La nuova stagione del cinema, quella della definitiva transizione al digitale e del tramonto, dopo oltre 100 anni di onorata carriera, dell’amata pellicola, è stata tradizionalmente aperta dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, giunta quest’anno al suo settantesimo compleanno. Un appuntamento chiave, quello del più antico e prestigioso festival cinematografico del mondo, anche per capire lo stato di salute del cinema italiano. Dato perennemente in crisi, con l’emorragia del pubblico in sala che non sembra arrestarsi (12 milioni di biglietti in meno nel 2012) e il disinteresse quasi “istituzionale” della politica, il cinema del Belpaese, a distanza di 15 anni dal successo di “Così ridevano” di Gianni Amelio, conquista nuovamente il Leone d’oro, invitando a una riflessione approfondita sulla produzione recente e su un sistema in tumultuosa trasformazione.
Contrariamente alle aspettative, non è stato lo stesso Amelio a fare il bis. “L’intrepido” ha parzialmente deluso i critici e il pubblico. Non è bastata l’amarezza esistenziale e la struggente maschera da perdente del solito immenso Albanese, nei panni di un uomo costretto ad arrangiarsi come “rimpiazzo” lavorativo, a convincere la giuria presieduta da Bernardo Bertolucci. Il massimo riconoscimento è andato, a sorpresa ma non troppo, a “Sacro GRA”, di Gianfranco Rosi, già vincitore in laguna della sezione Orizzonti grazie al precedente “Below sea level”. Tecnicamente un documentario – la prima volta di un documentario italiano in concorso a Venezia – “Sacro GRA” è l’affresco di un’umanità marginale che gravita intorno al Grande Raccordo Anulare di Roma, in una sorta di controcampo della ‘grande bellezza’ sorrentiniana. L’autostrada circolare che avvolge la capitale diventa una cerniera che separa il mondo urbano e moderno della metropoli dai residui di civiltà arcaica e contadina (simboleggiati dalla mandria di pecore della sequenza iniziale) che sopravvivono all’esterno. Entra nel palmarès anche il terzo film italiano in concorso, “Via Castellana Bandiera”, di Emma Dante, regista teatrale di avanguardia, qui al suo debutto dietro la macchina da presa. La protagonista Elena Cotta, interprete teatrale di lungo corso, vince la Coppa Volpi quale migliore attrice. Un esordio ispirato quello della regista palermitana, abile nel raccontare sotto forma di metafora la resistenza al cambiamento del Meridione d’Italia, ancora prigioniero di una cultura atavica e ancestrale.
Nell’altra sezione competitiva della Mostra, “Orizzonti”, riservata ai talenti emergenti, ritroviamo, nuovamente alle prese con un’opera di finzione, il documentarista Andrea Segre. L’autore padovano, da anni impegnato nel raccontare il fenomeno dell’immigrazione nel nostro paese (“Il sangue verde”, “Io sono Li”, “Mare chiuso”), realizza “La prima neve”, una dolorosa storia di amicizia ambientata nella tranquillità alpina della Valle dei Mocheni. In questa remota vallata del Trentino, abitata da una minoranza di origine germanica, incrociano i loro destini un profugo africano, scampato al naufragio di un barcone della disperazione, e un adolescente italiano rimasto orfano del padre, caduto in montagna. Il Nord Est è ancora protagonista in “Piccola patria”, di Alessandro Rossetto: un ritratto del Veneto leghista e xenofobo, dove il culto degli ‘sghei’ ha travolto ogni residuo di coesione sociale e senso identitario. Ha maggiormente il taglio della commedia, ma non rinuncia alla vocazione sociale, “Il terzo tempo”. L’esordio nel formato lungo del giovane Enrico Maria Artale, già apprezzato autore di cortometraggi, segue la rinascita, attraverso il rugby, di un giovane sottoposto a un regime di rieducazione. Una storia di riscatto attraverso lo sport, che non ha mancato di suscitare l’interesse di un produttore dal fiuto lungo come Aurelio De Laurentiis, attento alle commistioni tra le due forme di spettacolo al centro del suo business aziendale.
