Ecco l’abitazione dell’uomo. Si eleva dietro i cancelli, in un presente invaso dallo sgomento – “adesso il mondo non è più remoto. / Sta tutto adosso a noi, / tutto pigiato nelle / stanze sgomente” –, e ha le fondamenta altrove, in un passato che non dà scampo: “Ti ha sbigottito la scoperta della / vasta senza conforto orfanezza del mondo?”.
L’abitazione dell’uomo si trova proprio davanti a noi, ci segnala Fernando Bandini. Eccola qui, tra un presente, dove non si possono imparare che “le lingue della notte”, e un passato da cui non ci giungono che risposte tardive: “Il titolo del libro Penny Wirton / e sua madre, l’autore Silvio D’Arzo”.
“Quante cose / e parole che non ci sono più”, osserva Bandini. Ma, anche se ormai sono sepolte nel sottosuolo del tempo, il poeta non rinuncia alla nominazione, e nel nominare non desiste dall’attingere parole che sappiano ancora porsi in stretta relazione con i princìpi su cui si fonda l’essere umano.
Nel farlo, il poeta infonde alla materia verbale una leggerezza estrema. È come se all’attrito di un passo sapesse ogni volta sostituire la linea filante di un volo; è come se la parola toccata dalle sue mani improvvisamente si svuotasse di ogni gravosità.
La caduta di questa resistenza conferisce luminosità all’abitazione dell’uomo. La rende aerea, fin quasi invisibile – e insieme la impone al nostro sguardo.
La tensione poetica verso l’inconoscibile e l’incomunicabile è eletta a momento positivo dell’esistenza, da contrapporre all’intento di colonizzare la mente che è assimilabile al linguaggio della cronaca, del disamore: vera e propria violazione dello spazio altrui.
Al “caccia / che fa le acrobazie / e scrive Dux nel cielo” come non preferire “l’orlo di una remota proda / stellare”? Tanto che arriva puntuale a questo proposito la precisazione: “Noi eravamo in fuga / verso l’azzurro soprannaturale / di un’altra storia”.
Tra passato e presente non vi è una sostanziale differenza. Il dolore li accomuna, rendendo uniforme quella moltitudine di soggettività che ci abita.
Ecco l’abitazione dell’uomo. Qui, in queste stanze, è forte il richiamo a radicarsi nella vicinanza dell’essere, dov’è consentito all’uomo di ritrovare la propria essenza, e farsi di nuovo custode della verità.
Ma produrre l’abitare è concepibile solo se l’abitare è originariamente connesso al costruire.
Lo spazio abbracciato da Bandini diventa quasi sempre un omaggio in nero all’uomo. Un innalzamento e una diminuzione. Un richiamo alla responsabilizzazione (“Perché ti affanni / a correre? C’è il vuoto alle tue spalle, / i fantasmi di Aznèciv non t’inseguono più!”) e una voce screditante (“sei troppo vecchio, troppo rassegnato / alla tua sorte”). Nell’articolarsi delle sue forme, questo atteggiamento ossimorico assume il tono amaro della malinconia.
L’uomo del nostro tempo, quale insieme di particolazioni eterogenee, trova il suo fedele ritratto in queste poesie, dove non cessa di manifestarsi il senso di un totale relativismo che rende ogni prospettiva incerta e deludente.
“Molte case ho abitato insieme agli angeli” registra Bandini. E, anche se poi in apparenza “gli angeli sono scomparsi”, è pur vero che un suono, non ancora la parola, rivela che di angeli “ne è rimasto qualcuno: si sente / da un breve tintinnio di vetri il suo librarsi / mattutino nell’ombra che si sfalda”. Un gesto. Ma è un gesto che ci parla di vertigini: “lo sentii vicino: / invisibile e muto davanti all’abbaino / parava con le ali la vertigine / dei miei sensi, il mio orrore di cadere”.
È un gesto che ci induce a liberare la narrazione poetica da ancoraggi da terra. E farla salire nel cielo di una realtà seconda, nella quale l’uomo possa vivere rivelando la sua natura di essere non confinabile nei limiti dell’apparenza.
Nell’abitazione dell’uomo si possono cogliere i contrassegni più evidenti della nostra essenza – disparati, inconciliabili, esplodenti –, tradotti in una vibrante tensione.
Lo spazio occupato da queste stanze, inclini più alla negazione che alla positività, è quello dell’approccio e della repulsione, della comunicabilità e dello scontro, della coerenza e della contraddizione.
In questo modo Bandini rende visibile la natura di un mondo in bilico fra compattezza e fatiscenza. Ecco perché i gesti dei suoi angeli sopravvissuti ci parlano di pianure verdi e, insieme, di “mattini di macerie”.
Nello spazio abbracciato da Bandini l’uomo perde il suo involucro, per mostrarsi nella trasparenza della sua verità interiore. Non è più diretto necessariamente da qualche parte, non ha più mete da raggiungere, ma non per questo è finalmente libero di realizzare la responsabilità delle sue storie.
Fugge da se stesso, per ritrovarsi in un luogo che fa appello all’occhio della nostra sensibilità.
Questo luogo si chiama poesia: poesia che racconta storie di pensiero, dove il battito cardiaco s’intreccia al ritmo che sostiene l’universo, alla catena delle nascite e delle rinascite; poesia che produce una specie di varco che apre verso “l’infinità dei luoghi del non-dove”; poesia dove la riflessione sul fare diventa riflessione sull’essere: quando entra in causa l’uomo che si fa lingua dichiarando la volontà di non piegarsi allo spirito del tempo: “Io sto ai margini e l’evo non m’inghiotte / nel suo avido imbuto”.
Fernando Bandini, Dietro i cancelli e altrove, Garzanti, Milano 2007
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