domenica 13 ottobre 2013

Gabriella Drudi su “Buio e Blu”di Rosa Pierno, edizioni Anterem, 1993

Mi piace di Rosa Pierno il modo in cui vive la scrittura, “cosa in sé” che si configura e prende senso nell’atto dello scrivere. Grandi esempi nella letteratura di oltre un secolo ci insegnano come in una situazione creativa che parte da tale premessa l’oggetto della narrazione perda corpo, perda identità, si renda instabile, per non dire inattendibile, alluda o illuda di un racconto sganciato da ogni logica discorsiva, dove i “fatti” fluttuano in momenti temporali privi di consequenzialità, e relitti di eroi ed eroine agiscono secondo un impulso dettati da tic isterico o dalla catastrofe psicologica. Il mutamento del rapporto soggetto-oggetto-strumento è certo sintomo di una devianza nel desiderio dell’io narrante, giacché chiunque narra non narra che di sé. Vivere la scrittura come un’azione, un enunciare da cui si attende la replica che ti darà il tuo limite - sia conclusione sia definizione -  lo scenario verbale dove potrai intrometterti, i tempi della frase in cui riconoscerai il tuo tempo interno, significa andare verso l’ignoto, e per lo più fallire. Atto di mediazione la scrittura che tende a nominare non in presa diretta ma lasciando emergere l’esperienza profonda, quanto accadde nella psiche a confronto con il vissuto, è necessariamente un venire a patti con l’oscurità che portiamo in noi, che dal nostro patire e agire si è nutrita, e che rimane informe se non trova la parola. Di volta in volto inconcluso il desiderio di darsi un volto si riaccende, immotivato e sola umana speranza. Che non abbandona. Perché la parola, vicinissima alla verità, vicinissima alla menzogna, è formularsi del nostro essere la mondo.

Se nessuna circostanza di fatto è solo ciò che è ma indizio di un dato interiore, ecco che l’ansia dell’oggetto si dimostra indizio di inconsistenza dell’interiore stesso. L’oggetto annientato annienta l’identità dell’individuo. La scrittura muoverà allora da una rinuncia fondamentale  e andrà seguendo altre logiche - foniche, allegoriche, retoriche, strutturali.

Perché non concepire come opera d’arte l’esecuzione di un’opera d’arte? Scriveva più o meno Valéry. E perché non travisare Valéry? Muovendo dalla situazione creativa cui accennavo, Rosa Pierno percepisce l’ontologico come ombra incongrua, da decifrare, contaminarsi di cellule del reale, che tuttavia testimoniano dell’esistenza di uno sguardo, di un soggettività in grado di accostarsi, osservare, intervenire persino – tramite la scrittura. Emerge da queste pagine una individualità in stato d’assedio. Ma è proprio attraverso l’indagine sull’assediante, sui suoi trucchi, i suoi mancamenti, che a tratti, per schiarite,ripensamenti, improvvise sortite, si formula un’identità soggettiva. Si tratta, fatalmente, di individualità neutra, più che dilagante, una sorta di campione umano embrionale se non traumatizzato dalla nascita. Il suo rapporto con le cose, aggressione e dipendenza insieme, mostra qualche inattesa affinità con le contaminazioni figurali di Francis Bacon.

Seguendo ossessivamente il visibile nel suo comporsi e decomporsi Rosa Pierno arriva a demistificare l’annientamento dell’io narrante. Queste prose si danno una maschera, ed è la maschera della descrizione. Uno sguardo segue ciò che vede. Chi guarda? Poco importa. Si direbbe una ripresa dell’école du régard. Se ogni cronaca è falsa, ogni visionarietà illusoria, ogni fantasia arbitraria, non resta che tornare alla percezione prima del mondo esterno: affidarsi allo sguardo. L’uso quasi costante del verbo al presente sembra accreditare l’influenza di quella scuola. Ma la realtà ontologica di Rosa Pierno è già mediata, già rappresentazione. Sì, incomincia umilmente, seguendo lo sguardo, anonimo, che muove da cosa a cosa, ma le cose di cui si parla sono disegni, dipinti, paesaggi visti in cartolina, se non raffigurati da un artista naif. E poi sculture, madonne e santi, nature morte di conchiglie e bicchieri. Con tale deposito di relitti si delimita la messa in scena del racconto, e si conclude il prologo, come in attesa che si facciano vive le dramatis personae.

Cose sotto osservazione. E però si dubita che siano questi i protagonisti del dramma. Il descrivere non è mai puntuale, anzi spesso soggetto a colpi di mano ingiustificabili in tanta presunta calma e indifferenza, nell’assenza di un io centrato, o che, anche di sbieco, voglia esprimersi. Inopinatamente riflessioni incongrue, spezzoni di frasi che riaffiorano da memorie letterarie, gesti automatici, di sovente traversati da oscura violenza, lasciano intravedere un’immagine informe, modulata dall’ombra. Immagine? Di chi? Mister Hide? Come rispondere? Direi che per Rosa Pierno la modalità del visibile non è affatto ineluttabile. D’altronde la pagina , la stessa frase viene ripetutamente sottoposta a traumi non trascurabili.

Il materiale ontologico a cui Rosa Pierno si affida è materiale di secondo grado. Si direbbe che speri di trarne  - non so. Ombra, fantasma, larva dell’esistere? All’inizio Rosa Pierno compita il suo oggetto, lo descrive con una sorta di devozione coatta. Se non passività. Quasi non sapesse che cosa sta facendo. Quasi copiasse le aste della scrittura del suo oggetto.

Certo in Rosa Pierno il desiderio di narrare è irrinunciabile. Se pure consapevole dell’assurdità dell’ipotesi lo vive quale affermarsi di un’identità. Identità soggettiva. Dando per scontato che narrare è il compiersi di una frase , la rinuncia a una logica discorsiva  in favore di ritmi, cromatismi verbali, citazioni, manie ecolaliche, Rosa Pierno sperimenta la prosa come un artista brut, la voce dell’incognito, voce umana, più complicata, se volete, meno limpida di quella di altri animali, ma comunque voce, inaudibile ai sordi, sottofondo forse, ma comunque partecipe di quell’intrico scarsamente visibile, solo a tratti tangibile, che in crisi di modestia chiamiamo natura  e pomposamente il nostro universo.

Descrivere fuori da una ragionevole struttura spaziale , narrare al di là della convenzione temporale e interrompere questo quieto tracciato con frasi incongrue, allusive persino, significa far trapelare un io informe , dai lineamenti sfatti, ma non impossibile, non irraggiungibile. Miserabile nascita, insensato miracolo. E tuttavia Rosa Pierno ostinatamente lo annota. Pagina dopo pagina tratteggia il suo insopprimibile autoritratto.

                                                                                          Gabriella Drudi     

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