da tramature: quasi una tela lasca, il colore deposto su una carta!

La ponderatissima disposizione di pigmenti insistenti sulle forme ritagliate determina la loro calibratura. Giacché, se in natura il contorno non esiste, la forma è visibile proprio sul limitare fra figure, supporto e pigmento colti in un dialogo  esacerbato che si sia appena placato.

Tra obliati verdi, antichi, e cobalti che si pongono come trapasso tra il verde e il blu, simili ad acquoree vegetali ricorrenze, stanno iridescenze di ghiaccio o brumose velature, ad accordare alla terra e al cielo, l’etichetta di marcescibili oggetti. 

Persino imponendo una lumeggiatura al colore, un suo sfinimento mostrante la superficie sottostante,  giungente fin quasi alla sua elisione, la rappresentazione resiste assieme al dato metapittorico che vuole che l’illusione sia il portato principale della metamorfosi materiale. Quadro non è che specola di supposta intimità.

Con cielo e bituminoso ocra forgia le membra dell’essere che più non riesce a permanere integro. Tra l’azzurro profondo e risonante per le alte sfere e una brunita pelle in controluce, riconosco un pene, un arto, lo snodo delle gambe.

Son corpi di Icaro in libera caduta. Son busti, tornite bronzee membra gettate nell’acqua da vertiginose altezze. Uomo si volle dio nella regola divelta, nella libera devianza.

Di siffatto alfabeto corporale, qui si declina poema primordiale, di cosmico originario afflato, forgiato nel bronzo, non ancora patinato. Non integro né completo, forse già precipitato dallo smaltato cosmo.

Colloquio solitario, riverberante fra due soli colori,  e solo fra alcuni rigidi tronchi o rugginosi arti, ha però i barbigli della terra vista da lontano, in uno splendore non intaccato dai particolari.

Dalle vertiginose altezze alle catramose interiorità della terra, nessuna mediazione: se non la forma, la zolla da plasmare. L’atto è simile a quello che traccia lineari rotte fra le stelle, quelle che, fra le tante possibili, determinano arbitrarie figure e solo quelle.

Nelle interiorità del cosmo, il ghiaccio ricopre le forme e le conserva, blocca ogni corruzione, anche delle più volgari materie. Lì si congela ogni categoria, si bloccano cerniere, ogni dialettica tensione fra contrari. Solo pittura mette a nudo, fuoco appiccando.

Corpo resta riconoscibile anche se sottoposto a deformazioni, tirato  a destra e a manca come canovaccio; deposto o issato come un cristo morto. Dal corpo si formano per erosione, arcipelaghi e lastroni di ghiaccio, isole e lingue di rossa terra.

Ossa e denti di narvalo che hanno perso la loro tornitura, delfini, busti e pietre, paesaggi marini e quarti di bue, in stringatissima sintassi, di fangosa o carnale sostanza. Sembrerebbe natura, invece è bituminosa pittura, sfolgorante ideazione.

                                                                                                Rosa Pierno



Manlio Monti e' nato a Locarno l'11 maggio 1948. Dopo le scuole dell'obbligo ha seguito per tre anni il Centro Scolastico per le Industrie Artistiche di Lugano. A Losanna ha frequentato per quattro anni l'"Ecole Cantonale d'Art et d'art appliqué". Dal 1971 insegna nelle scuole secondarie del Cantone. Vive e lavora a Locarno, dove ha un centro per l’incisione e una casa editrice.

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