Bisogna uscire dal Concorso, però, per individuare il film italiano che ha riscosso gli applausi più convinti del Lido. Si tratta di un altro esordio, quello di Matteo Oleotto, proveniente dalla fucina del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il suo “Zoran, il mio nipote scemo” ha vinto per acclamazione il premio del pubblico della Settimana della Critica. Ambientato sul confine tra Italia e Slovenia, nelle caratteristiche ‘osmize’ – le tipiche trattorie di campagna del territorio carsico – il film di Oleotto racconta l’impossibile redenzione di un altro perdente, Giuseppe Battiston, alle prese con un lontano parente, incrociato per questioni di eredità. Un legame inizialmente di interesse, alimentato anche dall’infallibile abilità di Zoran nel lancio delle freccette, destinato a trasformarsi in un’occasione di riscatto sociale. Pur nella diversità degli stili e dell’approccio produttivo, la disgregazione della famiglia è stato il tema centrale dell’edizione 2013 della Mostra di Venezia. E’ stato l’evento speciale di apertura della Settimana della Critica “L’arte della felicità”, unico film napoletano presente a Venezia. Opera di animazione, prodotta da Luciano Stella, direttore dell’omonimo festival a tematica filosofico-esistenziale, “L’arte della felicità”, diretto da Alessandro Rak, tiene a battesimo una neonata factory di giovani talenti napoletani, la Mad entertainment, dove l’acronimo Mad sta ad indicare Musica, Animazione, Documentari. A giudicare dalla calorosa accoglienza, sentiremo parlare a lungo di questa nuova realtà creativa e produttiva.
La questione immigrati è al centro di un altro interessante film italiano, presentato nella sezione autonoma delle “Giornate degli Autori”. “La mia classe”, di Daniele Gaglianone, segue le vicende di una classe di italiano per stranieri, gestita dal ‘maestro’ Valerio Mastandrea. Un percorso ad ostacoli, tra intoppi burocratici, permessi di soggiorno che scadono e difficoltà linguistiche, sulla strada dell’integrazione e del compimento di un’autentica società multietnica. In abbinamento a “La mia classe”, un breve lavoro di animazione, “Secchi”, di Edoardo Natoli, applauditissimo dalla platea veneziana. Lo sport ritorna invece ne “L’arbitro”, il film di pre-apertura delle Giornate. Estensione e potenziamento dell’omonimo e premiato cortometraggio di Paolo Zucca, un film in bianco e nero onirico, visionario e grottesco per raccontare una storia di rancori e soprusi, meschinità e inganni, in una Sardegna arcaica e affascinante.
Fuori concorso, infine, alcune chicche che difficilmente troveranno sbocco nella normale programmazione delle sale, sia perché fuori formato che per la loro natura sperimentale. E’ il caso de “La voce di Berlinguer”, l’omaggio al rimpianto leader della sinistra italiana, da parte del critico Mario Sesti e del musicista Teho Teardo. Un breve frammento di 20 minuti, con le immagini e i suoni dell’ultimo comizio tenuto da Berlinguer a Padova, prima della fatale emorragia cerebrale, proposto in abbinamento a un interessante documentario, “Summer 82 – When Zappa came to Sicily”, che ricostruisce il viaggio del famoso musicista americano nell’isola dei suoi avi. Altra dolorosa vicenda è quella raccontata da Costanza Quatriglio, documentarista di successo, in “Con il fiato sospeso”, dedicato alla poco nota vicenda degli studenti di chimica ammalatisi o deceduti in seguito al contatto con le sostanze letali dei laboratori universitari. Tracce di Italia anche nel megaprogetto “Venezia 70 – Future reloaded”: 70 cortometraggi di altrettanti autori per rendere omaggio alla Mostra nel suo settantesimo anniversario. Tra gli autori coinvolti, i napoletani Antonio Capuano, Guido Lombardi e Pietro Marcello. Unica eccezione al mancato approdo nelle sale è la bellissima testimonianza di affetto di un maestro come Ettore Scola al collega e amico Federico Fellini. “Che strano chiamarsi Federico” rievoca gli anni dell’arrivo a Roma e dell’ingresso nel mondo del cinema dei due grandi registi, nella palestra del giornale satirico Marc’Aurelio. Un imperdibile revival sull’infanzia del cinema italiano.
Citazione finale per un artista, italiano di nome, ma britannico di formazione: Uberto Pasolini. Già produttore di un cult-movie come “Full Monty”, Pasolini firma la regia del più commovente e struggente film di Venezia 70. Si intitola “Still life” e racconta la storia di un impiegato del comune di Londra, incaricato di presenziare ai funerali delle persone morte in solitudine. Un lavoro svolto con diligenza e professionalità, fino a quando la scure dei tagli e della crisi imporrà il taglio del servizio. Un gioiello misurato e toccante che, per fortuna, sarà distribuito in Italia grazie alla Bim.
Giuseppe Borrone
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